L’ascesa della giovane icona della sinistra si deve non a una rigenerazione del partito ma a consolidate manovre post-democristiane. Ecco che, nella squadra del «nuovo che avanza», spicca una folla dei soliti noti.
ica trentatré. Ha già la tosse il nuovo Pd che Elly Schlein ha presentato pronunciando per 33 volte la parola «diciamo» in assenza di un programma chiaro. «Ma c’è da capirla, deve accontentare tutti dentro il partito, non può accontentare anche chi sta fuori» sibila un antico colonnello rosé, ex Margherita, cattolicone che cambia canale quando la sente parlare di maternità surrogata. «L’unità nelle differenze» è un bello slogan, ma intanto Enrico Borghi, Giuseppe Fioroni Andrea Marcucci e Caterina Chinnici se ne sono andati, altri di Base Riformista sono sull’uscio mentre prosegue lo spostamento del Nazareno verso la sinistra massimalista, radicale. Obiettivo primario: erodere consensi al Movimento 5 stelle. Obiettivo secondario, abbracciare il globalismo dem dei diritti universali così di moda in California e nell’Italia Ztl, perché il santino sulla scrivania di Elly non può essere che lei, Alexandria Ocasio-Cortez. Se il nuovo Pd è debole di bronchi la colpa è del peccato originale: è nato vecchio. Il maquillage è riuscito a metà, le circonlocuzioni da Sardina liceale della Schlein funzionano con i giornalisti militanti ansiosi di struggersi, le sue meline lessicali servono come cortina fumogena. Non è vero che l’establishment dei basilischi «non ci ha visti arrivare». È esattamente il contrario: ha pure pagato il biglietto dell’autobus. Dietro la segretaria con due passaporti ci sono Dario Franceschini ed Enrico Letta; la sua ascesa al trono è il loro trionfo ottenuto per procura, con metodi post-democristiani imparati da chierichetti. Per esempio far credere a Stefano Bonaccini di essere dalla sua parte nel segno della continuità per poi favorire «la perfetta estranea». Così estranea d’aver bisogno del gatto e la volpe per trovare la chiave del portone d’ingresso. L’ex ministro della Cultura non perde una contesa interna dal 2009, la sua essenza liquida gli consente di assumere sempre la forma del vincitore (non per niente i maligni lo chiamano «Giudario»).
Questa volta è stato il primo a schierarsi e ha ottenuto il massimo: attraverso una sua fedelissima, Chiara Braga, ha il controllo della Camera. Anche l’ex segretario – dato prematuramente per finito – ha giocato bene le sue carte, ha aspettato a tornare a Sciences Po (Parigi val bene una mossa), ha accompagnato per mano la papessa straniera convincendola a prendere la tessera del partito, ha rassicurato le cariatidi diffidenti e adesso ha in mano i parlamentari al Senato: Francesco Boccia, nominato capogruppo, è semplicemente il suo braccio sinistro.
L’effetto è straniante, il Pd più radical della storia è telecomandato come un drone da due ex colonnelli della Margherita, quelli dei «principi non negoziabili». Come si cambia per non morire, canterebbe Fiorella Mannoia, che peraltro un giorno sintetizzò: «Sono di sinistra, quindi non voto Pd». Gli slogan sono da trapper ma la Ditta è una mazurka: salamelle da Festa de L’Unità. Finché dura perché a Bologna, nel cuore dello schleinismo militante, quando salgono le polveri sottili il barbecue è vietato. Folclore di facciata. Il resto è nelle bio della nouvelle vague; in segreteria sono entrati virgulti in monopattino ma sul pavimento c’è il linoleum da Frattocchie con i lunghi passi tracciati dalle molte correnti. La vicepresidente Chiara Gribaudo, per ora nota per aver chiamato «poloni» i polacchi, faceva parte fino all’altroieri dei Giovani Turchi di Matteo Orfini. Marco Furfaro è uno zingarettiano di ferro con alle spalle passeggiate fuori porta in Sel e a Bruxelles nel partitino di Alexis Tsipras; ha flirtato anche con Giuliano Pisapia, grazie a lui rispunta come un tappo Livia Turco.
Alfredo D’Attorre è nuovo come un biglietto da 10 mila lire: già rampollo di Pier Luigi Bersani, poi in fuga dal partito in sfregio alle rottamazioni renziane, rientrato come colonnello di Roberto Speranza. Per rabbonire lo sconfitto Bonaccini ecco la poltrona onorifica da presidente del partito più un ruolo in segreteria per Alessandro Alfieri, gueriniano doc. L’aveva anticipato Gianni Cuperlo con lo sturm und drang che lo contraddistingue: «Dietro Elly vedo ripararsi il solito e inamovibile establishment, quello che ha passato ogni temporale senza mai bagnarsi». Dietro Elly, quote di potere per tutti. Per Peppe Provenzano, per Andrea Orlando (abbacchiato perché voleva di più), per l’eterno canotto Enzo Amendola (come galleggia lui…), per Pierfrancesco Majorino con i centri sociali e le birkenstock, per Maria Cecilia Guerra collezionista di sottosegretariati nei governi Monti, Letta e Conte 2. Per un pezzo da novanta come Antonio Misiani, cosiddetto uomo dei conti in tutte le stagioni. Per Sandro Ruotolo, proiezione plastica dell’era televisiva di Michele Santoro. La differenza con il passato è quella magistralmente descritta da Paolo Cirino Pomicino: «Oggi le sciabole stanno appese, combattono i foderi».
«Posso rispondere di ciò che faremo da qui in avanti» spiega Schlein, impegnata ad alzare cortine fumogene per non scontentare nessuno, a inventarsi «circonlocuzioni e arabeschi per non farsi incastrare» come ha scritto il Corriere della Sera. Il motivo dell’evanescenza cosmica («diciamo») è sempre lo stesso: dietro non c’è il deserto dei Tartari ma la consueta sinistra in marcia, un Pellizza da Volpedo con i contadini in bermuda e le pulsioni siliconvalliche. Anche i competenti per decreto hanno facce note: per un Carlo Cottarelli che si allontana ecco un Giorgio Gori che si avvicina, nonostante la concretezza cattolica bergamasca rappresenti la negazione delle fumisterie del nuovo Nazareno. Alla fine i nemici interni dichiarati della nuova zarina rimangono i due governatori più egocentrici e meno malleabili: Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, definiti da Schlein senza mai nominarli «cacicchi e capibastone». Invitati a costruirsi un futuro in assenza del terzo mandato, hanno già fatto sapere che trasformeranno le loro Regioni (Campania e Puglia) in Fort Alamo. Lo sceriffo di Salerno ha definito il nuovo Pd «arte povera», mentre Susanna Camusso (altro nome non proprio inedito) è pronta a commissariarlo. Il pm di Bari è più dialogante, ha in Ciccio Boccia un pontiere perfetto per arrivare al cuore della segretaria ma al tempo stesso ha fatto sapere che non si dimetterà per candidarsi alle Europee 2024. Così nel nuovo Pd è vecchio tutto, anche le guerre intestine. E gli amori delusi. Goffredo Bettini, solerte nel cambiare casacca folgorato sulla via dei diritti Lgbtq+, ha ricordato alla segretaria l’essenzialità dell’alleanza con i grillini. Da qui la decisione di Elly di non scontentare nessuno a sinistra, con risposte da Walter Chiari nello sketch del Sarchiapone. È dura essere d’accordo con tutti. Cosa pensa del termovalorizzatore di Roma? «Ci piace portare il Pd verso un futuro che sempre di più investa e costruisca cicli positivi, diciamo, della circolarità uscendo dal modello lineare». Cosa pensa dell’orsa JJ4: «Sono molto attenta al benessere animale ma anche alle ragioni della sentenza del Tar. È una questione complessa, ma esprimo tutta la mia vicinanza alla famiglia della vittima dell’orso». Se non fosse così visceralmente laicista potremmo azzardare che ha studiato dai Gesuiti. E sull’utero in affitto? «C’è piena disponibilità a confrontarci con tutti i femminismi e associazioni e con le persone interessate a confrontarsi su questi temi che sono complessi e densi». Dà un’intervista «glam» a Vogue, ma tace tatticamente sulle armi all’Ucraina.
Se lo scopo è lisciare il pelo a quell’altro orso che è Giuseppe Conte, serve tempo. Il leader pentastellato non sembra cascarci. «Macché conclave per trovare accordi, andiamoci piano», ha gelato gli entusiasmi nazarenici. «Abbiamo toccato con mano tante volte i metodi e la logica del Pd, un partito con un suo sistema di potere». Non basta cambiare cognomi e parole, qui non ci casca nessuno.
A ben vedere anche gli amici sono quelli di sempre: il generone terrazzato e cinematografaro, la Roma di Franceschini. Prova ne è che la prima uscita mondana della neosegretaria è stata a casa di Claudio Baglioni, circondata da Luca Zingaretti, Carlo Verdone, Gabriele Muccino, Paolo Sorrentino e da camerieri in livrea che recavano «assaggini di spigola marinata». Praticamente Youth, l’eterno ritorno del sempre uguale. Frasi sfatte, senza i palleggi di Maradona. n
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