La prospettiva della pace, o almeno di una tregua, in un conflitto che conta ormai decine di migliaia di morti in entrambi i fronti, è lontana. E la probabilità di una pericolosa escalation è sempre più concreta.
I bombardamenti a intermittenza non finiscono mai a Siversk, una cittadina tagliata fuori dal mondo nell’inferno del Donbass. Dopo l’invasione russa di un anno fa il grande villaggio è a ridosso del fronte. E la pressione è sempre più forte, come a Bakhmut, la Stalingrado ucraina, poco distante, che non potrà resistere a lungo. La scorsa estate Lisa, 17 anni, ci mostrava una collezione di bossoli. «Non abbiamo paura dei russi. Restiamo a casa nostra» diceva, con mamma Natalia e papà Roman. Nel sottoscala, usato come rifugio, avevano ricavato un bivacco. Roman non aveva dubbi: «Il nostro unico desiderio è mir, “pace”. Per questo speriamo che i vostri politici la smettano di fornire aiuti militari all’Ucraina». Quattro passi più in là, dall’altra parte della strada in uno dei grigi condomini popolari del quartiere, Alla era una patriota schierata sul fronte opposto. «Ci servono le armi per salvarci da quell’idiota di Putin. Vi prego» scongiurava fra le lacrime.
Un paio di proiettili d’artiglieria diretti verso le postazioni nemiche fendevano l’aria con un sibilo pauroso sopra le nostre teste, incrociati dai colpi russi, ma nessuno sembrava farci caso. «Siversk ormai è una città fantasma, come Bakhmut. Chi non vuole i russi è fuggito, ma noi continuiamo a portare aiuti ai pochi civili rimasti nei sottoscala» racconta padre Oleh Ladnyuk, salesiano che ha preso i voti a Torino. In Ucraina è uno dei più coraggiosi cappellani militari. Dall’Italia i suoi sostenitori mi hanno chiesto di portargli una busta con una trentina di «santini-reliquie» di Giovanni Paolo II per i soldati in prima linea.
Un anno dopo l’invasione, la guerra che non può finire è più devastante e sanguinosa che mai. Sulla prima linea del Donbass, territorio conteso, a chiazza di leopardo, gran parte dei civili sono fuggiti, ma nel macello di Bakhmut vivono ancora come topi cinquemila anime. «Li chiamiamo “zhdun” quelli che attendono l’arrivo dei russi. Molti che sono rimasti pensano che porteranno la pace» spiega Vlada, capelli lisci biondi, sguardo triste, ma con l’Ucraina nel cuore. «All’inizio pensavamo che questa guerra non sarebbe stata lunga, settimane o qualche mese al massimo, ma era una speranza vana. Ormai ci siamo abituati a tutto: ai bombardamenti, a perdere gli amici al fronte e a non vedere una fine» dice la giovane ucraina. «È facile dire “vinceremo, vinceremo”, ma i russi continuano ad attaccare» aggiunge. «I miei amici asserragliati a Bakhmut sono volontari e raccontano che i soldati mobilitati hanno paura. È dura morire». Vlada è convinta «che bisogna continuare a lottare. Purtroppo, però, c’è chi combatte e chi si è fatto i soldi con la guerra». Il presidente ucraino Volodymyr Zelelnsky ha silurato un suo consigliere, il viceministro della Difesa e governatori regionali coinvolti nella corruzione anche sul prezzo delle uova per i soldati. «È un grande business. Anche i medici per un certificato di esenzione chiedono soldi» rivela la ragazza ucraina. «Alcuni comandanti si fanno pagare tremila dollari da chi non vuole andare in prima linea spostandolo a scavare trincee o a pelare patate».
Dall’altra parte della barricata, con punte di 800 morti al giorno, negli assalti a ondate come nel Primo conflitto mondiale, deve essere ancora peggio. I mastini della guerra della Wagner, compresi galeotti reclutati dietro le sbarre e fantaccini russi alle prime armi, sono carne da cannone per sfondare le difese ucraine a Bakhmut. E fra il capo della società di mercenari, Yevgeny Prigozhin, e i vertici militari russi non corre buon sangue. Quando a fine dicembre gli uomini della Wagner hanno finito i colpi di artiglieria davanti a Bakhmut, «il cuoco» del presidente russo Vladimir Putin, come viene chiamato il fondatore della compagnia di ventura, ha definito un «fottuto bastardo» il capo di stato maggiore della Difesa, Valery Gerasimov, attuale comandante dell’invasione russa. Lo scorso anno, dei 100 giorni sui fronti della guerra nel cuore dell’Europa, non dimenticherò mai i civili in fuga, sotto le bombe, sul ponte distrutto di Irpin, come l’anziana sepolta dalla neve portata via su un carrello della spesa con i carri armati russi alle porte di Kiev. La strage alla stazione di Kramatorsk, causata dalle bombe a grappolo, che ha spazzato via donne e bambini in attesa del treno per l’evacuazione lasciando a terra un peluche intriso di sangue. O i morituri di Popasna, che tiravano a sorte la monetina per dare il cambio in trincea e si scrivevano il cognome con il pennarello indelebile, sulla mimetica, all’altezza di braccia e gambe «così se veniamo spappolati da una granata forse mettono i pezzi del nostro corpo nel sacco nero giusto».
E l’esercito russo, che pensavamo fosse una Nato dell’Est invece è un gigante dai piedi d’argilla che non si porta via neppure i caduti, come il ragazzino biondo di vent’anni che pareva addormentato in trincea, ma dall’angolo della bocca gli colava un rivolo di sangue. Un anno di guerra potrebbe essere costato, fra caduti ucraini e russi, 100 mila morti e un numero impressionante di feriti. Per non parlare dei 7 mila civili certificati dall’Onu, che in realtà sarebbero molti di più. «Nel periodo peggiore del Primo conflitto mondiale cadevano mille soldati russi al giorno. Cento anni dopo non è cambiato nulla» sottolinea con amarezza una fonte della Nato a Mosca. «I diplomatici sperano che dopo la caduta di Bakhmut si possa cominciare a parlare seriamente di un cessate il fuoco. L’offensiva di Mosca è già iniziata e potrebbe continuare anche se tutti concordano che il 2023 sarà l’ultimo anno di guerra ad alta intensità sia per motivi militari, sia economici. Nessuno può sopportare uno scontro così pesante a lungo». Le date da tener d’occhio sono il 21 febbraio – con il discorso di Putin alla Duma, il Parlamento russo – e il 24, tragico anniversario dell’invasione che il Cremlino vorrebbe coronare con la caduta di Bakhmut. Almeno parte dei 10 mila soldati ucraini della Stalingrado ucraina si stanno attestando su nuove linee di difesa, alla periferia, per non venir stritolati nell’assedio e bersagliare le truppe russe una volta entrate in città.
La «linea del Piave», 20-30 chilometri più a ovest, è a Kramatorsk, sotto il tiro dell’artiglieria russa, e Sloviansk. Se gli invasori riuscissero a dilagare oltre Bakhmut rischiano di chiudere in una grande sacca le migliori forze dell’esercito ucraino, che controllano ancora metà della regione di Donetsk. L’obiettivo di Putin è conquistare il Donbass per non perdere la faccia e probabilmente il potere. La sua anima nera, Prigozhin, parla chiaro e non nasconde le difficoltà: «Potremmo avere bisogno di un anno e mezzo o due per prendere il cuore industriale del Donbass e forse tre per liberare i territori più ampi a Est del fiume Dnipro». Lo scontro è così intenso che il 13 febbraio lo stesso segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, ha lanciato l’allarme: «Le forze ucraine consumano una quantità di munizioni di gran lunga superiore alla produzione degli alleati della Nato». A fine estate i russi sparavano anche 60 mila proiettili di artiglieria al giorno, 47 mila a dicembre, 15 mila a gennaio. Gli ucraini rispondevano con ottomila colpi, ora sono quattromila. Lo stato maggiore ucraino punta sul centinaio di carri armati promessi dall’Occidente. Una forza d’urto che dovrebbe servire all’ardito piano per spezzare in due il fronte russo puntando su Melitopol. Se l’offensiva riuscisse dividerebbe il Donbass dalla Crimea annullando la continuità territoriale con la Russia, la penisola annessa nel 2014, e il resto dei territori ancora occupati. «I famosi carri in arrivo non saranno nell’ultima versione, ma depotenziati per non fornire informazioni al nemico se uno venisse catturato» spiega la fonte occidentale a Mosca. «I russi si sono trincerati con fortificazioni che non si erano viste neanche durante la Seconda guerra mondiale. Anche se gli ucraini sfondassero, sarebbe un massacro avanzare in profondità».
Le vittorie ucraine sono state possibili grazie all’appoggio Nato e alle ritirate costrette, ma ordinate, dei russi dai sobborghi di Kiev, da Kherson e dalla rotta di Kharkiv. Nessuno vincerà la guerra, come spera, con la disfatta del nemico. Il fronte è lungo 800 chilometri e i russi occupano il 15 per cento del territorio. Difficile che gli ucraini riescano a liberare Crimea e Donbass e i russi hanno già fallito nel tentativo di far cadere Zelensky e spaccare il Paese. Putin potrebbe mobilitare altri 500 mila soldati e gli ucraini sono al limite delle riserve. «Purtroppo dopo 12 mesi la guerra prosegue. E c’è sempre il rischio di un’escalation» conferma una fonte diplomatica. «Forse una possibile soluzione è quella “coreana”. Russi e ucraini prima o dopo saranno sfiniti e dovranno accettare una linea di demarcazione, una tregua e una zona demilitarizzata».