Alla vigilia del giorno del Ricordo dell’esodo italiano, reportage dalla foresta di Kocevie, dove a fine 2019 è stata portata alla luce la foiba di Macesnovo. Nella fossa comune ci sarebbero i resti di 5.000 prigionieri sloveni, sterminati dalla polizia segreta di Tito perché schierati con Hitler. Alcuni storici stimano che, a guerra finita, furono ammazzati in tutto 250.000 jugoslavi, per lo più combattenti ma anche civili. Ossia quei vinti che avevano scelto la parte sbagliata della storia.
Il dirupo a picco, di roccia viva, fa impressione se immaginiamo le lunghe file di prigionieri spogliati di tutto con le mani legate con il filo dei telefoni da campo. I più «fortunati» ricevevano una pallottola in testa sull’orlo della foiba per trascinare gli altri, ma la gran parte delle vittime della mattanza veniva spinta nel vuoto a colpi di bastone armato di roncole o coltelli per rendere più dolorosa la tortura. Il loro destino a guerra finita, da maggio a luglio del 1945, era segnato: trucidati e sepolti per sempre in una gigantesca fossa comune per mano dei partigiani del maresciallo Josip Broz Tito.
Nella Slovenia sud orientale, sotto cumuli di detriti, la foiba di Macesnovo Gorico nasconde ancora i resti di migliaia di prigionieri di guerra «domobranzi», che avevano combattuto al fianco dell’Asse contro i partigiani comunisti. In massa, assieme agli ustascia croati si erano arresi alle truppe inglesi in Austria, ma furono rispediti nelle mani dei carnefici. Il tributo di sangue dei vinti è spaventoso: 13.500 sloveni e 1.500 civili della minoranza tedesca furono trucidati, ma sono 250.000 le vittime della mattanza dimenticata di Tito in tutta la Jugoslavia. In gran parte croati e cetnici, i partigiani monarchici che si opponevano al comunismo. Alla vigilia del giorno del Ricordo del 10 febbraio, che celebra le migliaia di vittime italiane delle foibe, Panorama ha percorso il calvario delle fosse comuni di Tito, un tabù per mezzo secolo in nome della Realpolitik.
Domobranzi, ustascia e cetnici si erano macchiati di crimini durante il conflitto, ma alla fine si arresero. «Le nostre forze anticomuniste non erano angeli, ma tutti hanno diritto a una tomba e alla memoria. Non puoi trucidare l’80 per cento dei prigionieri di guerra senza uno straccio di processo degno di questo nome solo perchè li consideri oppositori del tuo regime. È troppo» dice Joze Dezman, presidente della Commissione governativa slovena che ha alzato il velo sugli eccidi del 1945. Fino a oggi nella piccola Repubblica sono state individuate 750 fosse comuni, che potrebbero nascondere i resti di 100.000 corpi.
Il clima cupo e il freddo pungente rendono ancora più tragico l’anfiteatro dell’ultima foiba scoperta di Macesnovo Gorico. Davanti al dirupo, i bulldozer hanno rimosso 900 metri cubi di detriti. Le fosse comuni erano sigillate con l’esplosivo nella speranza di non farle scoprire mai. «Abbiamo trovato le prime ossa e gli specialisti della polizia che si sono calati dentro hanno visto gli scheletri, ma bisognerà aspettare la bella stagione per le riesumazioni. Siamo sicuri che si tratta della più grande fossa comune della Slovenia» rivela Dezman. Lo storico viene da una famiglia di partigiani titini e uno zio, generale dell’Esercito popolare jugoslavo, è stato proclamato «eroe nazionale».
Nella foiba, delimitata dalla rete di plastica arancione dei lavori in corso, potrebbero essere stati scaraventati 5.000 prigionieri di guerra. Tutti sloveni che facevano parte degli 11.000 consegnati dagli inglesi a Tito nel maggio del 1945 su ordine del quartiere generale alleato a Caserta. Vicino alla foiba sono stati scoperti, anni fa, 50 chilogrammi di oggetti personali: catenine, croci, borracce, scarpe delle vittime che dovevano spogliarsi di tutto prima dell’esecuzione. Qualcuno è sopravvissuto cadendo sui corpi dei compagni e riuscendo a fuggire.
Uno dei superstiti era il padre di Janez Jansa, due volte premier sloveno per il centro-destra. «Le testimonianze ci hanno permesso di ricostruire la dinamica dell’eccidio individuando con precisione dove sono i corpi» afferma Dezman, che ci accompagna al pozzo dei feriti, un altro luogo dell’orrore. Nel fitto bosco, dove filtra a malapena il nevischio, una grande croce nera svetta a pochi metri da un budello di roccia che s’infila nella terra.
«Il 24 giugno 1945 arrivò l’ordine da Belgrado di Edvard Kardelj (braccio destro di Tito per i massacri, ndr) di accellerare la “pulizia” perchè mancava poco all’amnistia» fa notare il presidente della Commissione governativa sulle fosse comuni dimenticate. «Gli eccidi erano iniziati nelle città utilizzando fossati anti tank per seppellire le vittime come a Maribor, ma i sovietici consigliarono i titini di far sparire i prigionieri in zone più appartate». La foresta di Kocevie era perfetta: 88 prigionieri di guerra feriti o invalidi, quasi tutti sloveni, furono trasportati con i camion dall’ospedale di Lubiana nel bosco a guerra finita. E scaraventati nell’abisso Pri kofunu 1, nonostante fossero ulteriormente «protetti» perché feriti.
La Slovenia è costellata di simili luoghi dell’orrore, tabù fino all’indipendenza degli anni Novanta. Huda Jama è soprannominata la caverna del diavolo, tomba di 1.416 vittime dove furono trovate lunghe trecce di capelli neri femminili. Testimoni delle stragi in diverse aree del Paese parlano di «colonne di ragazzine nude dirette verso la morte», oppure di avere «sentito gli spari delle fucilazioni per una settimana!». Tra i responsabili c’era il numero due della polizia segreta Ozna in Slovenia, Mitja Ribicic, decorato nel 1969 dal Quirinale con l’alta onorificenza di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana. Nel 2005 a Lubiana venne aperta un’inchiesta a suo carico per crimini di guerra, ma non si sono trovate prove sufficienti. Dopo la morte di Ribicic è emerso che era lui «a decidere quali prigionieri dovevano morire».
Nella foresta di Kocevie si trova un lugubre monumento cilindrico sul luogo della strage di 3.000 serbi e 2.000 montenegrini, in gran parte partigiani filo monarchici e anti comunisti, che in alcune fasi combatterono anche contro i nazisti. «I prigionieri venivano portati in treno da Lubiana e poi con i camion fino a questo viottolo dove li costringevano a levarsi scarpe e vestiti. L’ultima tappa prima dell’eccidio» racconta lo storico sloveno davanti all’abisso di Kremon, ora disseminato di croci.
Gli sloveni hanno in mano un lista di 1.500 persone deportate da Trieste e Gorizia durante l’occupazione del IX Corpus di Tito e sparite nel nulla. Nella regione di confine sono state individuate un’ottantina di foibe o fosse comuni dove potrebbero esserci anche i resti di italiani. Però Dezman denuncia il menefreghismo di Stato: «Un vostro ambasciatore a Lubiana mi ha confessato che questa storia interessa solo alle associazioni degli esuli, soprattutto a Trieste. Non certo a Roma».
Il sangue dei vinti ora riemerge grazie alla Commissione governativa sulle fosse comuni nascoste. «Numericamente solo in Slovenia sono state consumate una decina di stragi come a Srebrenica (dove nel 1995 i serbi bosniaci trucidarono 8.000 prigionieri musulmani, ndr)» spiega Dezman. «Molti membri della Commissione vengono dalla parte dei vincitori, ma la coscienza e il nostro dovere ci impongono di raccontare la verità, svelando il crimine più efferato commesso dopo la fine della Seconda guerra mondiale».
L’opinione: Tito e l’arma del terrore

Nella primavera del ’45, a guerra finita, migliaia di Italiani vengono trucidati (nelle foibe carsiche, nelle acque di Dalmazia, nei lager di reclusione). Nello stesso periodo vengono assassinati anche decine di migliaia di sloveni e centinaia di migliaia di croati. Per buona parte delle vittime slovene e croate manca ancora la possibilità di collocare un croce sui luoghi dell’eccidio. Il Sacrario di Basovizza, già simbolo di tutte le vittime italiane, ben potrebbe diventare luogo di memoria anche delle altre vittime, ancora senza croce. Non si tratta di venire a chiedere scusa, ma di trovarsi insieme a ricordare, a onorare tutte le vittime di questa stessa tragedia.
Italiani, sloveni, croati, tutti vengono assassinati, in quella primavera di sangue, a opera degli uomini di Josip Broz Tito, i partigiani comunisti jugoslavi. Spesso gli assassini operavano con in mano le liste nere approntate dall’OZNA. Sempre con una logica ben precisa: togliere di mezzo i cosiddetti «nemici del popolo», categoria molto ampia, che includeva sia ex nemici (fascisti, domobranci, ustascia), sia persone comunque scomode in vista del futuro assetto politico (componenti del Cln, ma anche professionisti e borghesi), sia soprattutto tante, tantissime persone che niente avevano da rimproverarsi, ma la cui scomparsa era fondamentale perchè nessuno potesse sentirsi tranquillo e al sicuro dal «terrore» titoista. E tra queste come dimenticare le innumerevoli donne, che hanno anch’esse pagato con la vita la sola colpa di essere mogli, madri, figlie di cosiddetti «nemici del popolo».
Queste stragi rispondevano a una logica ben precisa: Tito stava costruendo, con lo strumento della guerra rivoluzionaria, il suo nuovo Stato, la Jugoslavia comunista. E la «Rivoluzione» passa necessariamente attraverso il tragico percorso del «terrore». Così era stato per la rivoluzione sovietica realizzata da Lenin e da Stalin, così sarebbe stato più avanti per la rivoluzione cinese di Mao Tse Tung (sarà lui a dichiarare che «la rivoluzione non è un pranzo di gala»). Così è stato per la rivoluzione titoista. Il terrore, distribuito adeguatamente agli inizi del nuovo Stato comunista, sarà poi idoneo a dare frutti, per decenni. Tito, nel ’47, dichiara al suo fido Milovan Gijlas che quella fase può ritenersi conclusa. Poi, però, dopo il ’48, a causa della rottura con Stalin, riprenderà lo strumento terrore, questa volta nei confronti dei cominformisti rimasti fedeli a Mosca. Manca la contabilità di quella tragica vicenda, ma basta ricordare il nome di Goli Otok, l’isola carcere simbolo di crudeltà. Il «terrore» poi ricomparirà ancora negli anni Settanta, questa volta vittime saranno i professori e gli studenti dell’Università di Zagabria, finiti a centinaia nelle galere titoiste.
Paolo Sardos Albertini
Presidente della Lega nazionale (associazione italiana nata nell’Ottocento con gli ideali irredentisti)