Quello di Matteo Renzi doveva essere il partito che avrebbe cambiato le sorti della politica italiana. Ma, dopo solo cinque mesi, l’invincibile armata è inchiodata dai sondaggi al 3%. La strategia del «Bomba» per non sparire? Strepitare e piantare un casino dietro l’altro.
Gongolante come un fanciullo nel dì della festa, Matteo Renzi mesi orsono avvertiva: «Quel partito non è un partito del 5 per cento. Questa nostra casa avrà a breve più di cinquanta parlamentari, centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti. Sarà una rivoluzione» assicurava al Foglio il 30 settembre 2019. Nulla, nella politica italiana, sarebbe stato come prima.
Dopo profluvi di polemiche, raffiche di penultimatum e incendi diventati fuocherelli, il sentore è diventato certezza: il fu Rottamatore, pure questa volta, s’è un po’ allargato. Quando era sindaco di Firenze, il culto per l’iperbole gli valse l’eloquente soprannome: «Il Bomba». Con la nascita del suo partitino personale, Matteo Renzi s’è però superato. Tutte le sue entusiastiche previsioni sono incenerite dai fatti. Meno una. Il costante afflusso di parlamentari verso Italia viva, che può già contare su 30 onorevoli e 18 senatori. Ma è uno specchietto per le allodole: gli arditi sono fedelissimi che il Pd zingarettiano non avrebbe ricandidato. A maggior ragione dopo il probabile taglio dei parlamentari.
Tanto vale, quindi, seguire Matteo: o la va o la spacca. Per il resto, tutti i vaticini sono sconfessati dalla dura realtà. I sondaggi inchiodano Italia viva a percentuali residuali. Gli auspicati 50 consiglieri regionali sono, in realtà, appena 19. I centinaia di sindaci vagheggiati restano chimere. Come i migliaia di baldi amministratori reclutati in ogni angolo della penisola. Per non parlare di Bruxelles, dove siede un unico europarlamentare. O dei finanziamenti al partito: dopo gli entusiasmi iniziali, sono già drasticamente crollati.
Italia viva nasce lo scorso 18 settembre. Le «erogazioni liberali» al movimento, in quel periodo, raggiungono i 170.000 euro. E il mese seguente la cifra addirittura raddoppia: 329.000 euro. Ma l’entusiasmo dura poco. Renzi comincia a dardeggiare scompostamente. Le stime di voto calano. Italia viva è il bluff di un incallito pokerista, che più perde e più rilancia? Cominciano a pensarlo in tanti. Non a caso, a novembre 2019, le donazioni tracollano: 159.000 euro. Ma il peggio deve venire. A dicembre, mentre infuria la battaglia parlamentare, scendono a 78.000 euro. Entrate simili a quelle di gennaio 2020, quando sono raccolti 85.000 euro: 58.000 vengono da piccoli e anonimi versamenti, 16.000 sono raccolti tra i parlamentari, 10.000 da danarosi cittadini. O meglio, da un cittadino: il manager Lupo Rattazzi. Con quest’ultimo bonifico, il figlio di Susanna Agnelli tocca dunque i 125.000 euro, versati in diverse tranche. È lui il primo contributore di Italia viva. Alle sue spalle, con 100 mila euro, c’è il re del cioccolato: Daniele Ferrero, che controlla Venchi. Lo tallona il finanziere Davide Serra, patron del fondo inglese Algebris e storico finanziatore di Renzi: 90.000 euro. Ma i bonifici dei due risalgono ormai a luglio 2019.
Insomma, da ottobre a oggi le donazioni sono passate da 329 a 85.000 euro. Quasi quattro volte di meno, in appena tre mesi. Brutto segno, seppur prevedibile. La Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta sulla fondazione Open. Ipotesi investigativa: favori in cambio di finanziamenti. Alberto Bianchi, ex presidente della cassaforte del renzismo, è indagato per traffico d’influenze. «Sono giunto al paradosso di dare un suggerimento per il futuro alle aziende: vi prego non finanziate Italia viva, se non volete passare guai di immagine» provoca Renzi.
L’hanno preso alla lettera. Negli ultimi due mesi nessuna impresa ha contribuito alla sua causa. Le casse del partito sono rabboccate dai modesti oboli dei parlamentari: 500.000 mensili. Ma anche quelli sembra che comincino a latitare. A gennaio 2020 hanno versato solo in 25, poco più della metà di deputati e senatori. Alcuni sono fermi ad agosto 2019. Come lo stesso leader, che però quel mese contribuisce con 10.000 euro. O Maria Elena Boschi, che invece ne versa 1.500. La stessa cifra sborsata da Anna Ascani, già renziana di ferro, che però decide di rimanere nel Pd. Un mese più tardi, viene nominata viceministro dell’Istruzione.
Poco male. I parlamentari, fino a oggi, sono l’unica cosa che non manca a Italia viva. Anche se, per molti di loro, la scelta era quasi obbligata: eletti con Renzi alla guida del Pd, erano destinati alla marginalità con il nuovo segretario, Nicola Zingaretti. Infatti a Bruxelles, per cui si è votato lo scorso giugno, le sirene di Iv hanno ululato a vuoto. L’unico abile e arruolato è Nicola Danti, da Pelago, paesino confinante con Rignano sull’Arno, ormai celebre per aver dato i natali a Matteo. Le biografie dei due sembrano ciclostilate: entrambi scout, tre figli a testa e un comune passato da segretari provinciali della Margherita a Firenze e dintorni. Danti è stato persino vicesindaco di Pontassieve, dove l’ex premier ha vissuto per oltre un decennio.
Così, quando lo scorso settembre è subentrato a Roberto Gualtieri, diventato ministro dell’Economia, non ha tentennato: con Matteo, finché morte non li separi. Unico iscritto a Italia viva su 78 europarlamentari italiani, Danti è il solo compatriota ad aderire ai liberali di Renew Europe, gruppo che fa riferimento a Emmanuel Macron. Del resto, il presidente francese resta inesauribile fonte d’ispirazione. «Noi» assicura Renzi dopo la scissione dal Pd «vogliamo fare ai dem quello che Macron ha fatto ai socialisti: assorbirne il consenso per allargare al centro e alla destra moderata». «Vasto programma» direbbe però un illustre predecessore dell’amico Emmanuel, Charles de Gaulle. Gli ultimi sondaggi danno il Pd stabile, intorno al 20%. Nel mentre Italia viva vivacchia: 3%, o giù di lì.
Una stima che comincia a impensierire Renzi e compagni, specie in vista delle Regionali di primavera. In Toscana, dove Renzi sogna di cominciare la sua cavalcata trionfale, la soglia di sbarramento è fissata al 5 per cento. Corsa tribolata. Che Italia viva complica replicando le baruffe romane con gli alleati. Eppure è l’unica regione in cui il centrosinistra ha un candidato comune: Eugenio Giani, tanto dem quanto renziano. Per il resto, Iv prepara ovunque barricate: Liguria, Veneto, Marche, Campania e Puglia. Ha già annunciato che correrà insieme a quel che resta dei radicali, ovvero +Europa, e ad Azione di Carlo Calenda, che veleggia tra l’uno e il due per cento.
L’armata non sembra invincibile. Così all’ex premier non rimane altro che strepitare, tentando di impressionare l’elettorato. «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Di fronte al dilemma che per decenni ha lacerato la sinistra, Matteo scova la terza via: vengo, e pianto un casino dopo l’altro. I colonnelli lo seguono a ruota. La più battagliera resta il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova: «Diciamo no al trasformismo e alla demagogia, al peggiore notabilato meridionale e alla concezione proprietaria di Michele Emiliano». Ovvero, il governatore dem che corre per la riconferma in Puglia.
Anche Italia viva, a riguardo, mostra però di sapere il fatto suo. I consiglieri regionali passati nel partito sono 19: meno della metà dei 50 annunciati da Renzi. E la regione in cui ha fatto più proseliti, oltre alla sua Toscana, è la Sicilia. Ossia, indiscussa patria planetaria del trasformismo. Nella mitologica Assemblea regionale sono passati a Italia viva quattro onorevolini su 70.
Tra loro c’è Luca Sammartino, indagato per corruzione elettorale dalla Procura di Catania. Per gli ipergarantisti di Iv non è certo un problema. Così come il peregrinare politico dei prescelti. «Signori, oggi per chi è di centro l’unico contenitore è quello di Renzi» assicurava mesi fa l’ex governatore Salvatore Cuffaro dal suo buen retiro nell’entroterra isolano, dove coltiva fichi d’india e continua a dispensare preziosi consigli ai più nostalgici.
Come il «Gladiatore» cinematografico, che con un segnale «scatenava l’inferno», una pletora di ex Udc ha così seguito il pifferaio di Rignano. Ettore Rosato, presidente di Italia viva, ratifica: in Sicilia «nutre grandi ambizioni». Nell’attesa degli elettori, continua la caccia agli amministratori sul territorio. I sindaci isolani che hanno aderito a Italia viva, fino a oggi, sono ufficialmente una dozzina. Pochi. Ma è comunque l’apice del proselitismo renziano. In Italia i primi cittadini che hanno comunicato di aver appuntato la V arancione sul petto sarebbero qualche decina. Cifra ben lontana dalle centinaia e centinaia di adesioni sperate da Renzi. Con un’aggravante: nella lista non c’è nessun capoluogo.
Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di paesi di provincia. Così lo scorso 2 febbraio, sul palco della prima assemblea nazionale del partito, viene accolto come un trionfatore Gerardo Stefanelli, roccioso sindaco di Minturno, perla del litorale pontino. Persino in Toscana, gongolano maligni i piddini, «Matteo ne ha convinti solo due o tre». E i migliaia assessori e consiglieri comunali che avrebbero dovuto mollare tutto per gettarsi tra le accoglienti braccia di Matteo? Al momento, non si registra l’auspicato esodo. In particolare nelle grandi città. A eccezione, ancora una volta, di Palermo, dove Iv ha otto consiglieri comunali. Ma nelle aule consiliari di Milano, Roma e Torino, solo per citare gli esempi più significativi, non si registrano adesioni.
Mentre a Napoli c’è un unico e recente acquisto: Carmine Sgambati. Già fedelissimo del sindaco Luigi de Magistris, si era distinto nel 2016 per variopinti insulti a Renzi e famiglia. Tra cui irriferibili e improbabili illazioni sull’uso della legge 104 da parte della moglie Agnese, insegnante, che s’era assentata da scuola per accompagnare l’allora premier negli Stati Uniti. Cattiverie su cattiverie. Tanto che Luciano Crolla, uno dei fondatori di Iv a Napoli, dopo aver appreso dell’arrivo di Sgambati, ha annunciato il sofferto addio: «Amici miei, adesso andate e fate. Nulla di personale, ma ci vuole rispetto per i tanti che ci credono».
Idealista. E Italia viva, invece, non fa prigionieri. Venite a noi, ripete in tutt’Italia. Per adesso, con alterne fortune. Nemmeno nei luoghi simbolo del renzismo, il partito è riuscito a piantare bandierine. Neanche un consigliere comunale a Firenze, dove Matteo è stato sindaco. Così come nella natia Rignano sull’Arno o nell’adottiva Pontassieve. Ma Italia viva si farà. I coordinatori provinciali, che dovranno organizzare le pattuglie, sono stati nominati solo tre settimane fa. Nell’elenco ci sono tanti giovani di belle speranze. Ma pure una pletora di redivivi. A leggere le loro brevi biografie, il verbo più ricorrente sembra il passato prossimo: «È stato». Vecchie glorie locali. A cui sarà affidato l’agognato tesseramento sul territorio. Ma, fino a oggi, quanti sono gli iscritti?
Per scoprirlo, bisogna ancora una volta risalire le vette della propaganda renziana. È la fine di ottobre 2019. Renzi esulta: «Abbiamo già 10.000 iscritti. E ricordo che, per ogni iscritto, Italia viva pianta un albero». Il 2 febbraio 2020, durante la prima assemblea nazionale, si inerpica sulle cime più proibitive: «Abbiamo bisogno di darci due obiettivi entro il prossimo 31 marzo: aprire cento sedi di Italia viva e avere mezzo milione di registrazioni. Non siamo qui per fare un partitino».
Per carità. Qualche giorno dopo, il 13 febbraio, nella periodica Enews, Renzi informa che all’inizio di marzo darà seguito alla sua promessa: piantare un albero per iscritto. Ovvero, «10.000 alberi in tutta Italia». Pochi per mitigare la cementificazione. E pochissimi per l’annunciata rivoluzione.