Ci muoviamo su un suolo edificato con opere, fatiche, sacrifici di altri. Sono le nostre radici, e non ha motivo, né futuro, reciderle. Ma è ciò che sta facendo la propaganda antinazionalista.
Ciascuno di noi contiene moltitudini. Dentro di noi, anche se non ce ne accorgiamo, restano le tracce di tutti coloro che ci hanno preceduto: le loro imprese, le loro sofferenze, le fatiche con cui hanno edificato la terra su cui appoggiamo i piedi. Questo significa avere una patria: essere figli di un passato, inserirsi in una catena che collega l’antichità all’avvenire.
«Il futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto, dargli persino la nostra vita» scriveva Simone Weil in un capolavoro intitolato La prima radice. E aggiungeva: «Per dare, bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi. Fra tutte le esigenze dell’anima umana nessuna è più vitale di quella del passato».
Eppure, ormai da tempo, gli europei e gli occidentali fanno di tutto per distruggere il passato. Vogliono recidere le radici, cancellare il proprio retaggio attraverso il furente impeto iconoclasta chiamato cancel culture. Si abbattono le statue, si riscrive la Storia dopo averla fatta passare nel setaccio del politicamente corretto. E, soprattutto, si tenta di devastare l’idea stessa di nazione.
Senza timore di esagerare, possiamo dire che nulla più del nazionalismo irrita e spaventa i progressisti del mondo. Lo testimonia alla perfezione un libro appena uscito per Rizzoli e intitolato Nazionalismo. Lezioni per il XXI secolo. Si tratta di una antologia di scritti dello storico britannico Eric Hobsbawm, divenuto celebre per il saggio intitolato Il secolo breve. Di formazione marxista, Hobsbawm ha sempre nutrito una sorta di repulsione nei riguardi del nazionalismo. Non stupisce: la tradizione politica cui apparteneva ha fatto dell’internazionalismo una bandiera, ha preferito ricercare l’unità del popolo in nome della classe invece che della patria.
Curiosamente, l’eredità dell’internazionalismo socialista è stata raccolta dal neoliberismo, che mira a eliminare i confini, polverizzare le nazioni e isolare i singoli individui per renderli più malleabili e facilmente controllabili. Ovviamente, questo processo di disgregazione si ammanta di alti ideali. Si dice che bisogna combattere il nazionalismo e l’idea stessa di nazione per eliminare gli «egoismi» e i suprematismi. Il nazionalista è identificato come razzista, intollerante, sciovinista.
Bisogna ammetterlo: decenni di propaganda antinazionalista hanno prodotto parecchi effetti. I politici che sostengono l’importanza di proteggere i confini o di preservare la tradizione di una nazione vengono astiosamente criminalizzati. Eppure, nonostante tutto, le nazioni ancora non sono morte, i vincoli che legano gli europei alle loro patrie non sono del tutto spezzati, le comunità resistono.
Lo dimostra l’exploit che, negli ultimi anni, hanno avuto i movimenti cosiddetti «sovranisti», le cui proposte vengono molto bene analizzate in due bei libri freschi di stampa: Sovranismo. La grande sfida del nostro tempo (Altaforte) di Valerio Benedetti e Sovranismo sociale (Armando) di Aldo Di Lello.
Il sovranismo, del resto, non è altro che un interessante tentativo di rivitalizzare il nazionalismo, il cui fuoco continuare ad ardere nel petto dei popoli. Del fatto che questa fiamma sia ancora accesa si sono accorti persino a sinistra, infatti da qualche tempo i progressisti cercano disperatamente di ridefinire il nazionalismo in modo da renderlo più presentabile e spendibile politicamente a proprio vantaggio.
Lo stesso Hobsbawm è quasi costretto a scrivere: «Resto dell’insolita opinione di avversare, diffidare, disapprovare e temere il nazionalismo ovunque esso esista […] ma allo stesso tempo di riconoscerne l’enorme forza, che deve essere imbrigliata per il progresso, se possibile. E a volte è possibile. Non possiamo permettere che la destra abbia il monopolio della bandiera».
Lo storico inglese non è certo l’unico a tentare recuperi di questo tipo. Maurizio Viroli, per esempio, da anni propone una distinzione tra nazionalismo e patriottismo. Il primo sarebbe una sorta di suprematismo fondato su basi etniche, e dunque condannabile; il secondo sarebbe invece l’apprezzabile sentimento di unità provato da una comunità che si riconosca nelle istituzioni repubblicane.
È un bel tentativo, lo riconosciamo. Ma è perdente, perché sottende una concezione quasi burocratica o comunque artificiosa della patria, che di fatto viene identificata con le istituzioni, e dunque con lo Stato. Se vogliamo davvero capire perché, nonostante l’opposizione spietata che incontra da anni, il nazionalismo sia ancora così potente, dobbiamo capire bene di che si tratti. E per farlo dobbiamo riconoscerne il carattere sostanzialmente spirituale.
A questo scopo, è estremamente utile leggere un classico della filosofia che l’editore Meltemi ha ripubblicato da poco: Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, di Johann Gottfried Herder. Il pensatore germanico, spiega Francesca Marelli nell’introduzione, considerava la nazione «come comunità legata alle condizioni storico-culturali della sua nascita, come totalità culturale e non come entità politica legata alle istituzioni statali e a norme di diritto astrattamente fondate su basi giusnaturalistico-razionali».
Ed eccoci al punto. La nazione è qualcosa di più di uno Stato, ed è inscindibile dalla cultura e dalla tradizione. Scriveva lo storico Federico Chabod: «La nazione è, innanzitutto, anima, spirito, e soltanto assai in subordine materia corporea». La nazione è, in qualche modo, un sentimento. È amore e, soprattutto, gratitudine.
La gratitudine, secondo la Treccani, è un «sentimento e disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare». La gratitudine è quella che proviamo nei confronti dei padri e delle madri, di coloro che ci hanno preceduto, ci hanno fatti come siamo e ci hanno lasciato una eredità che non dobbiamo sprecare, conservandola.
L’amore, invece, è quello che dobbiamo rivolgere ai nostri compatrioti. Ha scritto Renato Cristin (ne I padroni del caos, Liberilibri): «Se non si riconosce che amare la propria patria più di ogni altra cosa significa anche amare il prossimo, cioè colui che ci è autenticamente vicino, come sé stessi, si nega un fondamento originario dei popoli, un elemento essenziale di pacificazione interna e di convivenza feconda con gli altri».
Sono la gratitudine e l’amore gratuito che rendono disponibili a donarsi interamente, talvolta persino a sacrificarsi per la patria. Sono questi sentimenti a rendere forte il legame con la propria terra e la propria comunità. Non l’egoismo, non il suprematismo. Non è sul calcolo e sull’interesse che si può fondare il nazionalismo, ma su qualcosa di incalcolabile, di non misurabile: la strana essenza che qualcuno ha chiamato anima dei popoli.