Le irregolarità nella gestione della Fabbrica di San Pietro. I tagli agli straordinari per chi lavora nella Santa sede. E poi gravi accuse per presunti finanziamenti da Pechino. I conti causano sempre più problemi a Papa Francesco.
Una domanda scuote le sacre stanze: se è obbligo dare a Cesare è anche lecito ricevere da Cesare? La faccenda è tenuta sotto traccia da un paio di settimane e a tirarla fuori ci ha pensato Marco Tosatti, un vaticanista che con il suo sito Stilum curiae da tempo punzecchia i vertici bergogliani.
Esce nel momento peggiore per le finanze della Santa sede. La lista degli scandali veri o presunti si allunga di settimana in settimana e denuncia che nonostante Francesco continui a licenziare e sostituire i vertici dei diversi istituti che hanno in mano le sostanze vaticane, il Papa non controlla tutta la Curia e rischia anche uno sciopero del personale. L’ultima grana è scoppiata attorno alla Fabbrica di San Pietro: irregolarità negli appalti, ammanchi di denari e inchiesta immediata, quasi che all’ombra del cupolone ci sia una Tangentopoli. La faccenda è seria assai: per la prima volta viene toccato il cardinale Angelo Comastri che dal 2005 si occupa della «casa del Signore» ed è perciò vicario del Papa per quel che attiene San Pietro.
Lo hanno di fatto commissariato, affidando a monsignor Mario Giordana, che si stava già godendo la pensione, il compito di rimettere ordine, aiutato da una commissione, nei conti, negli statuti e nel funzionamento della Fabbrica. Quasi che ci fosse una «cupola» all’ombra del Cupolone. Ma se questo «affaire» pone problemi in Curia ve n’è uno ancora più potente che scuote tutta la Chiesa. Se fosse vero avrebbe implicazioni di politica internazionale senza precedenti: stando a queste voci il Papa sarebbe sotto ricatto economico da parte della Cina.
Sul Vaticano per i soldi si starebbe addensando la tempesta perfetta: la Curia in rivolta, le tangenti internazionali che scuotono il Vaticano, il Papa che improvvisamente cancella un suo discorso per non dispiacere ai finanziatori. I fatti sarebbero questi. Il 30 giugno sul suo sito Marco Tosatti pubblica un lungo post in cui si dà conto che il leader della protesta di Hong Kong, Guo Wengui, accusa il governo cinese di aver varato un piano per corrompere il Vaticano, versando nelle casse di San Pietro 2 miliardi di dollari. Il piano si chiama il Bgy (Blue gold yellow) e consisterebbe in un tentativo di controllo della Santa sede attraverso internet, e di corruzione per mezzo di denaro e profferte sessuali.
La rivelazione di Guo Wengui sarebbe stata fatta alla «Battle Room» di Steve Bannon (l’ex stratega di Donald Trump, considerato l’ideologo del sovranismo) che ha annunciato la riapertura della sua scuola italiana di studi strategici all’Abbazia di Trisulti anche se con corsi online e che da tempo avverte sul «pericolo cinese» in Italia. Secondo tale rivelazione, «il Vaticano riceve fino a 2 miliardi di dollari in tangenti, mantenendo il silenzio sulle atrocità del Partito comunista contro i credenti religiosi e a Hong Kong».
Le parole di un mitomane? Sta di fatto che secondo Tosatti, il vescovo coadiutore di Pechino «Augustine Cui Tai di Xuanhua, 70 anni, è stato portato da funzionari cinesi in un luogo segreto, come ha riferito Uca News. Il vescovo Cui è agli arresti domiciliari dal 2007». Ma sarebbe accaduto qualcosa d’altro. C’è un giallo attorno a una dichiarazione che Bergoglio avrebbe dovuto fare durante l’Angelus del 5 luglio scorso. Il Bollettino della Santa sede rende noto quella domenica che il Papa dirà: «In questi ultimi tempi, ho seguito con particolare attenzione e non senza preoccupazione lo sviluppo della complessa situazione a Hong Kong, e desidero manifestare anzitutto la mia cordiale vicinanza a tutti gli abitanti di quel territorio», ma all’ultimo la sala stampa vaticana avverte che il Papa non farà nessun riferimento ad Hong Kong. Perché? Molto si parla della trattativa tra Vaticano e Pechino per una visita di Bergoglio in Cina, resta il fatto che su ciò che accade nell’impero dittatoriale di Xi Jinping dal soglio di Pietro non è venuto ultimamente un fiato. Ci sono di mezzo quei miliardi?
Difficile crederlo, però la precarietà delle finanze vaticane amplifica quelle voci. E che di soldi il Papa abbia un disperato bisogno lo dimostra il fatto che all’ombra del cupolone è scoppiata la guerra degli straordinari. È stato Bergoglio stesso a sollecitarne il taglio, dopo che il Revisore generale, Alessandro Cassinis Righini (lo stesso che ha dato origine all’inchiesta sulla cupola di San Pietro) ha messo nel mirino la gestione del Governatorato (di fatto è l’amministrazione della Città del Vaticano) presieduto dal cardinal Giuseppe Bertello. Il taglio chiesto è del 20 per cento in un regime di retribuzioni dove gli straordinari sono il modo per gratificare i 3 mila dipendenti della Santa sede.
Righini ha scritto una lettera riservata – ma controfirmata dal Papa – a Bertello sostenendo che «gli straordinari non sono giustificati». Se il cardinale se l’è presa perché «il modo ancor l’offende», i dipendenti vaticani sono sul piede di guerra.
Ed è cominciata un’emorragia di dossier. Ancora la Curia è scossa dallo scandalo di Sloane Avenue 60, cioè il palazzo di Londra pagato 350 milioni con i soldi che arrivano dall’asfittico obolo di San Pietro, e tutti stanno col fiato sospeso in attesa delle rivelazioni del broker anglo-molisano Gianluigi Torzi. L’altro broker coinvolto nel caso londinese, Raffaele Mincione ha parlato apertamente di «tangenti e offerte di escort» per mettere a tacere il brutto affare che sfiora gli alti vertici della curia, dal cardinal Giovani Angelo Becciu all’arcivescovo Edgar Peña Parra, che Bergoglio ha voluto quale nuovo «ministro delle Finanze» dopo aver fatto fuori e malamente il cardinal George Pell. La tempesta perfetta ora si è abbattuta su San Pietro.
Motu proprio il Papa ha di fatto commissariato il cardinale Angelo Comastri. È una mossa clamorosa. Comastri – molto vicino all’arcivescovo Carlo Maria Viganò, il grande «oppositore» di Bergoglio – era passato indenne dal nuovo corso. Tant’è che il 18 maggio è stato lui a concelebrare con il Papa la prima messa in San Pietro post-Covid.
Se Comastri è stato messo da parte, chi deve rispondere delle accuse per appalti irregolari e presunta sottrazione di fondi davanti al Promotore di giustizia del Tribunale vaticano, Gian Piero Milano, e dell’aggiunto, Alessandro Diddi, che hanno mobilitato le guardie svizzere per sequestrare conti e computer, negli uffici alle dipendenze di Comastri, è il vescovo Vittorio Lanzani, delegato alla Fabbrica di San Pietro. La commissione, creata dal Papa e affidata al nunzio Mario Giordana, dovrà indagare anche sulla gestione della Cappella Musicale Pontificia Sistina. E ci sono altri vertici della Curia assai preoccupati: il salesiano monsignor Massimo Palombella, che del coro è il direttore, e monsignor Michelangelo Nardella, il direttore amministrativo. Insomma, in Vaticano attorno ai soldi non c’è pace.
Anche perché da pochi giorni è arrivato il rapporto sulle finanze vaticane relativo al 2019 sulla scrivania di Carmelo Barbagallo (ex Bankitalia e ora a capo dell’Aif, l’antiriciclaggio vaticano) e del Papa medesimo. Ebbene questo rapporto, se da una parte conferma che i controlli si sono di molto rafforzati, dall’altra dice che un po’ di marcio in Vaticano permane.
L’Aif ha ricevuto 64 segnalazioni di attività sospette, di cui 55 dagli enti vigilati e quattro da autorità della Santa sede e dello Stato della Città del Vaticano. La stessa autorità ha disposto quattro misure preventive col blocco di un conto corrente da circa 500 mila euro e ha fatto 15 denunce all’Ufficio del Promotore di giustizia. Come dire: è ancora lunga la strada per la redenzione. Per ora in Vaticano si accontentano della rendicontazione. n
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