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Chi pagherà il conto di Draghi

Chi pagherà il conto di Draghi

Arrivano i primi miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma ci sono già rallentamenti nelle procedure, con gli enti locali spesso in affanno per la «messa a terra» dei progetti. E se l’Italia non si mette a crescere in modo stabile, saranno guai per i prossimi governi.


Hai abbandonato l’Italia ai tempi del governo di Mario Monti e ti sei ritirato su un’isola deserta. In questi giorni torni finalmente a casa e il tuo Paese non lo riconosci più. E non è solo perché la gente va in giro con la mascherina. Ma perché di austerità, spending review, tasse sui ricchi, spread non ne senti più parlare. Invece c’è il Reddito di cittadinanza, ti danno i soldi per ogni figlio che hai, in pensione puoi andare a 64 anni, ti riducono l’Irpef. Se ristrutturi la casa non solo hai uno sconto fiscale, ma i lavori te li paga lo Stato: e di dà pure il 10% in più. Ascolti il presidente del Consiglio dire che è il momento di dare e non di prendere.

Un Bengodi. E i dieci anni passati a tirare la cinghia? Spariti, dimenticati. È vero, c’è il Covid con il suo tragico bilancio di oltre 134.000 morti. Nel 2020 il prodotto interno lordo è crollato dell’8,9% e ha provocato la chiusura di tante aziende. La disoccupazione è salita. Lo Stato si è svenato per cercare di aiutare imprese a famiglie. Ma adesso arriva una pioggia di soldi dall’Europa: oltre 230 miliardi tra Pnrr, React Eu e Fondo complementare, da spendere per fare finalmente quelle cose utili e sane che da tempo ci chiedono le istituzioni finanziarie internazionali. E soprattutto per mettere l’Italia su un binario di crescita strutturale. È questa la scommessa di Mario Draghi.

Ma non è detto che abbia successo: sulla realizzazione del Pnrr si allungano già molte ombre, tra personale che manca, incapacità degli enti locali a spendere, inefficienze della pubblica amministrazione e Regioni, a partire dai record negativi della Sicilia sui bandi respinti dal governo centrale per mancanza dei requisiti. Forse riusciremo a realizzare il grande Piano nei tempi previsti, ma con il rischio di farlo male.

Per ora Draghi può dirsi fortunato. L’emergenza Covid appare gestibile, l’economia cresce di oltre il 6%, la cintura del Patto di stabilità è stata provvisoriamente sciolta e il famigerato rapporto defict-Pil può piazzarsi quest’anno sopra il 9% senza che nessuno alzi il ditino del rimprovero. Lo Stato emette titoli a un tasso di interesse di appena lo 0,1%, contro il 3,6% di 10 anni fa. E più di un terzo del nostro gigantesco debito pubblico è in mano alla Bce e alla Banca d’Italia. Alla fin fine il compito principale del presidente del Consiglio è di far lavorare sodo ministeri e pubblica amministrazione per spendere i soldi che arrivano dell’Europa. E tutti a dirgli quanto è bravo. Monti probabilmente ribolle d’invidia.

Ma quanto tempo durerà questa primavera italiana? Che eredità lascerà Supermario al prossimo governo? «L’agenda Draghi» ricorda l’economista del Ref Ricerche Fedele de Novellis «si basa su un presupposto: grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza avviamo una serie di investimenti che riformano il Paese e consentiranno alla crescita economica di mantenersi stabilmente oltre l’1%. Questo a lungo termine aggiusterà la finanza pubblica senza bisogno di altra austerità. Un debito pubblico anche superiore al 130% non sarà un problema, l’importante è che abbia imboccato una traiettoria discendente in modo tale da rassicurare i mercati».

La speranza dunque è che con il Pnrr riusciremo a trasformarci da gambero in lepre. Quindi è fondamentale che i soldi provenienti dall’Europa siano spesi e spesi bene. Ma visti i risultati che abbiamo conseguito in passato con i fondi strutturali, c’è di che essere preoccupati. Come rileva l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, tra il 2014 e il 2020 per l’Italia erano stati stanziati 44,6 miliardi da cinque Fondi strutturali e d’investimento europei: a metà 2020 ne erano stati effettivamente spesi solo il 39%.

Con il Pnrr bisognerà fare molto meglio e Draghi si sforza affinché la macchina funzioni bene. Nei giorni scorsi ha affidato al sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli il monitoraggio settimanale, non più mensile, dei passi in avanti rispetto ai «target». E i ministeri lavorano a tutta forza. Complessivamente il Piano si articola in 213 traguardi, verificati in base a risultati qualitativi, come l’approvazione di singole leggi, e 314 obiettivi, anch’essi verificati in base a risultati quantitativi, come l’assunzione di un certo numero di personale.

Da qui fino al 2026, ogni sei mesi l’Ue valuterà gli impegni mantenuti dall’Italia per approvare l’erogazione dei fondi, che avverrà in 10 rate. La prima, 24 miliardi, è già stata erogata e verso febbraio dovrebbe arrivarne un’altra da 21 miliardi. Poi ci sono da portare a termine le riforme, come quella della giustizia o della concorrenza.

Ce la faremo? Annalisa Giachi è la coordinatrice dell’Osservatorio sul Recovery Plan (Orep) promosso dal Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università di Roma Tor Vergata e da Promo Pa Fondazione. Tra i suoi compiti c’è anche quello di monitorare lo stato di avanzamento del Pnrr. «Per quanto riguarda gli obiettivi del 2021 penso che riusciremo a raggiungerli entro fine anno. Si tratta di mettere a punto una serie di misure che creino il contesto intorno a cui realizzare in concreto tutti i provvedimenti nel corso dei prossimi sei anni».

Il problema sarà, come si dice in gergo, «portare a terra gli investimenti» dal 2022 in poi. Ci saranno aree critiche. Per esempio sulle energie rinnovabili, sulla gestione dei rifiuti, sulle grandi infrastrutture sarà cruciale il ruolo del ministero della Cultura che dovrà esprimere le valutazioni sull’impatto ambientale e paesaggistico attraverso la Soprintendenza unica per il Pnrr, organismo appena nato e ancora vuoto. Del resto, il ministero è a corto di personale qualificato (l’organico è meno della metà di quello previsto) e i bandi per le assunzioni di 6.000 persone non sono ancora partiti.

Fare poi le infrastrutture al Sud, cui sono destinati ben 40 miliardi, sarà tutt’altro che semplice. Soprattutto se i bandi saranno gestiti dalle Regioni. Un dato: la banca dati sugli investimenti regionali rivela che nel 2020 nel Mezzogiorno le opere incompiute per regione erano 40, mentre al Nord erano solo otto. La Regione Sicilia si è vista rispedire indietro dal ministero dell’Agricoltura 31 progetti sui 31 presentati, per mancato rispetto dei requisiti del bando. Questa incapacità di gestire i fondi potrà rallentare se non affossare parte del Pnrr. Un problema che riguarda anche i Comuni.

Degli oltre 230 miliardi di fondi europei a disposizione dell’Italia, 80-85 dovranno essere gestiti dagli enti locali e, in particolare, una cinquantina di miliardi dai Comuni. «Dati i tempi che ci ha dato l’Europa e il depauperamento delle amministrazioni locali, vedo il rischio che molte gare vengano fatte in fretta e furia» sostiene l’economista Gustavo Piga, che partecipa al citato progetto Orep. «Il problema dell’Italia è la scarsa qualità della sua amministrazione pubblica». Gli impiegati degli enti locali hanno in media 50,7 anni e solo quattro su 10 possiedono una laurea. Mancano architetti, ingegneri, geologi, statistici, pianificatori del territorio.

Alessandro Canelli, sindaco di Novara e responsabile Finanza locale dell’Anci, l’associazione dei Comuni, riconosce che gli enti locali «arrivano da dieci anni di forte contrazione del personale a disposizione, a causa del blocco del turnover. Il personale si è ridotto del 20-25% e l’età media è aumentata. Inoltre la capacità di spesa dei Comuni è frenata a causa della stratificazione di norme che ralllentano il processo decisionale». Per un Comune affrontare il Pnrr significa gestire i bandi, la progettazione e il monitoraggio dei singoli progetti rispettando le regole speciali previste dal Piano. Sono necessarie professionalià spesso assenti nell’amministrazione. «E se voglio utilizzare i mille esperti messi a disposizione dai ministeri per i vari progetti» avverte Canelli «il meccanismo è complicato e farraginoso». Per evitare ritardi, l’Anci ha chiesto al governo di avere, entro il prossimo mese di giugno, un elenco con i fondi a disposizione di ogni singolo Comune in modo da poter assegnare entro il 2023 tutti i lavori. «Io sono moderatamente ottimista» dice il sindaco di Novara «ma c’è molto da fare per snellire le procedure».

Invece Piga è caustico: «Sa che cosa penso? Che entro sei anni l’Italia raggiungerà tutti gli obiettivi previsti dal Piano, facendo magari le cose in fretta e non benissimo. La verità però è che alla Commissione europea non interesserà affatto se i soldi saranno spesi bene o male, l’importante sarà rispettare l’articolo 10». A che cosa si riferisce Piga? Se ne parla poco, ma i Paesi «frugali» dell’Europa, guidati dall’Olanda di Mark Rutte, hanno ottenuto un risultato fondamentale nel regolamento che istituisce il dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza: all’articolo 10 si chiarisce che i pagamenti possono essere sospesi se il Paese «non ha adottato misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo».

In altre parole: cara Italia, non solo devi portare a termine il programma del Pnrr, ma devi pure rispettare il Patto di stabilità che dovrebbe tornare in funzione dal 2023, seppur riformato. Il fatidico rapporto deficit-Pil del 3% riappare all’orizzonte. E se la crescita dell’economia non sarà sufficiente, i prossimi governo torneranno daccapo a tagliare le spese per tenere a bada deficit e debito.
Bruxelles è già in allerta sull’andamento della nostra spesa pubblica. Commentando il 24 novembre scorso il documento programmatico di bilancio 2022 presentato dal ministro dell’Economia Daniele Franco, la Commissione lo ha criticato così: «L’Italia non prevede di limitare sufficientemente la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale. Al fine di contribuire al perseguimento di una politica di bilancio prudente, la Commissione invita l’Italia ad adottare le misure necessarie nell’ambito del processo di bilancio nazionale per limitare la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale».

Le maggiori preoccupazioni riguardano la previdenza che, secondo un recente rapporto del think tank Welfare Italia, costituisce il 58% della spesa sociale, 12 punti in più rispetto alla media europea. Dopo la trasformazione di Quota 100 in Quota 102, il governo dovrà avviare nel 2022 una vera riforma delle pensioni e parallelamente riprendere in mano il tema della spending review per evitare che la spesa corrente sfugga di mano. In teoria il problema della spesa pubblica appare marginale se l’economia italiana crescerà del 4,3% nel 2022, del 2,3 nel ’23, nell’1,9 nel ’24 per poi mantenersi stabilmente sopra l’1%. Ma davvero un Paese che per un decennio è rimasto molto indietro rispetto al resto d’Europa potrà esibire questi tassi di sviluppo? Se va bene, nel 2023 l’economia italiana sarebbe ancora di circa l’1% sotto ai livelli del 2007, mentre nel frattempo l’eurozona sarà cresciuta del 14,5%. Un gambero contro una lepre.

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