Lo sviluppo della banda larga e del 5G saranno centrali nella politica del nuovo governo Draghi, che dovrà indirizzare parte dei fondi del Recovery Plan europeo verso la digitalizzazione del Paese e di conseguenza anche verso il potenziamento della rete internet. Un compito urgente, riservato in particolare a Vittorio Colao, l’ex numero uno di Vodafone e ora ministro dell’Innovazione.
Ma sia SuperMario, sia Colao dovranno vedersela con un nemico insidioso, capace di frenare qualsiasi slancio innovatore: la burocrazia. E quando si parla di scavare buchi per posare la fibra ottica o di montare antenne per la telefonia mobile, beh, i bastoni infilati tra le ruote degli operatori telefonici possono essere tali e tanti da far desistere anche i più forti. Un esempio? A Firenze già nel 2013 Fastweb aveva progettato una rete in fibra che sarebbe dovuta arrivare fino all’ultimo miglio, cioè fino ai cosiddetti armadi o cabinet, le centraline in prossimità delle abitazioni. Il piano prevedeva l’installazione e la cablatura di circa 800 armadi nel giro di pochi mesi. Erano stati previsti anche cabinet interrati, in modo da non interferire con i vincoli paesaggistici. Ma la difficoltà di ottenere permessi in tempi rapidi ha spinto Fastweb a eliminare Firenze dal piano di cablatura. Un secondo tentativo, in collaborazione con altri operatori, venne fatto nel 2015, ma in quasi un anno vennero installati solo 65 armadi. Il progetto si è chiuso nell’ottobre 2017 con 354 armadi installati, a fronte degli 800 previsti inizialmente per dare una copertura omogenea.
Le lungaggini di Firenze non rappresentano un caso limite: secondo un rapporto dell’Asstel, l’Associazione che rappresenta le aziende del settore delle telecomunicazioni, i tempi per ottenere tutti i permessi necessari per realizzare una rete a banda ultralarga possono superare i 200 giorni, quasi sette mesi. In pratica, se vivete in un quartiere che non ha la fibra ottica e una compagnia telefonica decidesse in marzo di portarvi la banda ultralarga, i lavori potrebbero iniziare solo a settembre. Altre che internet ad alta velocità!
Per realizzare un’infrastruttura di telecomunicazioni in una grande città come Roma occorrono mediamente cinque permessi da altrettanti enti diversi: autorizzazione allo scavo e ordinanza al traffico del Comune, autorizzazione archeologica-monumentale, autorizzazione paesaggistica, autorizzazione ufficio giardini, autorizzazione del dipartimento Simu per la grande viabilità. A questi permessi si possono aggiungere eventuali richieste di modifica progettuale da parte delle amministrazioni coinvolte. Il guaio è che per cominciare un lavoro le compagnie hanno bisogno del 100 per cento dei permessi. E ognuno richiede il suo tempo. Risultato: occorrono in media 120 giorni prima di avere tutti gli ok, ma si possono anche superare i 200 giorni.
E non è che in campagna, lontano dalle metropoli, la situazione migliori. Anzi: in un comune di un’area rurale, rivela l’Asstel, occorrono mediamente i permessi di sei enti diversi, con una tempistica che può raggiungere i 250 giorni. Una giungla che il decreto Semplificazioni dello scorso settembre ha cercato di sfoltire introducendo una forma di silenzio-assenso da parte delle amministrazioni pubbliche su alcune fasi del processo autorizzativo.
Ma non basta, perché resta un’eccessiva frammentazione di enti che devono dare i permessi: il comune o la provincia sono infatti solo alcuni dei soggetti chiamati ad autorizzare i lavori, ci sono anche le aziende come l’Anas, le Ferrovie, le società autostradali. Con le quali la regola del silenzio-assenso non vale. In media, come abbiamo visto, occorrono sei permessi di altrettanti enti diversi. Senza contare che non sempre i comuni accettano passivamente l’apertura di cantieri per le strade, poco graditi ai cittadini, e magari si inventano ulteriori richieste per rallentare o bloccare gli scavi.
Fastweb, secondo operatore dopo Tim per estensione della rete, ha dovuto cancellare La Spezia dal piano di cablatura per via dei troppi vincoli. Nella città ligure la società aveva anche installato degli armadi-pilota ma non sono mai stati attivati. Anche per Como ha dovuto eliminare dal piano il lungo lago e le zone limitrofe, il che ha provocato una riduzione del 30 per cento del numero dei cabinet inizialmente previsto. Nessun armadio installato neppure a Bergamo Alta e su tutto il territorio di Cinisello Balsamo (Milano), dove secondo un vincolo comunale, tutta l’infrastruttura posata sarebbe dovuta passare di proprietà del comune dopo 15 anni.
Per le compagnie telefoniche questi ritardi si traducono in un continuo aggiornamento dei piani di sviluppo: se un’azienda ha 10 comuni da cablare e alcuni non collaborano, questi vengono rapidamente sostituiti con altri. Chi ci rimette sono i cittadini delle città-lumaca che dovranno aspettare il prossimo treno.
Se scavare e posare fibra ottica presenta parecchi ostacoli, montare antenne non è più semplice: per la realizzazione di un progetto di rete radiomobile, riferisce l’Asstel, possono occorrere i permessi di sette enti diversi, con una tempistica che può raggiungere i 210 giorni. Vodafone sostiene di avere una percentuale di pratiche andate a buon fine intorno al 65 per cento e tempi medi di ottenimento dei permessi dell’ordine di 90 giorni. Oltre ai tempi autorizzativi lunghi, la società si trova spesso a dover affrontare anche i pareri discordanti delle varie amministrazioni, soprattutto dove sono presenti vincoli architettonici, artistici e paesaggistici.
In una cittadina toscana Vodafone un anno fa presentò una domanda di adeguamento di un impianto già esistente, visto che l’emergenza sanitaria aveva fatto crescere il traffico dati in quella zona. L’intervento prevedeva l’inserimento di nuove antenne all’interno della cella campanaria di una torre comunale (dove erano già presenti altri impianti). Il Comune era d’accordo e aveva concesso parere paesaggistico favorevole. Anche l’Arpa aveva dato il suo ok. Ma dopo 12 mesi è arrivato il no dalla sovrintendenza. Un anno di attesa e progetto bloccato.
Gli esempi di ritardi e di ostacoli sono innumerevoli, dal tentato blocco delle antenne 5G a Messina al regolamento del Comune di Roma che poneva una serie di vincoli alla installazione di antenne di telecomunicazioni. In entrambi i casi Tar e Consiglio di Stato hanno dato ragione alle compagnie telefoniche, ma intanto sono stati persi mesi preziosi.
Come uscirne? La strada indicata dagli operatori è una centralizzazione dei vari permessi, in modo che le compagnie telefoniche abbiamo un solo referente con cui confrontarsi. Una cabina di regia, in sostanza, che consenta il rilascio di tutte le autorizzazioni necessarie entro tempi certi. Sembra un obiettivo difficile, ma, come ricorda Vodafone, in alcune città è stato raggiunto: a Torino il Comune ha costituito un tavolo di confronto con tutti gli attori coinvolti nelle richieste di installazioni di rete mobile per condividere piani di sviluppo e velocizzare successivamente le autorizzazioni. Nella Provincia di Bolzano è stata istituita una conferenza dei servizi per le infrastrutture di telecomunicazioni che permette di avere un unico punto di accesso per la presentazione delle richieste di nuove installazioni o modifiche delle esistenti. Insomma, si può fare.
L’eterno ritorno di monsieur Vivendi

Il finanziere Vincent Bolloré da anni tiene aperte le sue partite su Tim e Mediaset., con conseguenti ritardi per la rete unica delle tlc e la riforma della legge Gasparri sulle tv. È un primo, cruciale banco di prova per SuperMario.
di Francesco Bonazzi
«Non c’è sovranità nella solitudine» proclamò Mario Draghi in Senato, il giorno della fiducia. Però un’occhiatina ai compagni di viaggio, a volte, non guasterebbe. Specie se hanno il pedigree di Vincent Bolloré, il patron del colosso francese Vivendi che ai tempi di Matteo Renzi ha scavato due trincee in Telecom Italia e in Mediaset e si è piazzato in posizione privilegiata sul crocevia di affari importanti, come la rete in fibra ottica e la riforma della legge Gasparri sulle tv.
Che cosa farà il premier davanti al finanziere bretone che ha tentato di sfilare il Biscione a Silvio Berlusconi e che da quattro anni paralizza Tim? Dopo settimane di belle parole ed elogi a reti unificate, altre reti, quelle delle infrastrutture come il 5G, diranno se la grinta di SuperMario è rimasta quella di quando guidava la Bce, o di quando gestiva dal fortino del Tesoro le prime privatizzazioni degli anni Novanta.
Certo, per uno come Draghi, esordire nazionalizzando Autostrade sembra uno scherzo del destino. Ma è sulla rete unica di Telecom, operatore privato che si candida a gestire un monopolio che dovrà garantire parità di accesso a tutti i concorrenti, che si misurerà la sua abilità. Perché su questo dossier si sono bruciati in tanti, a cominciare da Romano Prodi.
Lo schema attuale passa per l’assorbimento di Open Fiber, il concorrente pubblico sulla rete di ultima generazione, controllato alla pari da Enel e Cassa depositi e prestiti. E le forze in campo, in teoria, si dovrebbero confrontare nel rinnovo del consiglio di amministrazione di Telecom, che scade con l’assemblea del 31 marzo. Una partita che al momento Vivendi, primo azionista con il 24 per cento della compagnia, e il Mef, retto dal ministro Daniele Franco e dal direttore generale Alessandro Rivera e che controlla la Cdp (a sua volta possiede il 9,85 per cento di Tim), interpretano come un minuetto.
Anziché proporre ognuno una propria lista per il cda e confrontarsi in assemblea, i primi due soci singoli, i francesi e lo Stato, fanno attenzione a non pestarsi i piedi e con ogni probabilità appoggeranno una lista definita «indipendente» solo perché, formalmente, la presenterà il cda uscente. Ma da un lato, il Mef non vuole prendere il controllo di Telecom per evitare altre grane con l’Antitrust europeo, dopo Alitalia e Monte dei Paschi. Dall’altro, Vivendi ha assoluto bisogno di non apparire come soggetto controllante. Diversamente, dovrebbe consolidare un’ampia quota dei debiti dell’operatore italiano, che al 30 settembre 2020 erano oltre 30 miliardi di euro. Per Bolloré, dover far emergere i debiti Telecom nella propria holding quotata a Parigi aggraverebbe il bilancio di una campagna che per gli azionisti è stata sinora disastrosa.
Su Telecom, ai prezzi di Borsa attuali, Vivendi in cinque anni ha perso il 56 per cento. Nel 2018, ha svalutato a bilancio il suo 24 per cento di 1,2 miliardi, ma rispetto ai 4,3 miliardi che è costato il pacchetto, oggi siamo a due miliardi tondi di minusvalenza. Non è andata meglio in Mediaset, dove Vivendi è arrivato al 29 per cento a fine 2016, spendendo circa 1,2 miliardi. Se oggi vendesse le azioni del Biscione, dove l’azionista di maggioranza Fininvest (44 per cento) non gli fa toccare palla, perderebbe il 62 per cento (ovvero, altri 420 milioni).
Insomma, il convitato di pietra Bolloré, oggi è sotto di due miliardi e mezzo. Ma a 68 anni è ancora un gran combattente e ha segnato almeno due punti. Il principale è che al momento, con le sue cause intentate a Mediaset in mezza Europa, sta bloccando il progetto di Pier Silvio Berlusconi di dare vita a un grande polo europeo della tv generalista. Il secondo è che per scongelare i diritti di voto sul suo pacchetto azionario in Mediaset, bloccati dall’AgCom nel 2017, il finanziere bretone ha impugnato la legge Gasparri in Europa e a settembre ha ottenuto ragione.
Ora, il governo Draghi dovrà riempire le voragini normative aperte dalla Corte di Strasburgo, intervenendo in una materia che da sempre scatena le peggiori liti tra i partiti. Mediaset, dal canto suo, aspetta con tranquillità la riforma della legge Gasparri perché se cadranno un po’ di muri tra un mercato e l’altro, nessuno le potrà vietare di entrare nella partita della rete unica. E mentre Vivendi sogna ancora di unire Telecom e Mediaset, ecco che si torna al punto di partenza, ovvero la complicata fusione tra Open Fiber e la rete Telecom.
L’a.d. di Enel, Francesco Starace, ha in mano un’offerta del fondo australiano Macquarie da 2,6 miliardi per il 50 per cento di Open Fiber. Cdp deve decidere se esercitare la prelazione e portare Open Fiber nella rete unica con Telecom. Bolloré, con il suo 24 per cento di Telecom, aspetta acquattato sul fondale che vada in porto l’affare. Sarà interessante vedere se Draghi darà semaforo verde a questa operazione che, comunque, dovrà trovare d’accordo anche un uomo attento ai numeri come il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Intanto, nella famosa lista «indipendente» per il cda Telecom, la cui preparazione è stata affidata al presidente Salvatore Rossi, è previsto che entri Arnaud de Puyfontaine, a.d. di Vivendi. Chissà quali mal di pancia ha creato il nome di de Puyfontaine a uno come Rossi, una vita in Bankitalia fino a diventarne direttore generale, visto che il manager francese rischia a breve il rinvio a giudizio, insieme a Bolloré, per manipolazione del mercato e ostacolo alla Consob. L’inchiesta della Procura di Milano, chiusa a metà dicembre, riguarda la scalata Mediaset del 2016, andata in scena proprio poco dopo la brusca marcia indietro dei francesi sull’acquisto di Mediaset Premium.
Se si arrivasse al processo nei prossimi mesi, com’è assai probabile, sarebbe un altro elemento di forte imbarazzo per l’operazione sulla rete. E di fronte agli interessi corposi di Bolloré in settori strategici per la sovranità economica dell’Italia, come internet e televisioni, più che disquisire sulla presenza di Draghi a bordo del «Britannia» nell’estate delle privatizzazioni (giugno 1992), finalmente si potrà capire la cosa più importante. Ovvero, se da quel panfilo sia mai sceso.
