Alle forti critiche della Ue il premier Viktor Orbán replica con un’apertura a Est. E la Cina spicca per gli investimenti nel Paese. Risultato: una crescita economica da approfondire senza pregiudizi ideologici.
Hic sunt leones riportavano scritto le antiche carte per indicare le regioni ignote e che facevano paura. L’Europa dimentica che il Danubio era il confine dell’impero romano e ha posto a Budapest un altro limite: hic est leo. Il leone di nome fa Viktor Orbán – più drago che felino, in verità – pronto com’è a scendere a patti col Dragone cinese… Il premier ungherese reduce dalla terza schiacciante vittoria alle elezioni politiche – ha incassato quasi il 54 per cento dei voti – stanco di sentirsi il reprobo di Bruxelles (il Ppe ha espulso Fidesz, il suo partito), alle strette perché Ursula von der Leyen ha proposto di tagliargli i finanziamenti (7,5 miliardi di euro, il 65 per cento dei fondi di coesione), additato come un autocrate incompatibile con i valori occidentali, ha deciso di puntare a Est. L’Ungheria di oggi è un Paese in pieno sviluppo, e a Budapest svetta una selva di gru: acquista il gas da Mosca pagando in rubli, accetta risorse da Pechino trasformandosi nell’hub dei prodotti cinesi verso l’Europa.
Intanto lo stesso Orbán ha scritto in Costituzione, ottenendo una larghissima maggioranza all’assemblea dell’Országház, il Parlamento, che i bambini devono essere educati nell’ambito di una famiglia tradizionale, si oppone ai movimenti Lgbtq+, è critico sulle politiche ambientali, nazionalista ed euroscettico, si è guadagnato però un posto di rilievo sullo scacchiere internazionale. Interlocutore di Recep Tayyp Erdogan al punto di far entrare l’Ungheria nel Consiglio dei paesi turcofoni, mantiene un filo con Vladimir Putin, ha ottimi rapporti con Xi Jinping ed è il primo sincero amico del neopremier israeliano Benjamin Netanyahu. Quando Bruxelles lo censura – perché non allineato al politicamente corretto – Orbán minaccia veti, cerca di sfruttare al meglio i fondi dell’Unione e costruisce una via al nazionalismo, coltivando la propria eresia d’Europa.
La sua ultima mossa è stata vincere il referendum per consentire che, alla periferia di Budapest, accanto alla stazione abbandonata di Kozvagohid, sia edificata la prima sede dell’Università di Fudan nel Vecchio continente. È la più prestigiosa della Cina, 34° posto nel ranking mondiale, vera fucina della classe dirigente di Xi Jinping. L’accademia ungherese si oppone, il sindaco di Budapest ha intitolato in dissenso le strade del quartiere ai tibetani, i nemici giurati di Pechino; eppure dal 2024 Fudan-Budapest sarà operativa, con oltre 4 miliardi di euro d’investimento, per formare 6 mila studenti all’anno.
Per Orbán si tratta di una rivincita personale. Per far posto alla nuova istituzione ha sfrattato l’Università di George Soros, quella che gli riconobbe una borsa di studio per frequentare il Pembroke college di Oxford. L’eresia ungherese non è l’isolamento di un autocrate e può trasformarsi nel cavallo di Troia di Xi Jinping. Basta osservare oggi Budapest. Perfino il ponte delle Catene che guada il Danubio, cordone ombelicale tra Buda arroccata sulla collina e Pest, la pianura ricca, è uno sterminato cantiere. Emerge poi diafano il profilo di guglie e pinnacoli del Parlamento con la sua cupola. Quando lo hanno pensato era la rivendicazione della grandezza e della fierezza di un Paese alla ricerca incessante d’indipendenza.
La sua bandiera è un tricolore rovesciato, sarà per questo che l’Ungheria pullula d’italiani: si contano oltre 3 mila nostre imprese. Sulla piazza dell’Assemblea legislativa domina il monumento equestre di Ferenc Rakóczi, principe di Transilvania; nel Settecento guidò gli ungheresi alla ribellione contro gli Asburgo. È ancora celebrato come eroe nazionale. Sul basamento della statua è incisa la scritta: «Cum Deo pro patria e libertate». No, qui la voglia di libertà non è moda. E forse se Orbán vince le elezioni un motivo profondo c’è.
Lo sguardo di bronzo del condottiero è puntato su una fenditura a lato della grande spianata; lì c’è una balaustra in ferro che porta la scritta «1956». Nessuna esibizione; non serve. A Budapest sanno tutti dove conducono quei gradini. Lì sotto, il semibuio del Memoriale dell’invasione è illuminato da una luce color rosso sangue. Alle pareti foto in bianco e nero, nel pavimento nicchie con abiti laceri, filmati rilanciano immagini drammatiche. Un’anziana guarda lo schermo e piange: lei c’era nel novembre del 1956. In quella piazza c’era anche sua madre. È finita sotto i cingoli di un carrarmato sovietico. Un presidente della Repubblica italiana li definì allora «portatori di pace», salvo poi pentirsi mezzo secolo dopo. Giorgio Napolitano si sbagliava: quei portatori di pace fucilarono 2.500 civili. Forse è anche per questo che Orbán vince le elezioni.
L’esito dispiace comunque a Bruxelles che taglia i fondi. Ma a Budapest non ci fanno caso. Vivono in una città splendida e vivace, che corre sulle gambe di migliaia e migliaia di ragazzi. Fanno i camerieri, studiano. I figli dei benestanti hanno macchine potenti, le figlie scollature importanti. Ma poi li ritrovi tutti inginocchiati in una chiesa immensa: Santo Stefano. Pregano sul serio. Pare che questi ragazzi scandiscano la vita sul ritmo di un metronomo: confessione, impegno, trasgressione. Magari per loro è ancora attivo «l’ascensore sociale». Forse vetusto, ma bellissimo come la funicolare che dalla riva sinistra del Danubio ingombra di battelli che promettono crociere da sogno o da un’ora – qui tutto è in vendita – sale con ottocentesca lentezza sulla piazza del Castello. Là dove c’è la residenza del Primo ministro; una palazzina in stile neoclassico. Niente di pomposo, anche se ci abita Orbán che come il caffè (e qui Illy batte Starbucks), più a Bruxelles lo mandano giù, più in patria si tira su. Ovvio che poi si rivolga a chi lo protegge, a Mosca e Pechino.
A Buda le gru lavorano senza interruzioni. Si è deciso di ricostruire tutto ciò che la Seconda guerra mondiale ha distrutto. Uno sforzo finanziario gigantesco. Forse è un modo per farsi un Pnrr a uso dell’identità ungherese. Nella capitale vive il 20 per cento della popolazione: il governo ha alzato i salari del 10 per cento (la paga oraria supera i 9,50 euro) il Pil cresce quest’anno dell’8,7 per cento, il debito pubblico è sotto il 77 per cento del Pil con l’export al +10. La paura si chiama inflazione al 9 per cento. Il sollievo la flat tax, egualmente al 9 per cento. È un’economia all’antitesi del modello di Maastricht, ma a giudicare dal tasso di occupazione, funziona.
I miliardi di euro d’investimento, non meno di 20, sono come si diceva quelli cinesi e russi. Arrivano le fabbriche per produrre batterie e componenti per auto elettriche che Pechino venderà sul mercato europeo, arriva una ferrovia che non serve all’Ungheria ma alla superpotenza d’Asia: da lì passano le merci che arrivano al Pireo diventato cinese, dopo che l’Europa ha voluto la spoliazione della Grecia. Ecco: Orbán l’eretico sta trasformando Budapest nell’hub della Cina e Xi Jinping ringrazia. Bank of China ha raddoppiato la sede nella scenografica piazza József Nádor, da dove parte la via dello shopping con firme italiane. Di tedesco, molte auto; i più ricchi, però parcheggiano – lungo il Danubio, in una città pulitissima dove gli homeless si contano sulle dita di una mano – soprattutto Lamborghini e Bentley.
Per i turisti c’è la metropolitana, che ha corse frequenti e in orario. La polizia sorveglia, ma senza una cappa oppressiva. A Budapest – dove si cena in un locale chic con meno di 30 euro, si soggiorna in un hotel 5 stelle con 160 euro a notte e si compra un attico in pieno centro a meno di 2 mila euro al metro quadrato – hanno il sole in fronte e il futuro è a oriente. Sarà per quel tricolore rovesciato.
