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Mario Draghi: killer di partiti

Mario Draghi: killer di partiti

C’è un killer silenzioso nella politica italiana Il presidente del Consiglio ha letteralmente spianato i principali partiti a sostegno della maggioranza del suo governo. Il Pd ha incassato su patrimoniale, Ius soli e Ddl Zan. I 5 stelle si sono schiantati contro la riforma della giustizia e pure Salvini ha dovuto incassare il Green pass.


C’è un killer silenzioso nella politica italiana che si chiama Mario Draghi. In questi pochi mesi al governo il presidente del Consiglio ha letteralmente spianato i leader dei tre principali partiti (Pd, 5 Stelle, Lega) a sostegno della maggioranza del suo governo. Quello forse più in difficoltà è il segretario del Pd Enrico Letta. Dopo che la proposta di patrimoniale da conferire in dote ai diciottenni è stata bocciata da Draghi, Letta è stata costretto a riparare nel porto sicuro, ma scarico di elettori, del politicamente corretto e dei diritti civili. Peccato però che anche su questo fronte Letta abbia inciampato: Renzi e Salvini hanno fatto blocco sul Ddl Zan la cui approvazione è slittata all’autunno e che senza modifiche sembra diretto su un binario morto. Le frecce all’arco di Letta sembrano poche, quelle del Pd come partito ancora meno. Certo forse i democratici possono avere discreti risultati elettorali nelle grandi città che voteranno ad Ottobre, ma oggi l’effetto Draghi ha spezzato l’alleanza con i 5 Stelle ed il feeling con Giuseppe Conte.

Al di là dell’intransigenza sanitaria arrancano le proposte in tutti gli altri settori delle riforme e persino il tanto sbandierato paradigma green sembra declinare. Bollette in rialzo, posti di lavoro persi, problemi di competitività delle aziende italiane hanno frenato la trasformazione ambientalista del PD. Così come l’avvento di Draghi ha costretto il partito ad una inversione atlantista obtorto collo dopo aver passato gli ultimi due anni a guardare verso la Cina prendendosi per mano con il Movimento 5 Stelle in questa fallimentare missione. La seconda vittima di Draghi è proprio il suo predecessore Giuseppe Conte, leader dimezzato del Movimento 5 Stelle. Dopo la faida interna con Grillo e Di Maio, oggi risolta con una pace precaria ed opaca sul piano delle leve di comando del partito, Conte è stato costretto a bere l’amaro calice della riforma Cartabia, che reintroduce la decorrenza della prescrizione per velocizzare i processi. Nonostante i proclami nel volersi far sentire con Draghi, l’ex premier ha mietuto ben poco fino ad oggi e per tutta risposta il governo si è dichiarato pronto a mettere la fiducia sulla riforma della giustizia spingendo Conte in un angolo. Senza considerare i danni politici all’immagine di Conte derivanti dall’azzeramento dei vertici amministrativi nella gestione dell’emergenza Covid voluta da Draghi per segnare la discontinuità con il precedente esecutivo. L’avvocato del popolo ha perso i suoi uomini nella macchina dello Stato e visto decollare la campagna vaccinale con il nuovo esecutivo. Inoltre nella sua gestione partitica è costretto a fare i conti con un Di Maio sempre più governista e filo-Draghi e un Beppe Grillo che lo ha pubblicamente sfiduciato. Le prossime elezioni politiche, sempre che ci arrivi in sella, rischiano di essere per Conte la prime e ultime come leader. Il terzo gran sfregiato dal metodo Draghi è Matteo Salvini, colpito pubblicamente per la sua posizione rilassata rispetto all’introduzione del green pass. Salvini è più saldo di Letta e Conte nella conduzione del proprio partito, ma da quasi due anni è costretto a gestire una Lega in declino elettorale. Ciò sia per le scelte del passato che probabilmente per il cambiamento di paradigma portato prima dalla pandemia, poi dalle mosse economiche di Bruxelles ed infine dall’arrivo dello stesso Draghi. In due anni Salvini è passato dall’essere un forte leader anti-sistema ad un più debole leader dentro il sistema. Questa situazione, non sempre e non del tutto imputabile alla Lega e al suo segretario, oggi presenta il conto sul piano elettorale. La concorrenza parallela di Giorgia Meloni non fa bene alla Lega costretta a mostrarsi di lotta e di governo, un’operazione che è sempre stata molto difficile per qualsiasi capo politico.

Sulle misure anti-pandemia Salvini incassa la sconfitta seppure può vantare qualche successo sul fisco, sulla giustizia ed in generale su una filosofia di governo più vicina al pragmatismo leghista che al mondo parallelo delle Ztl democratiche. Ad ogni modo anche per Salvini sarà difficile immaginare un futuro molto lungo dopo il 2023. La Lega potrebbe far parte o di un altro governo di coalizione o più auspicabilmente di un governo di centrodestra, ma allo stato attuale Salvini rischia di arrivare dietro alla Meloni e di restare vittima di eventuali contrattazioni per decidere chi andrà a Palazzo Chigi. Quanto può sopravvivere un leader polarizzante come Salvini in uno scenario così fluido ed incerto? È una domanda che nei prossimi due anni tutta la destra deve porsi.

Tornando a Mario Draghi, il suo stile di governare non fa prigionieri né sconti. Destra, sinistra o populismo anti-politico il presidente del Consiglio ascolta, decide, esegue. Incurante delle reazioni e degli isterismi politici dei partiti. Di Draghi sappiamo che massimo durerà a Palazzo Chigi fino al 2023, ma potrebbe forse salire prima al Quirinale. Dei tre leader considerati, invece, sappiamo che il loro percorso è in salita e che le prossime elezioni potrebbero essere per Letta, Conte e Salvini le ultime nel ruolo di capo partito. Resta aperta una domanda, inquietante se si considera la devastazione e la debolezza della politica italiana: cosa c’è dopo Draghi? Chi prenderà le redini del Paese dopo questo rassicurante ma precario auto-commissariamento della politica? Ad oggi è un salto nel vuoto.

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