Negli ultimi tempi si è riacceso il dibattito sulla creazione di una nuova Iri, che oggi sarebbe impersonata dalla Cassa depositi e prestiti. Una discussione stimolata dal ruolo sempre più tentacolare del fondo sovrano, coinvolto in Alitalia, in Aspi (autostrade), nella governance delle reti (Tim-Open Fiber) e probabilmente nella nuova proprietà di Borsa Italiana, oltre che maggiormente utilizzata come polmone finanziario anche per le piccole-medie imprese. Tuttavia, spesso si dimentica che l’Iri, fondato nel 1933, nasceva per fronteggiare una crisi economica globale che aveva portato le maggiori banche italiane, troppo intrecciate alle partecipazioni di controllo delle grandi industrie, sull’orlo del fallimento.
All’epoca era in gioco la sopravvivenza della stessa Banca d’Italia, ed il regime fascista non poteva permettersi il fallimento del settore finanziario. L’Iri si ritrovò a subentrare alle banche col compito sia di rimettere a posto gli istituti di credito che di ristrutturare e valorizzare le partecipazioni aziendali al fine di rivenderle ai privati. Una missione, quella degli smobilizzi delle partecipazioni pubbliche, che fallì sia per l’influsso dell’ideologia politica fascista che per la mancanza di capitali privati e capitalisti coraggiosi. Così lo Stato si ritrovò a fare l’imprenditore, quando non era nei piani iniziali di farlo se non per qualche anno, tanto che l’Iri era nato come ente transitorio ed eccezionale. Una storia spesso dimenticata dai fautori dell’intervento pubblico, che anelano al ritorno dello Stato-imprenditore travestito da Cassa depositi e prestiti prendendo l’Iri come misura di riferimento.
Questa spinta statalista è particolarmente evidente nella vicenda della rete unica per la fibra veloce, che vede in competizione Tim e Open Fiber, con il governo Conte che preme affinché il controllo della rete sia a maggioranza pubblica. Siamo di fronte ad un tentativo, nemmeno troppo implicito, di nazionalizzazione surrettizia. Con Open Fiber e Cassa depositi e prestiti, azionista sia della prima (al 50% con Enel) che di Tim (10%), l’esecutivo sta mettendo pressione sulla società di telecomunicazioni guidata dal Ceo Luigi Gubitosi affinché ceda la partecipazione di controllo della società che gestirà la rete unica allo Stato.
Il governo non intende estromettere Tim dalla governance, ma cerca attraverso l’azione combinata dei ministri Patuanelli e Gualtieri di far guadagnare, nella confluenza in una nuova società per la gestione dell’infrastruttura, la maggioranza assoluta alla Cassa depostiti e prestiti. Per il momento Tim, più avanti nel progetto di costruzione della rete, ha ribadito di voler mantenere la maggioranza assoluta (50,1%) in un eventuale nuova compagine societaria che nasca dalla fusione di Tim e Open Fiber.
Sul piano politico, la vicenda racconta molto della politica italiana degli ultimi anni. C’è l’ambizione esorbitante dell’ex premier Matteo Renzi, che con la costituzione di Open Fiber aveva cercato di anticipare e preparare il campo alla gestione pubblica che oggi il governo ricerca. Una duplicazione probabilmente non necessaria, considerata la presenza di Tim e la possibilità di cooperazione con altri partner internazionali, ma che mostra la volontà (e la rapacità) della politica degli ultimi anni nel voler controllare i monopoli infrastrutturali, andando spesso oltre la ragionevolezza tecnica ed economica. C’è poi la cultura statalista del Movimento 5 stelle, che continua a vedere il capitalismo privato con il fumo negli occhi e a voler nazionalizzare qualsiasi dossier che arriva sul banco del governo. C’è infine la vuotezza del Pd di Nicola Zingaretti, dapprima più aperto verso il ruolo di primazia di Tim sul piano del capitale, e oggi completamente allineato alla posizione dell’alleato di governo. Questa convergenza fa sì che i ministri dei due partiti agitino lo spettro della golden power, eventualmente da utilizzare per impedire la partecipazione del fondo d’investimento Kkr al capitale di FiberCop, controllata di Tim che dovrebbe gestire la rete secondaria. Scenario che inserisce la vicenda all’interno di una partita geo-economica più ampia: con State Grid Corporation of China che controlla il 35% del capitale di Cdp Reti (sempre Cdp, inoltre, tramite la società Cdp Equity detiene il 50% di Open Fiber) ed il fondo americano che preme per entrare con TIM. Situazione che alimenta i sospetti di sinofilia del governo, oltre che quelli di statalismo.
La partita resta ancora molto aperta e non è da escludere che i fattori internazionali possano pesare ulteriormente nel dipanarsi di questa storia. Ad ogni modo, i Paesi liberali e più sviluppati ci insegnano che i monopoli pubblici e privati sono spesso dannosi in materia d’infrastrutture complesse e che gli esperimenti di maggior successo si fondano su una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato, con il primo che stabilisce le regole e controlla ed il secondo che versa la maggioranza del capitale e mette in opera i progetti. Il governo può legittimamente avanzare le proprie pretese sulla rete unica, ma sarebbe grave se si giungesse ad utilizzare la forza della legge (golden power o decreti) per regolare a proprio favore una situazione in cui una società privata ha già impiegato capitali e strutture tecniche. Se ciò accadesse ci troveremmo di fronte ad una nazionalizzazione con un colpo di mano da parte del governo, che farebbe percepire l’Italia come un paese ancor più rischioso in cui investire. Inoltre, la costruzione di una società a maggioranza pubblica porrebbe un problema di certezza del diritto e di stabilità economica: può lo Stato essere al tempo stesso azionista di riferimento, regolatore e controllore del settore e magari anche impegnato nei servizi che corrono su quella rete? E’ una domanda che forse vale la pena porsi, così come se valga la pena estromettere dal controllo societario chi oggi possiede le maggiori capacità per la realizzazione della rete al fine di soddisfare gli appetiti della politica, per altro senza alcuna garanzia che in futuro non vi siano surrettizie interferenze straniere nel caso in cui la maggioranza della società di controllo della rete unica fosse pubblica.