Per l’Unione europea il Paese nordafricano è un baluardo che deve fermare l’immigrazione (e gli concede decine di milioni di euro). Per le Ong invece è da definire «non sicuro», facilitando le richieste di asilo e ostacolando i rimpatri. Un cortocircuito che, però, riflette una pericolosa crisi reale.
Migranti dell’Africa occidentale e centrale ma soprattutto tunisini. Giovani disoccupati ma anche famiglie intere. Si imbarcano dai porti del Paese del Maghreb – Monastir, Zarzis, Sfax – e in poche ore arrivano a Lampedusa o in Sicilia. Imbarcazioni sovraffollate e, per quanto più solide dei gommoni libici, non poco rischiose come documentano gli oltre 575 morti nel 2022 registrati dal Forum tunisino per i Diritti economici e sociali (Ftdes). Un flusso che nell’ultimo anno ha toccato quota 30.261 arrivi in Italia, di cui più della metà tunisini, spinti da una profonda crisi economica.
L’inflazione che galoppa verso l’11 per cento, la scarsità dei beni di prima necessità con i supermercati a corto di pasta, riso, latte e zucchero. E poi tassi di disoccupazione sempre più alti con il 37 per cento dei giovani senza lavoro, secondo il Tunisian National statistics institute. Una fragilità strutturale amplificata dalla pandemia, dalla crisi in Ucraina e resa ancora più pesante da una presidenza, quella di Kaïs Saïed, in grave difficoltà politica. Dopo l’elezione nel 2019 tra gli auspici popolari, il presidente tunisino ha diviso il Paese con un’amministrazione giudicata da molti analisti autoritaria e accentratrice. Una progressiva concentrazione dei poteri bocciata dalla popolazione, vista l’affluenza flop delle ultime elezioni: l’11 per cento. Grosse difficoltà si riscontrano anche sul piano diplomatico. Da un lato il ritorno a mani vuote dalla tournée invernale nei Paesi del Golfo, dove Saïed sperava di ottenere un supporto economico, dall’altro la trattativa tutta in salita con il Fondo monetario internazionale che in cambio di due miliardi di dollari chiede riforme strutturali. Prospettive che spaccano ulteriormente l’opinione pubblica. «Sebbene questi prestiti possano migliorare la capacità dello Stato di importare prodotti alimentari» mette in guardia Aymen Bessaleh, analista del Tahrir Institute for Middle East Policy, su Foreign Policy, «potrebbe ridurne l’accesso da parte dei cittadini, il che non risolve il problema della sicurezza alimentare». Non bastasse, l’ultimo report dell’agenzia di rating americana Moody’s ha declassato il debito sovrano tunisino da Caa1 a Caa2 inserendo la nazione africana tra gli Stati a un passo dalla bancarotta.
Una situazione che preoccupa l’Italia dato il ruolo centrale della Tunisia come partner commerciale (qui operano quasi mille società a capitale italiano), luogo di passaggio del gas algerino e soprattutto per il dossier migranti che a fronte di un inasprirsi della crisi potrebbe vedere un ritorno ai livelli del 2016, con 180 mila arrivi via mare. Non a caso, in parallelo con l’accelerazione dei flussi, Italia e Unione europea hanno aumentato gli investimenti a favore del contenimento delle partenze. Oltre alle sei motovedette fornite da Nazioni unite (Unops) e ministero degli Affari esteri italiano, il Programma di gestione delle frontiere per la regione del Maghreb ha messo sul tavolo 30 milioni di euro per il rafforzamento della Guardia costiera tunisina. Sulla stessa lunghezza d’onda la Commissione europea, che nel Piano d’azione per il Mediterraneo centrale dello scorso novembre prevede finanziamenti pari a 580 milioni di euro per potenziare i controlli alle frontiere di Libia, Egitto e Tunisia che con il 73,5 per cento delle espulsioni dirette a Tunisi, è oggi il principale partner italiano in materia di rimpatri.
Un approccio di contenimento dei flussi poco gradito a Ong e associazioni umanitarie che chiedono di depennare la Tunisia dalla lista dei Paesi sicuri. Lista in cui è stata invece inserita dal decreto Immigrazione e sicurezza del 2019, rinnovato lo scorso marzo, che facilita i rimpatri. Secondo l’ultimo report della Ong Civil Mrcc, l’Ue vuole estendere il campo di applicazione del concetto di Paese terzo sicuro per consentire a chiunque transiti per il territorio tunisino di venirvi espulso. Allo studio vi sarebbe inoltre l’idea di trasformare la Tunisia in una piattaforma di sbarco, trasferendo qui le richieste d’asilo dei migranti che raggiungono le coste europee. Uno scenario evitabile se si mette in discussione l’impianto democratico e la sicurezza del Paese, operazione utile anche a permettere all’attuale flusso di migranti economici di fare domanda di asilo come possibili profughi. Non sembra casuale il boom, proprio negli ultimi mesi, di report di violazioni dei diritti umani e civili da parte del governo di Saïed.
Se da un lato Asgi, Avvocati senza frontiere e Ftdes denunciano le condizioni di detenzione e il trattamento discriminatorio subito dai tunisini intercettati in mare o rimpatriati, Human rights watch punta su gravi violazioni dei diritti umani, compresa libertà di parola, violenza contro le donne, minoranze Lgbtq+ e restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese che però perdura dal 2015, da prima dell’arrivo di Saïed. Scenari che sicuramente non si possono del tutto escludere ma appaiono mitigati dalle classifiche del Fund for Peace, associazione internazionale specializzata in diritti umani, secondo cui la Tunisia sarebbe ben più sicura di altri Stati su cui non c’è alcun focus umanitario, per esempio Marocco, Algeria o Senegal.
Oltretutto, mentre associazioni come EuroMedRights puntano il dito contro l’Europa colpevole di finanziare le frontiere anziché aiutare a democratizzare la Tunisia, non si evidenzia un cortocircuito. Se da un lato la crisi economica non aiuta quella politica, proprio il «mancato processo di democratizzazione» sarebbe il motivo per cui Washington, oltre a tagliare aiuti militari e civili alla Tunisia, starebbe rallentando il prestito del Fondo monetario internazionale. In bilico vi sarebbe anche un finanziamento da 500 milioni da parte della Millennium challenge corporation. «È il prezzo che Kaïs Saïed deve pagare» ha commentato ad Al Jazeera Kenneth Katzman del think tank Soufan Center «per aver distrutto l’immagine della Tunisia come l’unica storia di successo della Primavera araba», quasi dimenticando che più che il presidente tunisino, sarà la popolazione civile la prima a rimetterci e, se l’economia non tira il fiato, a dover fare le valigie.