A tre anni e mezzo dal Vertice Sociale di Göteborg in cui fu approvato il cosiddetto Pilastro europeo dei diritti sociali, l’Unione Europea e la Presidenza portoghese hanno voluto mettere un nuovo mattone nella complessa (ri)costruzione del modello sociale europeo con un nuovo Vertice Sociale ed una Dichiarazione sottoscritta dai 27 governi europei.
Nel mezzo di una pandemia che riscontra 16 milioni di disoccupati con 3,5 milioni posti di lavoro ancora mancanti dall’inizio della crisi e un mercato del lavoro che esce più frammentato penalizzando duramente soprattutto giovani e donne, i 27 hanno fissato i nuovi obiettivi dell’Europa sociale al 2030: a) tasso di occupazione di almeno il 78% nell’Unione europea; b) partecipazione di almeno il 60% degli adulti a corsi di formazione ogni anno; c) riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni, di cui 5 milioni di bambini,. Questo mentre Next Generation EU non si è ancora avviato e il programma SURE (programma europeo di assicurazione contro la disoccupazione) rischia di rimanere temporaneo e non diventare un programma permanente. Come spesso è successo all’Europa Sociale non sembra che il Vertice abbia scosso la fantasia di molti Capi di governo né abbia suscitato l’attenzione della stampa o della pubblica opinione. E questo nonostante i coraggiosi tentativi del sindacato europeo. Sarà che la questione dei vaccini ha spostato le priorità del Vertice, sarà che le navi da guerra nella Manica (fatto preoccupante e non troppo di colore) abbiano sollecitato l’attenzione dei media, in ogni caso ancora una volta l’Europa Sociale è passata in secondo piano. L’ennesima occasione sprecata? Forse. Certo sarebbe stato più utile un’attenta valutazione della Strategia 2020, un esame dello stato di attuazione del Pilastro Sociale, una analisi delle potenzialità occupazionali dei Recovery Plan, anche alla luce del poco esaltante dato statunitense sui posti di lavoro creati, ben distante dalle attese degli analisti, e cha ha gettato qualche ombra sull’efficacia dei piani di stimoli del governo Usa. Il modello sociale europeo non è, purtroppo, uniforme –nonostante alcune comuni caratteristiche di base- e ancora oggi le divisioni tra Paesi per mettere insieme le politiche sul sociale –pure in tempo di pandemia- sono molto profonde. Nulla di nuovo per la verità perché lo sono sempre state. Si pensi alla bocciatura avvenuta all’inizio degli anni 2000 del tentativo di mettere a fattore comune la politica previdenziale –secondo una proposta italiana- che pure era ed è uno dei parametri di sostenibilità della spesa pubblica. E se la fissazione di obiettivi comuni è un traguardo da non sottovalutare sarebbe ancora più importante costruire nuovi e più strutturali strumenti comuni. Il Presidente Draghi nel suo intervento ha ricordato le diseguaglianze che la crisi ha prodotto in Europa, le fratture tra giovani e donne, la necessità di una nuova stagione di interventi, fondati su un proattivo combinarsi tra politiche attive e politiche passive, ha ricordato i 6 miliardi stanziati per le politiche attive nel Recovery Plan. Il problema di fondo per l’Italia oggi è che la strategia in corso appare essersi congelata nella ripetizione di cassa integrazione e nella assenza di politiche attive. Ciò è molto pericoloso perché occorre sbloccare- sia pure in maniera “dolce”- il blocco dei licenziamenti prima che si formi una slavina difficile da gestire e che i tavoli di crisi al Ministero dello Sviluppo Economico diventino un numero non più fisiologico ma patologico, assai difficile da gestire. Peraltro, senza il riavvio delle politiche attive si rischia una eccessiva perdita di capitale umano e una inefficiente allocazione tra domanda ed offerta. L’esercizio di riequilibrio deve prevedere il rientro fisiologico nell’utilizzo della Cassa Integrazione -in attesa che si disegni compiutamente il riordino del sistema degli ammortizzatori sociali che preveda un irrobustimento della Naspi e più in generale dell’indennità di disoccupazione con il mantenimento però della cassa integrazione semplificata- e la riaccensione del motore delle politiche attive. Non basta dire il Pnnr destinerà 6 miliardi a questa politica perché è necessario che si concretizzi già ora in chiari e robusti interventi, con le risorse che sono già disponibili – e non sono poche. Fino ad ora si è proceduto con troppa –e certamente dovuta- accortezza. Ora sarebbe venuto il momento di cambiare marcia. Rapida riorganizzazione della governance di Anpal, rilancio dell’assegno di ricollocazione, patto con le Regioni, modernizzazione dei centri per l’impiego pubblici con la stipula di un “patto di azione” con le agenzie private. Una agenda snella e semplice che può trovare attuazione nei prossimi 30 giorni e garantire all’Italia una ripresa che passi anche per più occupazione. Certo occorre innovare e “rompere” con l’attuale assetto. Ma non è stato fatto così anche per la campagna vaccinale, così strategica per il futuro dell’Italia?