Il dittatore cerca un migliore posizionamento negli equilibri che si vanno delineando nel continente ormai più cruciale. E la sua «minaccia nucleare» farebbe molto comodo alla Cina.
Meno di un mese fa, la comunità internazionale ha annunciato con allarme che il principale sito nucleare della Corea del Nord, il centro di ricerca di Yongbyon, è stato «improvvisamente» riattivato. Una notizia preoccupante, che Pyongyang ha prontamente negato preferendo annacquarla con le spettacolari (e assai inquietanti) immagini delle truppe nordcoreane, che per il 73esimo anniversario della fondazione del Paese hanno sfilato in parata indossando tute arancioni e maschere anti gas. Fatto che alimenta i sospetti secondo cui «rocket man», come Donald Trump ebbe a definire il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, si stia preparando a nuovi colpi di testa spettacolari.
Altri segnali si sono poi succeduti. Durante la parata militare per il 73esimo, con le immancabili Guardie rosse operaie e contadine (Wprg), un’organizzazione di difesa civile pari a un quarto della popolazione, non è stato visto alcun nuovo missile. Tuttavia, negli ultimi giorni la Corea del Nord ha testato due nuovi sistemi d’arma. A destare scalpore e curiosità è invece stato ancora lui: il leader della nazione, l’iconico Kim Jong-un, apparso molto dimagrito e più taciturno che mai. Non ha neanche tenuto il discorso di rito, celebrato invece da Ri Il-hwan, uno dei tanti dimenticabili e rimpiazzabili segretari del partito comunista.
La pandemia aveva relegato per oltre un anno la questione della minaccia nucleare di Pyongyang sotto il tappeto. Ma è bastato un guizzo degno di una sceneggiatura hollywoodiana – come l’unità militare agghindata di maschere anti gas – per ricordarci che Kim «Bang», pur se dimagrito, è capace di tutto. Anche perché il perdurare delle sanzioni internazionali per i test nucleari e la scarsità di cibo hanno costretto lo stesso leader nordcoreano ad ammettere che la situazione economica della Corea del Nord è «problematica».
Ufficialmente la nazione non registra alcun caso di positività al virus, ma il notevole aumento del tasso di mortalità annuo e il persistere delle restrizioni Covid raccontano un’altra verità. Ciò nonostante, il programma missilistico di «distrazione di massa» prosegue. «L’ultimo test risaliva allo scorso marzo, quando Pyongyang lanciò in mare due missili balistici a corto raggio soprattutto per sondare la reazione del presidente americano appena insediato, Joe Biden» puntualizza Franco Iacch, esperto di sicurezza e difesa. «Ma tra l’11 e il 12 settembre scorso, la Corea del Nord ha testato con successo un nuovo vettore da crociera a lungo raggio, definito dai media del regime come “un’arma strategica di grande importanza”. Ora, l’utilizzo della parola “strategica” implica normalmente il trasporto di una testata termonucleare. Solo pochi Paesi al mondo ne dispongono. Questo sistema d’arma fornirebbe oggi alla Corea del Nord la teorica capacità di bersagliare obiettivi fino a 1.500 chilometri».
Va ricordato che le sanzioni del Consiglio di sicurezza Onu vietano espressamente a Pyongyang di testare missili balistici. Ma «nessuna violazione è stata commessa. Lo sviluppo di un ordigno a lungo raggio potrebbe semmai rappresentare ulteriori sfide per le difese missilistiche della Corea del Sud» continua Iacch. Seoul, infatti, ha anticipato la sfida di poche ore e lanciato a sua volta due missili da un sottomarino. Un test programmato da mesi, ma il presidente Moon Jae-in l’ha voluto per ribadire che la loro capacità tecnologica «è sufficiente per rispondere alle provocazioni del Nord», esortando il Paese a continuare sulla strada della corsa agli armamenti «per sopraffare il potere di Kim Jong-un».
La tiepida reazione americana alla nuova arma nordcoreana stride con le certezze di fonti pakistane, secondo cui Pyongyang sarebbe già in possesso di piene capacità nucleari. E questo, considerato l’innalzamento della temperatura nel Pacifico, non promette bene. Specie dopo che Biden ha offerto all’Australia sottomarini a propulsione nucleare.
La mossa ha rotto un tabù internazionale: sinora nessuna potenza nucleare aveva mai venduto questa tecnologia a una nazione non nucleare. Inoltre, l’intesa bellica fra i tre grandi Paesi anglosassoni viene letta dalla Cina come una palese manovra di accerchiamento nei suoi confronti. L’amministrazione Biden ha infatti dichiarato la Cina come suo «nemico numero uno». E ha anche colpito nel terreno di scontro dove Pechino è più debole: la forza nucleare sottomarina.
Il che proietta Kim Jong-un di nuovo al centro della scena asiatica, grazie al fatto che oggi la Cina potrebbe decidere sia di contribuire a sostenere e armare la Corea del Nord (non curandosi della distensione con il Sud) sia di usare Pyongyang e il suo strambo condottiero come un agente provocatore nel risiko geopolitico del Pacifico.
Nella «guerra fredda» nel Pacifico, l’elemento di maggior instabilità è la personalità controversa del giovane dittatore. Solo per fare un esempio, ha indignato la notizia di una madre nordcoreana che rischia di finire in un campo di prigionia per aver salvato i figli da un incendio, senza essersi preoccupata di recuperare prima i ritratti dei leader del Paese. Lo Stato nordcoreano impone infatti che in ogni casa siano esposti i dipinti dei tre leader della patria: Kim Jong-il, Kim Il-sung e il loro discendente e attuale capo supremo.
Per quanto grottesco, questo racconto – che viene dalla contea di Onsong, nella provincia di North Hamgyong, vicino al confine cinese e russo – la dice lunga sulla visione che il partito comunista ha del proprio ruolo.
Eppure, secondo Iacch, «non bisogna dimenticare che la dinastia Kim è pericolosa, ma certo non stupida. La sua élite, per quanto criminale, non cerca il martirio o la gloria postuma in qualche bunker. I Kim anelano da sempre al rispetto internazionale e cercano, soprattutto, di sopravvivere. Quel rispetto internazionale ottenuto dal Pakistan, per esempio, è però basato sul riconoscimento a potenza nucleare, così da reimpostare le relazioni con i diretti antagonisti come la Corea del Sud e gli Stati Uniti».
Nell’altro schieramento, invece, la politica di un «Indo-Pacifico libero e aperto» che oggi lega Australia, Usa, Regno Unito e Giappone, non corrisponde solo alla nuova strategia americana nella regione, ma è un elemento che alza la posta della sfida per il controllo dei mari. Dunque, se da una parte le alleanze strategiche nel Pacifico si fanno sempre più chiare, lo spauracchio di un bottone rosso in mano a un leader instabile è l’arma in più che la Cina può giocarsi in ogni momento.
