- La crisi che morde e il miraggio della rinascita di quella che era la «capitale morale».
- Con pochi turisti, rari studenti e flussi ridotti dipendolari, ha un solo modo per risollevarsi: riavviare la macchina dell’attrattività.
Dopo i mesi drammatici del lockdown, il capoluogo lombardo non riesce a ripartire. E chi la governa appare smarrito davanti alla tempesta economica che si preannuncia da settembre.
Mentre scollina in bici attorno a Zoagli, dove ha un’elegante villa affacciata sul golfo del Tigullio, Giuseppe Sala pensa che pure la vita è un saliscendi: un giorno in vetta e quello dopo ad arrancare in salita. Faceva il mestiere più riverito e politicamente redditizio d’Italia: il sindaco di Milano. La metropoli dei record: turismo, immobiliare, industria. Tutto, sotto la Madonnina, sberluccicava. Il futuro era radioso: le Olimpiadi invernali del 2026, gli ex scali ferroviari da riqualificare, il nuovo stadio a San Siro. Poi, è arrivato il virus. La spavalda capitale lombarda s’è trovata vuota e impaurita. E la prossima primavera si vota. Ma perfino Beppe, adesso, rimugina sul da farsi: meglio restare o, visti i nuvoloni, cambiar aria?
Fino a qualche mese fa, l’interessato rispondeva sprezzante: «La mia ricandidatura è un’ipotesi molto solida». Ma ora è calato il nebiun: il lockdown ha travolto terziario, moda, design. Intanto, i turisti sono scomparsi e lo smart working ha svuotato la città. Mentre il sindaco continua a brillare per voci dal sen fuggite. Dunque, nicchia. E, a chi insiste, replica con una risposta che è già un programma: «Se mi ricandido, lo faccio in discontinuità con me stesso».
Quindi? S’immagina «circondato da giovani», chino a lavorare su questioni di equità sociale». Insomma da icona del fortunatissimo «milanese imbruttito», casa a Brera e fatturato, ad alfiere degli ultimi, bilocale al Giambellino e cinghia da stringere.
Certo anche per il governatore lombardo, Attilio Fontana, non è affatto un buon momento: criticato per la gestione della pandemia, braccato dalla magistratura e in deciso calo di popolarità. Ma il leghista è un varesino allergico alla metropoli. Non era lui il volto del «miracolo a Milano». Beppe, invece, s’è cinto la testa di alloro grazie soprattutto ai progetti dei suoi predecessori. Come Letizia Moratti, di cui non a caso è stato city manager. Così, Sala ha incassato i dividendi politici e mediatici di un formidabile rilancio economico e urbanistico. A febbraio, però, è arrivato il virus. Ha colpito duro e senza riguardo.
Dopo mesi di apnea, solo adesso tornano d’attualità le sfide tra archistar, le imminenti riqualificazioni e il rimbalzo del mercato immobiliare. Ma sembra quello che gli inglesi chiamano wishful thinking: un pensiero speranzoso. O, peggio ancora, una pia illusione. Non è soltanto una questione estetica: la spettrale piazza Duomo e i grattacieli semivuoti. Lo insegnano i meneghini da generazioni: la forma è sostanza. I turisti, nella migliore delle ipotesi, passeranno da 11 a 6 milioni. Il primo weekend di saldi nel capoluogo, quello in cui abitualmente si vedevano interminabili file di cinesi e russi, ha fatto segnare meno 90% rispetto al 2019. Via Montenapoleone è quasi deserta. E i negozi del Quadrilatero lamentano «zero fatturato». Marco Barbieri, segretario generale della Confcommercio milanese, compendia: «Un disastro».
I pendolari giornalieri, intanto, sono crollati da un milione a 300.000. Grandi e medie aziende pensano di continuare lo smart working fino a Natale. E poi, magari, cogliere la palla al balzo: perché non prorogare a oltranza? Meno pendolari, meno turisti, meno danee. Tutto torna. Per cominciare, basta bighellonare tra le solitamente straripanti partenze di Linate. Lo scalo milanese si avvia alla normalità: 150 voli al giorno, contro i 230 nell’era pre-Covid. Ma questo agosto si chiuderà, comunque, con una perdita del 60% di viaggiatori. La ferale previsione impatta pure sulle casse del Comune, abituato ai faraonici dividendi di Sea, partecipata che gestisce l’hub cittadino e Malpensa. La società di gestione aeroportuale era una gallina dalle uova d’oro. Adesso perde 30 milioni al mese. Solo nel 2018 aveva elargito al suo principale azionista 50 milioni. Ora, tra dividendi ordinari e straordinari, a Palazzo Marino mancano 80 milioni.
Ma è franata anche l’architrave della già indispensabile, e ormai quasi accessoria, mobilità cittadina: il trasporto pubblico locale. Metro, bus, treni. La vendita dei biglietti è crollata. Altri 290 milioni che mancano. C’è pure il calo delle entrate fiscali. L’Imu non pagata, vista la crisi. La tassa per l’occupazione del suolo pubblico, falcidiata dalla crisi del commercio. E l’imposta di soggiorno, decimata dai turisti in meno. Sempre alla voce gabelle, mancano anche 20 milioni abitualmente incassati con le multe. Infine, sono evaporate le rette degli asili e di altri servizi pubblici.
Roberto Tasca, l’assessore al Bilancio del Comune, cammina su un tappeto di cocci di vetro: «Facciamo fronte con l’avanzo di bilancio, 130 milioni, e con altri 250 stanziati dal governo» spiega. «Però non bastano. Nello scenario migliore ne mancano 160. In quello peggiore, 200». Il futuro, dopo anni di vacche grasse, è gramo. Tanto che, un mese fa, Palazzo Marino ha cominciato a mettere sul mercato parte del patrimonio immobiliare. Settore, purtroppo, mai tanto ristagnante.
Così, Beppe tergiversa. O finge di farlo. Del resto, già qualche anno fa aveva trasformato l’attendismo in proficua strategia. Come quei pokeristi che rimangono impassibili con un full servito. A settembre 2015, alla vigilia della prima candidatura, Panorama lo incontra per un’intervista nell’area a nord di Milano diventata sede dell’esposizione universale. Mentre avanza sicuro alla guida di una macchinina elettrica lungo il decumano, Mr. Expo sa che lo attende un futuro ancor più luminoso.
Eppure, per quasi due ore, non smette di negare tentazioni e abboccamenti. Altro che sindaco. Gli sarebbe piaciuto guidare l’agenzia nazionale per il turismo, piuttosto. O tornare a fare il super manager, altroché. Ma intanto, a ogni diniego, aumentano le condizioni poste allora. E l’incommensurabile valore del suo assenso. Che, puntuale, arriva poco dopo: a dicembre 2015.
Anche adesso, il suo nicchiare sembra un po’ strategia. Ma pure schiacciante evidenza. Perché Milano non è più quella di prima. Né tornerà a esserlo rapidamente. E Beppe fatica a imporsi come l’uomo della rinascita. Era il capo dei milanesi ganassa. Gli stessi diventati d’un colpo untori, con una folata revanscista che s’è levata dal Sud. E Sala resta quello dei lustrini. A ciascuno, pirandellianamente, il suo.
A costo di memorabili topiche. Comincia rilanciando lo spot, a fine febbraio 2020, «Milano non si ferma», diventato preludio dell’ultravirus. Poi, al primo rischiarare sanitario, si lancia in un disperato attacco allo smart working: «A mio giudizio, oggi è il momento di tornare a lavorare». Ma a cuore, ovviamente, non ha il benessere psicofisico dei dipendenti lombardi. Piuttosto la ricca filiera milanese: affitti iperbolici di uffici, ristoranti pieni e vagoni traboccanti. Spese che ora restano nell’hinterland. Dalla Brianza ai paesoni a sud della metropoli, il commercio locale beneficia degli ex pendolari confinati a casa. Certo, decresce anche qui: ma del 30%, mentre in città la percentuale raddoppia. L’intemerata di Sala contro il «lavoro agile» è, dunque, pro domo sua. E lascia tutti perplessi: aziende, dipendenti, politica locale.
Poi se la prende con il governatore sardo. Christian Solinas vuole vietare l’ingresso nell’isola ai lombardi, sforniti di fantomatico certificato di negatività? Beppe assalta: «Parlo da cittadino prima che da primo cittadino. Io, quando deciderò dove andare per un weekend o una vacanza, me ne ricorderò». Minaccia di cui si scuserà, degna delle sortite del governatore campano, Vincenzo De Luca, la cui grottesca verve resta comunque insuperabile. E persino con le amiche femministe il sindaco ingaggia singolar tenzone. Quando versano vernice rossa sulla statua di Indro Montanelli, lui annota: «Penso che nelle nostre vite ci siano errori. Quello di Montanelli lo è stato. Ma Milano riconosce le sue qualità, che sono indiscutibili». Si trova, ahilui, gli striscioni sotto le finestre di Palazzo Marino: «Lo stupro non è un errore». L’ultima crociata, infine, è sulle gabbie salariali: «Qui la vita è troppo cara» certifica il sindaco. A Milano, ne consegue, sarebbe giusto guadagnare più che a Agrigento.
Il momento, però, richiederebbe accortezza. E la sequela di sortite è sembrata il maldestro tentativo di salvare la Repubblica dello spritz. Comunque sia, a settembre sarà tutto più chiaro. Beppe si ricandiderà? Chissà. Magari potrebbe seguire le orme del suo predecessore, Giuliano Pisapia: dopo aver strappato la città al centrodestra nel 2011, decide di non ripresentarsi. O forse potrebbe prepararsi per un ruolo nazionale, in vista di un possibile rimpasto di governo. L’ambizione, certo, abbonda. Ma è lo smalto adesso a mancare. Anche perché, nei dintorni di «Roma padrona», non sembra amatissimo.
Oppure, terza ipotesi, alla fine potrebbe lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Per sfidare un agguerrito centro destra. Già alle scorse amministrative, Stefano Parisi era arrivato a un’incollatura. E solo per le improvvide prese di distanza dall’alleato Matteo Salvini. Ora i leghisti meditano vendetta: «A differenza dell’ultima volta, in cui faticavamo a trovare qualcuno, ci sono personalità di primo piano pronte a candidarsi» rivela Alessandro Morelli, deputato e capogruppo della Lega in consiglio comunale a Milano. «Ma chiunque diventi sindaco, il giorno dopo l’elezione lo abbraccerò comunque. E gli dirò: “Lavoriamo insieme”. La situazione è drammatica. Comunque vada, non sarà facile rialzarsi».
Il nome del contendente arriverà entro fine estate. Salvini avrebbe già sondato con successo il rettore del Politecnico, Ferruccio Resta. Poi c’è l’assonante manager Mario Resca, corteggiato dai forzisti: ex presidente di McDonald’s Italia e ora presidente di Confimprese. Tra i papabili figura anche l’ex rettore dell’Università Statale, Gianluca Vago, e il presidente della Fondazione Fiera Milano, Enrico Pazzali. Ma le carte rimangono coperte. Perlomeno, fino a quando Sala non darà seguito alla sua, milanesissima, frase preferita: «Se te se moeuvet mai, spetta minga che te rusen». Insomma: «Se non ti muovi mai, non aspettarti una spinta». Intanto, continua a correre su e giù per le colline del Tigullio.
Perché è in panne il motore d’Italia

Lo sappiamo, dovremmo essere ottimisti. Dovremmo scrivere che la città tornerà presto a essere quella di prima, sfavillante, affollata, piena di stranieri e con i cantieri che tirano su palazzi e interi quartieri. Ma i fatti non aiutano, smorzano la fiducia nel futuro, dicono che Milano impiegherà anni prima di rimarginare le ferite lasciate dall’emergenza Covid-19. E forse non sarà più com’era nel 2019, quando nella città metropolitana lavoravano 1,49 milioni di persone, record storico, i pendolari erano un milione e mezzo e a Milano erano accorsi ben 11 milioni di turisti.
Certo, l’economia ripartirà e dopo una caduta del 7,7% previsto per quest’anno dall’ufficio studi di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza, il Pil milanese risalirà. Così come riapriranno molte attività commerciali oggi ancora chiuse: a giugno il 40% dei ristoranti, il 50% degli alberghi e il 70% delle agenzie di viaggio non avevano ripreso l’attività. Ma ci vorrà tempo.
Ci saranno problemi in autunno, con un’impennata della disoccupazione: Antonio Verona, direttore del dipartimento Mercato del lavoro della Cgil di Milano, stima prudentemente che 80-90.000 persone potrebbero trovarsi senza occupazione entro fine anno, mentre altri studi indicano cifre ben più alte. Secondo Confcommercio, la situazione generale a Milano è di grande sofferenza, in città si sono inceppati i quattro motori che fanno girare l’economia meneghina: in primo luogo i turisti, che nel 2019 erano 11 milioni e ora, dicono le stime, poco meno di 6 milioni nel 2020; poi mancano gli studenti universitari, i visitatori delle fiere e dei congressi, infine i lavoratori che sono in smart working.
Milano città conta un milione e 300 mila abitanti e dal lunedì al venerdì raddoppiavano per il pendolarismo di studenti e lavoratori. La mancanza di questi consumatori si riflette sulle attività economiche di consumo diretto e indiretto, bar, ristoranti, alberghi, parrucchieri, centri benessere, negozi di abbigliamento. «Bisogna tenere conto» spiegano alla Confcommercio «che il pranzo classico di un menù fisso di un lavoratore in un bar-ristorante incide circa per il 20% del fatturato».
Quante persone torneranno a frequentare la città restituendo vita alle attività commerciali? Quanti turisti avranno voglia di visitare la capitale della regione italiana più colpita dal coronavirus? E quanti uomini d’affari riempiranno gli stand delle fiere milanesi? I dubbi sono più che leciti.
Carlo Sangalli, presidente della Camera di commercio di Milano e di Confcommercio, offre la sua ricetta: «Va realizzato un piano di lunga durata per il rilancio dell’immagine di Milano e dell’Italia nel mondo, con la consapevolezza che il problema Covid-19 è globale. Solo rimettendo in moto la macchina dell’attrattività si può pensare di ritrovare la via della crescita. Raggiungere questo obiettivo sarà molto difficile e complesso e soprattutto non immediato. Ecco perché in questi mesi abbiamo insistito con forza col governo per costruire un percorso di sopravvivenza per le imprese più penalizzate attraverso i prestiti garantiti dallo Stato e gli indennizzi e i contributi a fondo perduto. Dopo tre decreti l’ossigeno ha cominciato ad arrivare, ma ancora oggi ci sono aziende che non hanno visto i sostegni promessi e non poche hanno anticipato la cassa integrazione. Aggiunge Sangalli: «Va assolutamente rafforzato questo percorso di sopravvivenza. La sfida per Milano è resistere fino al ritorno di una nuova normalità con i grandi eventi attrattivi e gli investitori internazionali che ne hanno fatto una delle grandi capitali a livello globale».
Infatti le fiere milanesi portano circa 4,5 milioni di visitatori l’anno grazie a manifestazioni come il Salone internazionale del Mobile, o il Mido, il più grande evento internazinale dedicato al settore dell’eyewear, o ancora l’Eicma, la principale esposizione di moto del mondo. Ogni anno si svolgono in Lombardia un’ottantina di fiere specializzate. E nel 2020 tutto ciò si è quasi volatilizzato a causa del coronavirus: quasi, perché in settembre sono state programmate Homi Fashion&Jewels, Homi Outdoor Home&Dehors e Sì Sposaitalia. Forse, piano piano, la macchina degli eventi e del turismo si rimetterà in moto e nel giro di qualche anno tornerà a girare normalmente. Così come gli studenti riprenderanno a frequentare le università milanesi a partire dal 2021, anche se a qualche genitore verrà la tentazione di puntare su città più piccole e a minor rischio di contagio.
Invece è probabile che Milano perda per sempre qualche decina di migliaia di pendolari, se non centinaia di migliaia. Colpa dello smart working. «La mia sensazione è che ci sarà un aumento del lavoro a distanza» dice Verona della Cgil. «Magari per un paio di giorni alla settimana, ma tanto basta per un effetto deprimente su bar e ristoranti». I sondaggi confermano questa sensazione. Una ricerca condotta dal Comune di Milano su 5.795 suoi dipendenti che hanno sperimentato il lavoro agile dal 9 marzo al 23 giugno mostra un alto livello di soddisfazione: per l’85% dei lavoratori è stata un’occasione per sperimentare un nuovo modo di approcciarsi al lavoro, per il 72,5% l’esperienza ha favorito l’acquisizione di nuove competenze, il 66,8% ritiene che la propria produttività sia rimasta uguale al lavoro svolto in presenza e il 30% di questi dichiara che è addirittura aumentata.
Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ha dichiarato che il lavoro a distanza «porta i risultati migliori quando genera motivazione, collaborazione. Nelle aziende da noi osservate si arriva a incrementi di produttività anche del 15-20%». Si stima che a Milano i lavoratori «agili» siano attualmente circa 269.000. Alcuni di questi vorranno tornare in ufficio, soprattutto i lavoratori più giovani e in carriera. Ma a quanti impiegati che abitano magari a Paullo o a Saronno non farà piacere continuare a lavorare nelle proprie case immerse nel verde, invece di infilarsi nelle lunghe colonne della Paullese o nei treni perennemente in ritardo? Quanti si faranno due conti in tasca scoprendo i risparmi che si possono ottenere in benzina, biglietti ferroviari e pasti fuori casa? E le aziende quanti soldi guadagnerebbero riducendo gli spazi occupati e facendo lavorare i dipendenti a casa? Si stima che ogni scrivania in una sede nel centro di Milano vale dai 300 ai 500 euro di costi mensili.
Uno scenario che fa rabbrividire il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il quale non a caso ha lanciato un allarme forte e chiaro: «Se tutti stanno a casa c’è tutto un mondo intorno, ristoranti, bar tassisti, che rischia di non lavorare». Timori giustificati: lo smart working rischia di diventare un fenomeno di massa. Prendiamo il caso Unicredit, che con le sue torri in piazza Gae Aulenti simboleggia la Milano dinamica e vincente: attualmente nei grattacieli lavora a rotazione solo il 25% dei 3.700 impiegati e manager della sede, il resto svolge la sua attività da casa. E poiché l’esperimento sta funzionando, non tutti torneranno in ufficio. In una mail riservata inviata ai dipendenti, il vertice della banca scrive: «A settembre inizieremo ad aumentare il numero di persone presenti nei nostri edifici più grandi. Non andremo oltre il 50% dei livelli di capienza standard dei nostri edifici più grandi almeno fino alla fine del 2020. Questo vuol dire che gran parte del nostro lavoro continuerà a essere svolto da remoto, e questa modalità continuerà a essere una componente fondamentale della maniera in cui svolgeremo le nostre attività andando avanti nel tempo».
Ma se altre grandi banche, assicurazioni e imprese imiteranno Unicredit e lo smart working diventerà «una componente fondamentale della maniera in cui svolgeremo le nostre attività», che fine faranno i grandi progetti immobiliari che dovrebbero ridisegnare Milano e che svolgono un ruolo fondamentale per il settore delle costruzioni e per l’attrattività internazionale della città? Mario Breglia di Scenari Immobiliari ricorda che «nei prossimi cinque anni dovrebbero arrivare 5 miliardi di investimenti solo sulle grandi aree di trasformazione, con almeno 1,2 milioni di metri quadrati di nuovi uffici da realizzare».
Eppure Luca Dondi, amministratore delegato di Nomisma non è molto ottimista: «Penso che nei prossimi due anni la domanda di uffici si ridurrà, i canoni diminuiranno e ci saranno più spazi vuoti, soprattutto per l’offerta di minore qualità». Un’altra incognita per il futuro della capitale economica d’Italia.
Guido Fontanelli