Turchia e Grecia si trovano sempre più in contrasto per il controllo del Mediterraneo. Ma la Mezzaluna non disdegna di realizzare fortissimi investimenti ad Atene. Un copione che vale anche nei confronti di Israele e Cina, grandi partner commerciali di Ankara.
I turisti erano abituati a veder solcare le acque verdi e blu cobalto dell’Egeo solo da traghetti diretti verso le decine di isole dell’Ellade. Paesaggi paradisiaci, che però quest’anno sono stati disturbati, e non poco, dal passaggio di navi da guerra di diversa nazionalità a causa delle forti tensioni fra Grecia e Turchia per le rivendicazioni di Ankara sul controllo delle acque nel Mediterraneo dell’Est. Ad agosto si è arrivati a un passo dal conflitto armato. I rapporti sono ancora tesi e la Turchia non perde occasione per affermare quelli che, per Ankara, sono suoi diritti, palesemente in contrasto con le leggi internazionali.
Quello che molti non sanno è che, se per il controllo delle acque del Mediterraneo la Grecia rappresenta il nemico numero uno, quando si tratta di fare affari, i problemi sono prontamente superati, soprattutto se gli scambi sono a favore della Turchia. Investimenti nel settore immobiliare, acquisizione di terreni e di asset strategici, presenza nel settore finanziario e accordi commerciali che fanno volare le esportazioni di Ankara.
Da qualche anno, infatti, la Mezzaluna figura fra i primi investitori nel real estate, il settore immobiliare. Un primato favorito da molto fattori. In primo luogo la crisi economica greca, che ha portato molti proprietari a svendere le loro case, ma anche il piano «Golden visa», varato dal governo greco per aumentare gli investimenti nel Paese e che prevede un visto di cinque anni per chi acquista immobili per un valore di almeno 250.000 euro.
Detto fatto. Nel 2019, l’Ellade ha visto un incremento del 130% di proprietà comprate da stranieri, per un totale di circa 10 miliardi di euro. Al primo posto ci sono gli onnipresenti cinesi. Ma al secondo ci sono i turchi, con oltre 500 immobili rilevati nei quartieri più lussuosi di Atene e sulle isole più rinomate e circa 1.497 permessi di soggiorno a cinque anni accordati in ragione dell’investimento effettuato.
Per i cittadini della Mezzaluna, il guadagno è doppio. Oltre a usufruire delle agevolazioni amministrative, la maggior parte delle proprietà vengono spesso riaffittate. Non solo a privati, ma anche ad aziende. Una società turca, nei primi mesi del 2020, prima che scoppiasse l’epidemia di Covid-19, ha avanzato proposte per acquistare un edificio un tempo sede di una compagnia pubblica dell’energia, per un valore di 850.000 euro. Tanti gli investitori che cercano di acquistare alberghi e persino terreni dove spostare la loro attività, perché la pressione fiscale in Turchia sta diventando proibitiva e la valuta troppo ballerina.
Non c’è solo il «real estate» a testimoniare che, se dal punto di vista politico le relazioni sono pessime, da quello economico Ankara Atene se la tiene stretta. Ziraat Bankasi, la più importante banca pubblica turca, è presente con le sue filiali in diverse città del Paese. Nonostante l’aggravarsi progressivo della crisi nel Mediterraneo orientale, l’interscambio commerciale fra i due Paesi ha continuato a crescere dal 2017, con l’ago della bilancia commerciale ovviamente a favore della Turchia. Nel 2019 le esportazioni dalla Mezzaluna verso l’Ellade sono state di 2,1 miliardi di dollari, contro gli 1,4 della Grecia verso la Turchia.
Poco prima dello scoppio della pandemia e della successiva crisi nel Mediterraneo, una delegazione di figure chiave nell’economia dei due Paesi aveva firmato un memorandum per incrementare le relazioni economiche bilaterali, aspetto preso più volte in considerazione dallo stesso Recep Tayyip Erdogan durante i suoi incontri con gli ultimi due premier greci, nello specifico Alexis Tsipras e Kyriakos Mitsotakis.
Del resto, per il leader turco, prendersela con quelli con cui poi fa affari è quasi una consuetudine. C’è un altro, illustre esempio che conferma questa tendenza ed è niente meno che Israele. Le accuse contro Gerusalemme per quanto riguarda la questione palestinese sono ormai note da alcuni anni e più di una volta Erdogan ha definito quello ebraico uno «Stato tiranno, autore di un genocidio», evidentemente dimenticando le varie violazioni dei diritti umani e la tristi pagine storiche in casa sua.
Tutt’oggi, nell’ambasciata israeliana di Ankara è presente solo un incaricato di affari e da quando il presidente Usa Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, le relazioni hanno continuato a peggiorare. Le ultime dichiarazioni, solo in ordine di tempo, sono quelle di un Erdogan inferocito per l’importante accordo siglato a Washington fra Israele e due importanti Paesi del mondo arabo, che potrebbe spianare la strada alla pacificazione del Medioriente. Il presidente turco non ha usato mezzi termini, definendo le guide di Emirati Arabi Uniti e Bahrein «traditori» della causa palestinese per avere riconosciuto Israele.
Peccato che la Turchia non solo riconosca da tempo lo Stato di Israele, ma ci faccia anche affari. Lo Stato ebraico rappresenta una delle principali destinazioni dell’export turco, dove l’unico problema non sono le crisi internazionali, ma quelle economiche, che affliggono tutto il commercio internazionale. Per il resto, e a dirlo sono i dati del ministero del Commercio turco, il volume commerciale con Gerusalemme, dal 2013, è aumentato di 6 miliardi di dollari, con 4,4 rappresentati dall’export di Ankara. Anche il 2020, nonostante il Covid-19, sembra essere partito sotto i migliori auspici. L’aumento dell’export verso Israele è aumentato del 4,9% nel periodo gennaio-marzo rispetto allo scorso anno.
La pandemia, in questo caso, ha persino giocato un ruolo positivo. Al momento della temporanea interruzione dei voli commerciali dalla Cina, infatti, parte della fornitura è stata sostituita dalla Turchia, con tutti i relativi benefici. Un mercato florido, in parte sottratto anche all’Unione europea e che adesso Ankara teme di vedersi scippare proprio dai Paesi arabi che stanno iniziando a riconoscere Israele e che potrebbero trasformarsi in insidiosi partner commerciali. A dimostrare come, dietro alle polemiche politiche e ideologiche, in questo caso ci siano più impellenti motivazioni economiche.
E sono sempre gli istinti pragmatici ad aver fatto cambiare idea al presidente Erdogan, prima che fosse troppo tardi e la Turchia rischiasse di rimanere fuori da un giro di affari senza precedenti. La relazioni fra la Mezzaluna e Pechino, fino a un paio di anni fa molto contrastate per la questione degli uiguri, adesso sembrano andare nel migliore dei modi. Se, fino al 2015, i destini della minoranza musulmana che vive nello Xinjiang e parla una lingua derivante dall’ottomano, erano ben presenti sull’agenda della politica estera turca, negli ultimi anni il loro peso è decisamente diminuito. Ad avere fatto cambiare idea al capo di Stato turco sono i numeri. Dal 2016 al 2019, Pechino ha fatto arrivare 3 miliardi di investimenti diretti, che potrebbero diventare il doppio nei prossimi due anni.
A questi vanno aggiunti i 3,6 miliardi di dollari che dal 2018 la Banca commerciale cinese ha stanziato per finanziare progetti energetici e infrastrutturali sul territorio della Mezzaluna. Come se non bastasse, negli ultimi due mesi, la Banca popolare cinese ha accordato ad Ankara uno scambio di valuta per un miliardo di dollari, per proteggere le esigue riserve in valuta straniera della Merkez Bankasi, la Banca centrale turca. Il tutto, in aggiunta alla Road belt initiative, la colossale opera ferroviaria che incarnerà la Via della seta del terzo millennio e che passerà anche dalla Turchia, con il suo corollario di linee di comunicazioni e scali commerciali. Tutti buoni motivi per dimenticarsi delle questioni di principio e rivolgersi a quelle ben più pratiche.