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E venne la Brexit

E venne la Brexit

Le questioni commerciali e l’emergenza immigrazione, i rapporti tesi con Parigi e con le due Irlande. La ripresa economica e le difficoltà negli approvigionamenti. Ecco le luci e le ombre nel Regno Unito a meno di un anno dalla «concreta» uscita dall’Europa.


«Questo sarà un anno fantastico per la Gran Bretagna». Così parlò, anzi twittò, Boris Johnson il 2 gennaio 2020, quando la Brexit fu cosa compiuta. Sembrava ormai una questione dì semplici formalità e la seconda e più importante fase delle trattative (quella sui nuovi accordi commerciali con i singoli Stati) avrebbe potuto partire. Invece prima dell’addio al Vecchio continente arrivò la pandemia. L’anno non fu affatto fantastico, perché il nostro finì in ospedale colpito dal Covid, due mesi dopo aver sottoscritto ufficialmente l’accordo che segnava l’inizio dell’era della Global Britain, il Regno Unito che decide per se stesso.

L’emergenza costrinse il premier a chiudere il Paese per cinque mesi, gli incontri in presenza tra Londra e Bruxelles per mettere a punto i problemi rimasti aperti – come quello relativo al confine irlandese – rimasero congelati per altrettanto tempo senza che nessuno avesse troppa fretta dì ripristinarli. Il meccanismo ripartì faticosamente, man mano che la situazione migliorava. Johnson trasformò il suo slogan più famoso in una strategia d’indipendenza dall’Europa su difesa dei confini, sicurezza, lavoro, commercio internazionale, sviluppo e politica estera.

Oggi, a un anno scarso dalla «Brexit done», (almeno in senso concreto) e con l’incubo incombente della nuova variante Omicron, è tempo di bilanci. Cosa si è veramente compiuto dopo il divorzio meno consensuale della storia moderna? E soprattutto, ora che si inizia a capirci qualcosa, ne valeva la pena?

«Nessuno può sapere se andarsene sia stata veramente una buona idea» ha chiosato con voluta crudeltà, lo scorso luglio, l’architetto della campagna referendaria, Dominic Cummings, dopo essere stato cacciato malamente da Downing Street. È però innegabile che vittorie e fallimenti, dopo l’uscita dalla Ue, continuino a sfumare e a sovrapporsi uno all’altro, anche a causa della contemporaneità con cui il Paese è stato costretto ad affrontare le conseguenze della pandemia.

Eppure il primo trionfo della Brexit è stata proprio la campagna contro il Covid (50 milioni di vaccinati con la prima dose, 46 milioni con entrambe) che in Gran Bretagna è potuta partire in anticipo rispetto al resto del mondo, proprio perché il governo non ha dovuto attendere l’autorizzazione dell’Ema, l’ente di regolazione eruopeo, per distribuire il siero AstraZeneca che i ricercatori di Cambridge avevano messo a punto insieme con gli italiani.

E ora la nuova accelerazione per somministrare la terza dose a chi ha più di 18 anni. Anche in economia il Regno Unito è stato il primo in Europa a segnare una ripresa post-Covid brillante (le previsioni di crescita sono state riviste al rialzo, dal 4 al 6,5%) grazie a una politica di sostegno alle imprese rapida ed efficace, libera dai legacci dell’Unione europea. Neppure il tanto temuto esodo delle banche dalla City si sta verificando con la velocità paventata, tanto che Milano – che mirava a prendere il posto di Londra come cuore pulsante della finanza – per ora rimane al palo.

Sul fronte del commercio, dal 1° gennaio 2021, sono stati sottoscritti accordi con 58 Paesi e la Gran Bretagna ha imposto quelle sanzioni alla Bielorussia che l’Unione europea ha invece posticipato. Le criticità, ovviamente, non mancano. «Al momento i benefici sono minori dei costi» afferma il professor Anand Menon di Uk In A Changing Europe, un gruppo di studio sulle conseguenze della Brexit, «poiché i nuovi accordi sono in larga parte la replica di quelli passati e il loro impatto è minimo, rispetto a quello negativo delle nuove barriere commerciali imposte dagli ex partner europei».

Barriere fumose, discriminatorie, per ora invisibili e proprio per questo ancora più pericolose. Sono quelle derivanti dal famoso «nodo irlandese», che rimane la spina nel fianco del governo Johnson. Aver accettato, pur di andarsene, di lasciare a tempo indeterminato l’Irlanda del Nord dentro al mercato unico e al sistema fiscale europeo, si è tradotto, in questi mesi, in problemi infiniti di riduzione delle scorte alimentari, scarsità di manodopera specializzata e di approvvigionamenti e in un preoccupante riaccendersi delle tensioni tra le due Irlande che, di fatto, si ritrovano nuovamente unite sotto l’ombrello dell’Europa.

Confini commerciali, confini internazionali: i 27 migranti annegati nelle acque della Manica e il poco dignitoso rimpallo di responsabilità che si sta giocando tra governo francese e inglese hanno riportato al pettine uno degli aspetti più critici della Brexit. «Ritornare a essere padroni delle proprie frontiere» era tra gli obiettivi più cari ai leavers, i sostenitori dell’addio a Bruxelles, e ora è difficilissimo ottenere legalmente asilo politico sul suolo inglese.

La nuova emergenza migratoria ha però evidenziato l’impreparazione del ministero per l’immigrazione – che deve ancora far approvare la nuova legge sulle frontiere – e ha esacerbato i rapporti mai troppo amichevoli con i cugini francesi, ai quali il governo Johnson sta già negando le licenze temporanee per pescare in acque britanniche. Dopo il drammatico incidente, il premier ha chiesto alla Francia di trattare per poter rimandare indietro i migranti che, sempre più numerosi (solo quest’anno hanno tentato la traversata in 47 mila) riescono a raggiungere l’Inghilterra. Un’ipotesi respinta al mittente dagli interessati, visto che questa possibilità viene automaticamente negata a chi non fa più parte dell’Unione europea.

Non c’è dubbio poi, che all’Eliseo stiano usando i migranti come merce di scambio nelle trattative post Brexit ancora irrisolte e Johnson non può farci nulla. Anche perché a Macron ancora brucia «la pugnalata alle spalle» arrivata dal Regno Unito, quando quest’ultimo ha cancellato il contratto da tre miliardi di euro con la Naval Group di Parigi per la fornitura di sottomarini nucleari, sostituiti da quelli australiani più moderni, compresi nel nuovo patto militare Aukus, che vede alleati Londra, l’America e l’Australia contro l’espansionismo cinese.

Brexit però significava anche il «ritornare padroni a casa propria» migliorando sanità e istruzione, creando nuovi posti di lavoro per i propri connazionali e riempiendo quelli lasciati vacanti dagli stranieri che erano andati via. L’aumento del costo della vita, la carenza di manodopera e la maggiore disoccupazione (siamo al 4,4%) hanno invece generato una «stagflazione» che la Brexit ha soltanto peggiorato. I giovani sono la generazione più colpita dal taglio del cordone ombelicale con l’Europa. Sempre più esclusi da un futuro professionale transfrontaliero, sono ora anche rifiutati dai programmi di mobilità studentesca previsti nell’ambito dell’Unione europea.

Nell’ultimo anno utile per l’utilizzo del progetto Erasmus, la quasi totalità degli studenti britannici che doveva passare un periodo di studio in Spagna è rimasta a casa perché il visto non è arrivato in tempo utile. E addio così anche alle molte opportunità di lavoro internazionale che, grazie agli stessi progetti, venivano a crearsi.

Rimane infine sullo sfondo – quello sì, ancora tutto da disegnare – il sogno di un Regno per sempre Unito, nei valori della Brexit. «I leavers inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi vogliono tutti le stesse cose e un periodo di difficoltà transitoria non li spaventa perché nell’uscita dall’Europa hanno sempre visto, più che una trasformazione delle loro vite, un riassestamento» afferma Daniel Wincott, direttore del programma di ricerca Governance after Brexit.

Ad accumunarli, una forte identità nazionale che li rende euroscettici e fomenta però, al tempo stesso, spinte secessioniste, come nel caso della Scozia. Tenerle a bada in futuro, evitando la disgregazione del Regno, potrebbe essere il vero trionfo della Brexit. Quella che deve ancora venire.

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