Mondo e Ue sono profondamente cambiati. Il futuro governo di destra è a un bivio. Ma è con Germania e Francia, non con il gruppo di Visegrad, che l’Italia deve commisurare il proprio ruolo. Paese tra i più vicini all’emisfero anglo-americano, la più sviluppata e ricca democrazia del Mediterraneo, pronta a trattare con Parigi e Berlino.
L’Europa di oggi non è quella di cinque anni fa, e questo vale per tutte le forze politiche. La pandemia, il next Generation Eu, l’inflazione, il restringimento monetario, la guerra hanno sepolto i vecchi canoni. L’europeismo non coltiva più sogni costituzionali e federali, mentre l’anti-europeismo non cerca più la rottura del sistema. La realtà, velocissima e tumultuosa, ha superato la dottrina, sovranismo incluso. Nessuno parla più di uscita dall’euro, nessuno pensa di ritornare alla nazione in modo integrale, e ogni ideologia deve ibridarsi con una economia interconnessa e da istituzioni comuni oramai radicate. Si preferisce dunque, come gradino successivo, una offerta politica organizzata intorno al concetto di conservatorismo, nel caso di Fratelli d’Italia, per indicare un approccio incentrato sulla difesa dell’interesse della nazione e della tradizione. Per la nuova destra di governo post-sovranista si pone dunque la necessità di interpretare questo conservatorismo. Qui si aprono due strade, una già battuta e una nuova. Quella già tracciata prefigura una destra che guarda alle esperienze dell’Est Europa, in particolare l’Ungheria di Orban e la Polonia del PiS. Ciò prevede un atteggiamento più resistente nei confronti dell’integrazione politica ed economica europea e un messaggio molto incentrato sul conservatorismo etico e sociale. Sebbene le legittime scelte politiche di questi due paesi meritino di essere difese quando attaccate dai progressisti, chiudersi in questa strada genera il rischio di isolarsi verso il resto d’Europa, anche perché né Polonia né Ungheria fanno parte dell’eurozona. L’altra via è quella Atlantica, già scelta da Giorgia Meloni sull’Ucraina, ma prevede anche un confronto con i principali Paesi europei. È con questi, non con il gruppo di Visegrad, che l’Italia deve commisurare il proprio ruolo. Paese tra i più vicini all’emisfero anglo-americano, la più sviluppata e ricca democrazia del Mediterraneo, pronta a trattare con Parigi e Berlino.
Vanno evitati complessi di inferiorità che conducano all’isolamento dai grandi paesi o, al contrario, di coltivare la malsana idea che la democrazia italiana abbia qualcosa in meno di Francia e Germania. Questo contesto va adattato anche alla luce della crisi energetica. Si dovrà cercare di trovare una soluzione comune a Bruxelles, strumenti che riescano a frenare la crescita della bollette e a rendere meglio organizzato il probabile razionamento. Se ciò non avvenisse per la volontà politica di alcuni Paesi, Germania e Olanda, allora si dovrà andare avanti da soli, con tutti i limiti che questo implica. Un piano autonomo nazionale contro la crisi energetica andrà presentato ai mercati, con l’affiancamento della Bce. La Meloni dovrà essere più Thatcher che Orban: concentrare tutte le risorse per salvare il sistema industriale, mettere in fila le priorità, tagliare alcune parti del bilancio pubblico e ampliarne altri. Non si potrà permettere che il divario tra garantiti del settore pubblico (Pa e pensionati) e autonomi del privato cresca ancora, come è stato in parte durante la pandemia. Ciò implica sussidi per il caro energia, ma anche una redistribuzione dei pesi del sistema fiscale e la riduzione della spesa pubblica in alcuni comparti. Si può fare, evitando al tempo stesso una esplosione del deficit che avvìi scommesse finanziarie contro l’Italia. Ci saranno poi delle opere pubbliche previste dal Pnrr che non si potranno realizzare a causa dell’inflazione, perché dunque non rinegoziare l’impiego di quei fondi contro il caro bollette per le aziende? Questi sono i punti su cui l’Italia dovrà far valere il proprio interesse nazionale, senza cadere nella rincorsa di mete impossibili. A questo percorso si collega anche il ruolo politico di Giorgia Meloni a livello europeo. La futura presidente del Consiglio può scegliere se federare le forze di destra nazionalista, correndo il rischio dello scontro nella competizione con i partiti europeisti, oppure agire da pontiere, da cuscinetto, tra la costellazione dei nuovi nazionalismi e il partito popolare europeo. In altre parole, scegliere tra il conflitto con l’attuale ordine istituzionale e la rimodulazione graduale del centrodestra europeo. Nel primo caso Meloni agirebbe soltanto da capo politico, nel secondo riuscirebbe a sommare anche la funzione di capo di governo. Da queste scelte, e dalla capacità di raccordare istituzioni e politica, dipenderà il futuro politico della destra e dell’Italia.
