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Un partigiano come Presidente

Un partigiano come Presidente

LE SERIE STORICHE DI PANORAMA

In occasione del trentesimo anniversario della morte di Sandro Pertini, Panorama è andato a cercare nel suo archivio quello che il settimanale aveva pubblicato quando fu nominato presidente. Fu un evento storico. Il Palazzo, ai tempi, tremò: manovre, raggiri, scontri. L’elezione plebiscitaria di Pertini e arrivata alia fine di una lotta senza tregua fra i partiti della maggioranza. Ecco i retroscena.


di Maurizio De Luca

Abito bianco, in mano il cappello con la tesa, pipa in bocca, Sandro Pertini si aggirava brontolante per i corridoi di Montecitorio. Ce 1′ aveva col segretario del suo partito, Bettino Craxi, che, secondo lui, aveva assai gradito la sua rinuncia alia candidatura per il Quirinale, formalizzata un paio d’ore prima alle due del pomeriggio di giovedì 6 luglio. Commenti a voce alta si era rifiutato di fame: aveva solo chiesto, dopo aver annunciato la sua imminente partenza per la Francia, stanco di giochi tortuosi e snervanti, di rivedere la registrazione televisiva con Craxi che annunciava il suo ritiro. E davanti al monitor, non aveva resistito, beffardo, a tirar fuori di tasca, con un sorriso, un fazzoletto di lino e portarlo agli occhi come per asciugarli, nel sentire il segretario socialista esprimere rammarico per la rinuncia. « Ma l’avete sentito? », aveva poi esclamato, infuriato, e di passo svelto se n’era andato via. Nemmeno ventiquattro ore dopo, il segretario del Psi, forse ancora incredulo anche lui, si precipitava a casa sua, vicino alia fontana di Trevi, per bloccarlo e dirgli che proprio lui, Sandro Pertini, 82 anni, stava per diventare il primo presidente socialista della Repubblica. Con i voti quasi di tutti: solo l’estrema destra si era rifiutata di approvare il suo nome. Era la fine a sorpresa della lunga guerra del garofano per il Quirinale: dieci giorni di rancori, colpi bassi, polemiche, ma soprattutto di aspri scontri politici con in palio equilibri di governo, alleanze storiche, complessi rapporti fra i gruppi. Dietro le apparenze di una battaglia sui nomi, per dieci giorni si e giocata una partita incandescente fra linee politiche contrapposte: 1’unita fra le forze politiche contro le suggestioni di alleanze senza i comunisti; la riaffermazione dell’individualita socialista contro le tentazioni di un innaturale raggruppamento di democristiani e Pci; le velleità di riaffermazione di un’egemonia integralista de contro le riequilibrate alleanze volute con paziente decisione soprattutto da Aldo Moro. Che cosa ha voluto dire l’elezione di Sandro Pertini? Chi ha vinto? Chi ha perso? Qual e, insomma, il vero bilancio della battaglia e quali sono stati i veri protagonisti? Panorama ha cercato di ricostruirlo.


Un partigiano come Presidente


Il trionfatore. Appena si e insediato al Quirinale, fra fanfare, corazzieri e bandiere, sotto il sole di domenica 9 luglio, l’hanno subito ribattezzato il papa Giovanni laico. Schietto, alla mano quel che basta, una storia da medaglia d’oro alle spalle, migliaia di ricordi puntuali di carcere, confino e Zaccagnini, Berlinguer, Craxi e Andreotti mentre votano Pertini antifascismo, onesto e puntiglioso, Sandro Pertini, nuovo capo dello Stato, sa anche essere prudente. Sabato 8 e rimasto a lungo assorto, nel suo attico sulla piazza della fontana di Trevi, per trovare la formula giusta per indirizzare un saluto al suo predecessore dimissionario, Giovanni Leone, che al mattino aveva lasciato il suo rifugio delle Rughe per venire a votarlo presidente. Ha telefonato un po’ in giro, ha chiesto consiglio ai leader politici più fidati. Poi, dopo un po’ di riflessione, ha trovato la formula perfetta: un pensiero all’ex-presidente che ora se ne sta, ha scritto, in « amara solitudine ». Un dato di fatto indiscutibile.« L’immagine di un Pertini troppo impulsivo, che molti propagandano, non e esatta », spiega Tex-segretario del Psi, Giacomo Mancini, che dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica e stato uno dei registi. « E un uomo anzi che sa prendere bene le misure. Ha sempre avuto, e il suo successo lo dimostra, i rapporti politici giusti: vero socialista autonomista, spesso in polemica aspra con il Pci, non si e mai tinto di anticomunismo. Un suo chiodo fisso e sempre stata l’unita delle sinistre. Cosi come ha sempre considerato un rapporto necessario quello fra i cattolici e i socialisti. La correttezza dei suoi modi personali gli aveva consentito, per esempio, di avere ottimi contatti anche con Alcide De Gasperi, oltre che, più recentemente, con Giulio Andreotti ». Un successo quindi per la politica di unita nazionale. E questa certo l’etichetta che il Psi, assieme a Pci, De e a tutti gli altri partiti, alia fine concordi nel voto dopo giorni d’attacchi reciproci, hanno messo ufficialmente sull’operazione Pertini.

Gli strateghi segreti. Ma chi ha portato veramente Pertini al trionfo (832 voti a favore su 955 elettori presenti: un record in 30 anni di Repubblica)? La sera di venerdì 7 luglio, appena e stato chiaro che per lui l’elezione a capo dello Stato ormai era cosa fatta, subito sono fiorite le leggende: e stata una corsa di leader noti e meno noti a mettersi in fila per attribuirsi il merito dell’operazione. In realtà i veri manovratori non sono stati più di quattro o cinque: Giacomo Mancini, Pertini in persona, un pizzico di Alessandro Natta, un po’ di Gian Carlo Pajetta e una spinta finale (ma molto finale) di Giulio Andreotti. Oltre, naturalmente, all’intervento, talvolta controverso e, nel momento decisivo, a tratti forse anche distratto, dell’alta dirigenza Psi, da Craxi a Claudio Signorile a Gianni De Michelis.I l primo a fare in pubblico il nome di Pertini come possibile presidente della Repubblica era stato Mancini il 21 giugno in una intervista al quotidiano Paese sera. Il nome era piaciuto subito ai comunisti. Pajetta era corso in piazza del Gesù a chiedere a Zaccagnini, alia vigilia dell’inizio delle votazioni a Montecitorio, di schierarsi a favore di Pertini. Anche Pertini si era dato da fare: Craxi l’aveva inserito ufficialmente nella rosa dei candidati Psi e lui era andato a trovare Zaccagnini, si era incontrato con molti comunisti. Per la De certo era presto per decidere: ma a Zaccagnini, ricorda Pajetta, Pertini non dispiaceva, anzi lui personalmente diceva di si. Ma il partito era incerto: un socialista al Quirinale non era proprio detto che andasse bene. I comunisti avevano fatto circo lare il nome. Si erano associati con entusiasmo radicali, Democrazia proletaria, Pdup. Ai socialdemocratici non andava male. E Craxi? Aveva proclamato a ripetizione che un socialista al Quirinale doveva proprio andarci. « Sarebbe contento», fu chiesto al segretario socialista, « se Pertini fosse eletto? ». « Contento e anche commosso», ribatte pronto Craxi. Pertini lo seppe e commento malizioso: « Speriamo che la commozione non sia così grande da mettere in difficolta il partito ».Domenica 2 luglio a mezzogiorno Craxi lancio ufficialmente la candidatura Pertini: era lui il personaggio da votare. A sinistra, annotava il leader socialista, lo vogliono tutti: che lo voti amichevolmente allora anche la Dc. I comunisti sussurrarono che questo era un sistema per bruciare Pertini, presentato come uomo delle sinistre da imporre alia Democrazia cristiana. Pertini sa della dichiarazione del suo segretario e corre a cercare per telefono Flaminio Piccoli, presidente dei deputati de: gli vuole dire che lui il discorso del segretario non solo non lo conosceva, ma neppure lo condivide. Lui vuole essere candidate di tutti, non di una parte. Alessandro Natta, presidente dei deputati comunisti, legato a Pertini dalla comune origine ligure e dal lavoro svolto in parlamento con reciproco rispetto e simpatia quando 1’esponente socialista era presidente della Camera, annuisce alia mossa dell’amico ma la De non molla. Anzi. Quando Giovanni Galloni, vicesegretario democristiano, la sera di domenica si presenta all’assemblea dei deputati per fare il punto della situazione, un suo tentativo di lasciare aperto uno spiraglio per la soluzione Pertini cade sotto i colpi degli onorevoli infuriati: a insorgere e la destra che quel candidato « frontista » proprio non lo vuole. Bocciatura per Pertini. Pajetta, infuriato, al mattino presto telefona a Zaccagnini e lo affronta: « Sei un romagnolo o uno che e stato alia scuola dai preti come Galloni? ». Zaccagnini borbotta che a scuola dai preti non c’è mai stato. « Devi essere di parola », insiste Pajetta. « Votiamo Pertini ». Zaccagnini non risponde. « Ti ho svegliato? », chiede Pajetta. « Si », bofonchia Zac. « Sono contento », e la replica. E la telefonata si conclude. Per Pertini e il momento del silenzio. Le sue quotazioni sono a zero. Lo sopravanzano altri cavalli, altre manovre. E la confusione. Scontri, progetti politici alternative In casa socialista nessuno gli fa più molto caso. Gli occhi sono tutti puntati su Giuliano Vassalli prima, poi su Antonio Giolitti (il candidato del cuore della segreteria, sostenuto con la massima intensità dalla sinistra di Claudio Signorile). Le scariche polemiche sono tutte contro Ugo La Malfa, sceso in campo a contras tare i socialisti. E il momento dei veti reciproci.

Pertini nei corridoi di Montecitorio brontola e s’imbroncia, ma non rinuncia a fare dichiarazioni distensive verso la De («Se in campo ci fosse Zaccagnini », arriva a dire, « io lo voterei, anche se il mio segretario non fosse d’accordo»). Nessuno gli da peso: « folklore », e il commento di molti e passano avanti. L’attenzione e tutta sui vertici fra i segretari dei partiti che diventano risse, sugli scontri fra Craxi e Biasini, sui sospetti, le manovre, le voci di accordi segreti fra socialisti e blocchi democristiani (Toni Bisaglia, generate a meta dei dorotei, Carlo Donat Cattin, forse Arnaldo Forlani).Pertini intensifica le sue visite, la mattina presto, a Natta, a Montecitorio. Lo stallo in aula e complete: la De non vota, la sinistra e ferma, sono previste lacerazioni e crisi di governo. Mentre nessuno lo sta a guardare, Pertini vince con una mossa. D’essere stato rifiutato non gli piace. In tasca ha, fin da mercoledì 5 luglio, la lettera di rinuncia dalla corsa. « La presento », minaccia. Mancini, sornione, gli consiglia di aspettare. Lo stesso, raccontano, fa anche Natta. Alle 13 di giovedì Emanuele Macaluso, della direzione del Pci, va in Tv e invita a portare in aula Pertini per votarlo e vedere come va a finire. « Ripeschiamolo. Votiamo. Insomma, muoviamoci », e il suggerimento. Fulmineo, Pertini manda la lettera al suo segretario di partito: lui non ci sta. Non vuole essere, ripete, il candidato di una parte. E un’uscita vincente. D’un colpo alla Dc si e spuntata l’arma di Pertini candidato frontista. Ora Pertini non lo e più: anzi e un uomo che si e ritirato proprio perché i comunisti volevano votarlo, unilateralmente. Una manovra perfetta, astutissima? Pertini sui momento se ne rende conto? Più probabilmente e solo una manovra fortunata. Ma nessuno sui momento se ne accorge. Escluso Natta, che a chi gli chiede come andrà a finire, cita a memoria un verso d’Orazio che annuncia la resurrezione di cose già cadute. Nessuno afferra. Ufficialmente il duello appare fra Giolitti e La Malfa: e un braccio di ferro spaventoso.

Gli sconfitti. Sono un esercito. Diviso fra vinti palesi e vinti nell’ombra. Capofila del secondo schieramento Amintore Fanfani, con i suoi immancabili sostenitori (Giuseppe Bartolomei, presidente dei senatori de, impacciato e tetro davanti alia conclusione della vicenda; il fedelissimo Giampaolo Cresci, che ha mosso un po’ di acque solo per telefono, senza mai farsi vedere a Montecitorio; ed Ettore Bernabei, ricomparso per l’occasione nei corridoi della Camera a distribuire sorrisi e strette di mano e a raccogliere gli umori dei deputati, nettamente catastrofici per il suo leader).Vere o presunte che fossero le smanie presidenziali di Fanfani, e certo che eventuali sue aspirazioni non hanno trovato spiragli. Una candidature de per il Quirinale poteva passare solo attraverso il dilaniamento di tutti i pretendenti laici, una contrapposizione frontale con i socialisti che non dimostravano nessuna intenzione di mollare la loro richiesta di arrivare in porto con un loro candidato, drammatiche e torbide votazioni in aula, con rotture insanabili di tutto il tessuto politico. Era una strada che la segreteria Zaccagnini, dopo giorni di incertezze tattiche, ha dimostrato di non voler percorrere. Chiudendo cosi ogni possibilità anche a quanti sostenevano la necessita di portare Zac al Quirinale e a Evangelisti che fino all’ultimo non ha abbandonato l’idea di accompagnare Andreotti su quello che, forse dopo il caso Leone, il presidente del Consiglio chiama « l’unico colle ancora fatale di Roma ». Il percorso sarebbe stato lo stesso, visto che il Pci, favorevole almeno in teoria a sostenerlo, era deciso a non abbandonare il suo legame con il Psi. Seccamente sconfitti anche il ministro delle Partecipazioni statali, Antonio Bisaglia, Donat Cattin e la destra de (con qualche scottatura leggera forse anche per Forlani), che in una stretta alleanza con i socialisti a favore di Giolitti contrapposto alla candidatura repubblicana avevano visto la possibilità di mettere in crisi il governo Andreotti (abbandonato prevedibilmente dal Pri, difficilmente avrebbe retto), mettere in crisi senza difficolta la segreteria Zac, fare un grosso dispetto al Pci (se fosse passato, anche se con l’appoggio forzato dei comunisti, Giolitti non era certo il candidato ideale del Pci: al suo passato di ex-comunista uscito dal partito dopo l’intervento dell’Urss in Ungheria nel 1956 univa le personali teorizzazioni sull’alternativa di sinistra, in contrasto aperto con la strategia cornunista) e preparare le basi di un accordo politico di prospettiva, destinato a privilegiare al massimo il rapporto con il Psi ai danni del Pci. Dopo una serie di pronunciamenti segreti a favore di Giolitti (l’ultimo la mattina di venerdì 7, nella sede della corrente con capi e luogotenenti schierati al completo) i dorotei di Bisaglia hanno fatto una precipitosa ritirata. E di fatto sono stati sconfitti senza neppure essersi battuti. Tra i vinti palesi, oltre gli incolpevoli candidati massacrati prima ancora di essere votati in aula, nell’asfissiante gioco dei veti contrapposti (la De che dice no al Pertini prima maniera, il Psi che rinnova un ferreo blocco a La Malfa, il Pci che si oppone al socialista Giuliano Vassalli), molti non solo nella De, comprendono anche il vicesegretario del partito, Giovanni Galloni. Le accuse: incerto, ondeggiante, senza una strategia precisa fin dalla partenza, tatticamente debole. Inizialmente Galloni ha giocato al massacro dei laici, cancellando d’un colpo la rosa socialista. Poi si e imbarcato nell’operazione Vassalli, andando insieme a Piccoli e Bartolomei a trovare Craxi all’hotel Raphael e assicurandogli tutto 1’appoggio de se il Psi avesse confermato il nome del penalista socialista fra i candidati. Un’operazione filtrata casualmente violente: attacchi personali a Vassalli, sui quali probabilmente si pronuncerà anche l’ordine degli avvocati (Armando Cossutta, della direzione del Pci, era arrivato a dire che votare Vassalli «equivaleva a votare Lefebvre», visto che il candidato socialista figura come difensore dei fratelli accusati di corruzione nel processo Lockheed).Naufragata la candidatura Vassalli, con il ritiro furente del giurista, Galloni, dopo qualche ondeggiamento su La Malfa, e andato ad attestarsi su Giolitti, salvo poi convergere naturalmente su Pertini. Uno zig-zag del quale sono in molti, anche fra i sostenitori della segreteria, quelli intenzionati a chiedergli pubblicamente conto.

I vincitori. Fuori da Montecitorio, il segretario socialista Bettino Craxi ha fatto una splendida figura: aveva chiesto, impetuosamente, un socialista al Quirinale e l’ha avuto. Pertini e popolarissimo, molta gente gia gli vuole bene. E una fetta di storia del Psi al vertice dello Stato. Anche se e una fetta di storia un po’ diversa dai piani del segretario: unita a sinistra, mentre Craxi predica la diversificazione (con polemica aspra) dal Pci. Indipendente, suscettibile, da tempo in aperto contrasto con Craxi, Pertini (clamorosa la sua presa di posizione contro l’atteggiamento del partito sul caso Moro) e una pedina che esce da eventuali programmi di potere del segretario del Psi. Per questo, conducendo con forza la guerra del garofano, Craxi ha dimostrato a centinaia di deputati a Montecitorio di avere puntato in realtà su altri candidati, soprattutto Giolitti. E di averlo fatto in contatto, assieme a Claudio Signorile e ad altri esponenti della sinistra, con alleati democristiani giudicati soprattutto dai comunisti insidiosi e scomodi. Grazie al colpo di reni finale dell’allineamento su Pertini, con il rifiuto al momento decisivo della linea dello scontro, anche la segreteria Zaccagnini, a eccezione di Galloni, se non proprio vittoriosa o rafforzata, se n’e uscita con la logica del minor danno e, soprattutto, con la conferma della linea morotea del dopo 20 giugno 1976. Ha ceduto il Quirinale, ma ha salvato il quadro generale dei rapporti fra i partiti.

Un risultato che ha finite col rafforzare anche la guida, sul Pci, di Enrico Berlinguer, scossa durante la guerra del Quirinale da contrasti almeno tattici, che sono stati avvertiti anche all’esterno (le uscite di Cossutta contro Vassalli, accompagnate da feroci strali di Pajetta, sono state definite da Paolo Bufalini, durante un incontro fra le delegazioni del Psi e del Pci, « posizioni personali » e non del partito).Il sorriso di Pertini ha finite sul momento per ricomporre tutto. Anche se non e riuscito a cancellare i tanti rancori di un difficile dopoguerra appena cominciato.



Questa elezione insegna che

Un partigiano come Presidente
Questa elezione insegna che

di Giuliano Amato

E stata lunga e travagliata la gravidanza che ha dato all’Italia il presidente degli anni 80. Mai, anzi, come questa volta il congegno elettorale e apparso lento, inconcludente, defatigante. Perché? Le spiegazioni che si leggono sono diverse e incolpano ora le regole del gioco, ora 1’inadeguatezza dei partiti che le hanno utilizzate. Secondo alcuni – lo ha scritto Silvano Tosi su La Nazione — e il congegno a essere sbagliato, perché si ispira ancora al parlamentarismo individualistico dell’Ottocento, mentre ormai a decidere sono i partiti. Il senatore Giuseppe Branca dice invece che i partiti sono troppo ingombranti e che occorrerebbe garantire di più la liberty dei singoli grandi elettori. Coloro che guardano meno agli aspetti istituzionali e più alia sostanza politica appaiono altrettanto divisi. Alberto Sensini scrive che 1’elezione presidenziale e stata ritardata dal fatto che « mai come in questo momento i tre partiti maggiori sono stati cosi intrecciati nel controllarsi, ma anche cosi distanti nelle tattiche e nelle strategie ». Gaetano Scardocchia non trova invece nulla di anomalo nella situazione politica che ha fatto da cornice all’elezione del presidente. Al contrario, si sarebbero riflesse in questa le usuali anomalie della nostra vita politica, a partire dall’ambiguità e dall’oscurità di propositi dei maggiori partiti. Sono spiegazioni – come si vede – palesemente contrastanti l’una con l’altra e questo dimostra da solo che ciascuna di esse coglie dei sintomi, al più delle cause laterali del problema, che e enorme. E il problema e quello, molto semplice, della impossibilità di arrivare a decisioni rapide ed efficaci se per farlo sono in troppi a doversi accordare. La disputa che oppone il principio maggioritario e il principio unanimistico e antica, attraversa la storia. Ed e un insegnamento della storia che il principio unanimistico ha usualmente prevalso nei regimi deboli, condannandoli a condizioni di ulteriore debolezza, grazie alia ridda dei voti che ciascuno oppone agli altri, paralizzando cosi tutti quanti. La dieta polacca e l’esempio più noto di questa progressiva paralisi, ma anche gli storici del Duecento tedesco possono dircene delle belle sui sei principi che dovevano accordarsi per 1’elezione del re. Un accordo lo trovavano sempre, ma uno di loro rimaneva regolarmente scontento e sentendosi defraudato si lasciava poi andare a guerre e rappresaglie. Tutto ciò e soltanto inevitabile e sono proprio i precedenti ad ammonirci contro interpretazioni frettolose di quanto abbiamo visto in questi giorni. Il malumore dell’opinione pubblica si e facilmente tradotto in pesanti giudizi sulle qualità intellettuali e morali di buona parte della nostra dirigenza politica. Lo abbiamo notato tutti che i candidati al Quirinale si accettavano o si scartavano in base all’unico requisito di essere o non essere in una data « rosa ». Ed e comprensibile che molti si siano domandati se chi ci dirige merita davvero di stare al suo posto, quando adotta decisioni con criteri del genere. Ma questo e un giudizio che finisce per essere ingiusto, perché la incapacità di discutere gli argomenti importanti non era delle persone, ma derivava da un sistema che farebbe comportare allo stesso modo anche persone diverse. Chi ha esperienza di riunioni internazionali conosce benissimo la regola secondo cui più sono le parti rappresentate attorno al tavolo, più il discorso diventa generico. E in simili riunioni e un risultato spesso rimarchevole arrivare a un accordo sulla data di quella successiva. Il fatto e che quando la decisione deve trovare d’accordo persone e gruppi che hanno interessi profondamente diversi, sono questi a pesare e a neutralizzarsi a vicenda. L’effetto e che il merito della questione viene soltanto sfiorato ed e affrontato in un contesto che ne deforma i significati reali. Ben diversa e la situazione quando la decisione e affidata a una maggioranza. Intanto le componentidi questa hanno di solito una omogeneità sufficiente a discutere senza imbarazzo argomenti che in una sede allargata non e diplomatico toccare. Cosi, se si tratta di scegliere un candidato, ci sono molte meno remore a valutare l’età, lo stato di salute, il carattere più o meno bizzoso, le competenze dimostrate dalle persone in gioco. In più, una maggioranza sa bene che mette in gioco se stessa se fa una scelta cattiva e ha perciò tutto l’interesse a non farla, proprio per non pagarne gli effetti. Al contrario, nel caso di decisione che deve essere unanime, non c’è nessuno con questo interesse e la scelta sbagliata e coperta paradossalmente dalla stessa impunita che caratterizza le decisioni in un sistema dittatoriale. Hanno allora ragione quanti dicono che per il nostro presidente sarebbe bene cambiare sistema e farlo eleggere o ancora dal parlamento, ma col ballottaggio finale, o, più drasticamente, dallo stesso corpo elettorale? Si, hanno ragione, purché sia chiaro che il correttivo non può riguardare il solo presidente, ma deve investire l’intero sistema istituzionale. Sono le rotelle complessive di questo che devono essere cambiate e rese idonee a distinguere fra loro una maggioranza o un’opposizione, invece di farle regolarmente incastrare l’una nell’altra. Se quest’episodio servisse a far riflettere con la dovuta serietà su una riforma in grado di dare alle nostre istituzioni la capacità di decidere e di scegliere, sarebbe, almeno sotto questo profilo, un episodio felice.

Non ditegli «vade retro»

Di Giuliano Amato

C’è stata una venatura cinquecentesca nella vicenda che ha portato al Quirinale Sandro Pertini. Il Psi ha avuto quel che chiedeva, ma si e cercato di dare al suo successo il sapore di una sconfitta. Pertini infatti e stato scelto dagli altri perché era il candidato socialista meno legato alia segreteria del partito e meno espressivo, perciò, della politica da questa seguita negli ultimi mesi. Sceglierne un altro – lo ha detto a chiare note Ugo La Malfa – avrebbe rafforzato la spinta destabilizzante di cui il Psi sarebbe portatore e preparato per il paese la peggiore delle avventure. Quale fondamento ha un atteggiamento cosi duro e così intollerante nei confronti della segreteria del partito socialista. Bettino Craxi e entrato come un Gianburrasca sulla scena politica italiana e non ha avuto la mano leggera nell’assumere atteggiamenti polemici e contro-corrente. La sua posizione durante le giornate del sequestro di Moro isolò il Psi dagli altri partiti maggiori e molti espressero il timore che di fatto aiutasse i brigatisti nel far abbassare la guardia dello Stato. Poco dopo, la liberta riconosciuta agli elettori davanti ai referendum e stata oggetto di critiche non meno aspre, ravvisandosi anche in essa un ulteriore spiraglio agli istinti eversivi che percorrono il paese. C’è poi il vigore che Craxi ha dato alia polemica con il Pci, che ha indotto alcuni a domandarsi quale sia la tigre che egli cavalca e dove potrà trovarsi il Psi alia fine della corsa. Nessuno può negare che il comportamento tenuto dai socialisti in queste vicende offra il fianco a dubbi e preoccupazioni, che essi stessi, del resto, hanno mostrato di condividere in vario modo. Ma e altrettanto innegabile il fatto che il Psi di questi mesi non ha inventato il proprio copione per fare una facile scorribanda elettorale negli spazi lasciati vuoti dagli altri. Le sue posizioni, comprese le più discusse, sono invece legate da un filo comune, che e intessuto di sentimenti e stati d’animo largamente avvertiti. Sono in tanti a chiedersi che cosa vuol dire oggi senso dello Stato, se e a quali condizioni vale la pena identificarsi nei partiti, se il futuro che abbiamo davanti e fatto solo di intese tanto larghe quanto, alia lunga, inconcludenti, se i giusti obiettivi che Lama va predicando devono essere affidati alia nostra attiva responsabilità o se per noi c’è solo una parte nel coro che echeggia ed esegue la predica. So bene che ci sono ambiguità e spinte di varia matrice al fondo di questi stati d’animo. Ciò li rende pericolosi e assai difficili da filtrare nelle sedi politiche, ma non consente certo di schiacciarli col tacco e di proseguire come se l’azione dello Stato fosse circondata dall’entusiasmo popolare. Farsene interpreti, cercare di alimentare anche con essi una linea politica, può essere un’avventura. Ma chi corre avventure non e per ciò stesso avventuriero e può anzi contribuire più di altri, in un momento di difficile trapasso, alia solidità dell’assetto democratico. Oggi e presto per dire se il Psi riuscirà a dare un contributo del genere, e certo pero che e possibile, e utile al paese, che esso ci riesca. Il suo « progetto » e ancora in più punti un insieme di indicazioni soltanto generose, e tuttavia sta a dire che il Psi non si limita a raccogliere scontenti e dissensi, ma si sforza di fame gli dementi di un ordine diverso, più libero e più condiviso. Nella polemica con il Pci, i socialisti fanno propria la irrequietezza operaia e raccolgono motivi di critica, lanciati molto spesso con grezza veemenza dai movimenti estremisti. Cid che ne esce, pero, e una linea coerente e robusta, imperniata sul controllo operaio, sulla politica come mestiere aperto a noi tutti, sul conflitto come motore della democrazia. Tutto questo rappresenta un’iniezione salutare per il Pci e un motivo di fiducia nei partiti per i tanti che la stanno perdendo. Non so se La Malfa è d’accordo con me, ma io penso che la democrazia italiana cadrà come un albero marcio se le sue radici non saranno nutrite per tempo dagli umori che il Psi sta cercando di filtrare. Può darsi – come dicevo – che il Psi non ci riesca, ma sbaglia comunque di grosso chi lo attacca frontalmente, come se fosse soltanto un apprendista stregone che sta evocando le forze del male. Un atteggiamento di tanta intolleranza possono spiegarlo soltanto o una personate diffidenza verso i dirigenti socialisti (spinta pero sino ai limiti del parossismo) o, forse, una sotterranea paura dei cambiamenti che il futuro in ogni caso ci chiede. Certo non lo spiega la lungimiranza politica, perché accanirsi contra il Psi ha l’unico effetto di esasperare e di rendere pericolosamente unilaterali aspirazioni che si stanno diffondendo e che solo per suo tramite possono entrare nel sistema con effetti non disgreganti. Speriamo dunque che la ragione prevalga e che uomini e partiti abituati a vivere il presente in funzione del futuro, sappiano ritrovare a un tempo quella pacatezza e quel gusto del rischio, grazie ai quali tanti servigi hanno reso all’Italia negli anni trascorsi. Penso in primo luogo ai repubblicani e a chi li guida, nella certezza che la cultura laica di cui sono da sempre gli alfieri, farà loro capire, prima o poi, che non si concorre al progresso a suon di «vade retro». Ne sono stati pronunciati tanti nella storia e troppe volte sono serviti soltanto a travolgere regimi incapaci di cambiare.

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