Settore agroalimentare, turismo di qualità, comparto moda. Economicamente provate dal Covid, alla vigilia di un Natale senza festa, le eccellenze nazionali che fatturano decine di miliardi di euro corrono seri pericoli. Gli interventi tardivi del governo non scongiurano chiusure e acquisizioni straniere.
Il cavallo non beve e lo stalliere rischia di fare la fame o svendere la stalla. È questa la fotografia dell’economia italiana: consumi ridotti e fatturati a picco come conseguenza del coronavirus. Con l’incubo dello shopping di Natale bloccato e un ultimo trimestre da incubo per il Pil. L’elemento di maggiore preoccupazione è che si riduca la base produttiva, che le aziende chiudano definitivamente e ci sia un assalto di capitali esteri al made in Italy che, dall’agroalimentare alla meccanica passando per la moda e il turismo, è la dotazione patrimoniale più appetibile.
Una stima dei commercialisti italiani fissa in 460 mila le imprese che «moriranno», al di sotto dei 10 milioni di fatturato. Gran parte del made in Italy sta proprio in quella dimensione economica: vale soprattutto per l’agroalimentare, per il turismo, per i terzisti del comparto moda, per alcuni artigiani del lusso. Che l’allarme sia forte e chiaro lo dimostra Cassa depositi e prestiti (Cdp). Nel settore alberghiero è stato varato un fondo dotato di due miliardi – già azionista di Th Resorts e Rocco Forte Hotels – che si prepara ad acquistare hotel a 4 e 5 stelle per evitare lo scippo da parte dei giganti del «real estate» e di russi e cinesi che già stanno battendo porta a porta l’Italia per rilevare strutture a prezzi stracciati.
La perdita di fatturato nel turismo è drammatica: 100 miliardi svaniti, 60 milioni di turisti mancati. Il ministro Dario Franceschini ha cercato di fermare il vento con le mani: il bonus vacanze rimasto inevaso per due terzi dello stanziamento (2,4 miliardi). Per evitare di raccogliere le macerie di un settore che vale il 13 per cento del Pil si cerca di correre ai ripari con questo fondo messo in piedi da Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cdp, che ha ricevuto anche un contributo di appena 150 milioni dal ministero.
È poca cosa eppure è una misura che si renderà necessaria, se continua così, anche per l’agroalimentare, l’altro pilastro, il più consistente in termini di volumi, di addetti e di imprese, del made in Italy. Dice Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia: «Credo che si dovrà pensare a come ricapitalizzare le aziende perché le conseguenze della caduta di domanda sono drammatiche».
Una stima fatta da Confcommercio quantifica in un meno 8 per cento il calo dei consumi fino a ottobre; e se non ci sarà una ripresa a Natale, il rischio diventa la chiusura per alberghi (meno 60 per cento) e ristoranti (meno 38 per cento). Sempre secondo Scordamaglia: «La botta sul comparto con le nuove chiusure non sarà inferiore ai 10 miliardi. I vini di fascia alta, i formaggi e i salumi di maggior pregio sono in gravissima sofferenza per le chiusure dei ristoranti».
Ma a fronte di questo colpo fatale al motore del made in Italia (l’agroalimentare nel suo complesso vale il 20 per cento del Pil e oltre 60 miliardi di fatturato estero) le misure messe in campo sono poche. La ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova si è limitata strappare un contributo da 100 milioni per i ristoranti che usano materia prima nazionale, e sta cercando di fare pressione per avere anticipazioni sulla Pac, la Politica agricola comune europea, ma non ci sono sostegni concreti all’agroalimentare.
Federico Vecchioni, a.d. di Bonifiche Ferraresi, il colosso agricolo nazionale con 9.500 ettari, raccomanda: «L’agricoltura riprenda il suo protagonismo economico; dobbiamo fare accordi di filiera per ammortizzare il colpo di queste chiusure che è davvero forte, ma dobbiamo difendere il valore Italia consapevoli che oggi è il prodotto italiano quello che i consumatori vogliono: chiedono garanzie di igienicità e qualità».
Anche con un sostegno all’export. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli dovrebbe presentare un piano di rilancio dell’Ice – l’Istituto nazionale per il commercio estero – di cui però non si è vista traccia. L’horeca (il settore hotel, ristoranti e catering) sul mercato interno rappresenta il 40 per cento del fatturato agroalimentare e l’Ismea stima che il 2020 si chiuderà con una contrazione dei consumi alimentari fuori casa pari a 41 miliardi, solo in parte compensata dai consumi domestici e online in aumento per 11,5 miliardi.
A soffrire percentualmente di più è il vino di qualità. Sandro Boscaini, presidente di Federvini, è preoccupato: «Con i ristoranti chiusi, i grandi vini non si vendono e c’è la concreta prospettiva di un’atrofia del mercato, senza considerare i problemi finanziari e il fatto che le cantine sono piene. Il problema non si pone tanto per i grandi rossi dal lungo affinamento, ma per spumanti e bianchi di qualità».
Grandi gruppi – soprattutto francesi – sono pronti a comprarsi in saldo le nostre migliori aziende. La perdita è di circa il 60 per cento di fatturato per le bottiglie sopra i dieci euro. La stima è che il vino perderà a dicembre 1,2 miliardi di fatturato, un decimo di quanto incassa in un anno. Per le feste del 2019 si sono stappati 74 milioni di bottiglie di spumante, la previsione per i prossimi brindisi è un dimezzamento di questa cifra.
Non va meglio nelle vie dello shopping. Via della Spiga e via Montenapoleone a Milano, via Tornabuoni a Firenze o Galleria Cavour a Bologna, via dei Condotti a Roma: tutte deserte. Vi è stato un immediato contraccolpo sull’immobiliare, ma preoccupa la tenuta del sistema moda. Lucia Borgonzoni, senatrice della Lega, ha lanciato un appello: «Facciamo qualcosa o la moda italiana finirà in mano straniera». Secondo dati della Camera della moda, il settore perderà 29 miliardi – complessivamente ne vale 100 – un’azienda su tre potrebbe essere insolvente.
Borgonzoni chiede interventi per non meno di 700 milioni per salvare soprattutto le piccole aziende dei «terzisti», che sono la spina dorsale del sistema già nel mirino dei cinesi, come avvenuto a Prato per l’abbigliamento e nel distretto marchigiano della calzatura.
Che la moda abbia bisogno di ripensarsi dopo l’approccio decisamente consumistico degli ultimi anni, lo testimonia il re del «made in Italia»: Giorgio Armani. A 86 anni il designer – che ha fatto cospicue donazioni per affrontare la pandemia – ha la saggezza di affermare: «La moda deve rallentare, deve ridare valore all’autenticità, il lusso non può e non deve essere veloce, perché ha bisogno di tempo per essere raggiunto e apprezzato. C’è decisamente troppa offerta rispetto all’effettivo bisogno».
Altrimenti, siccome il cavallo non beve, c’è chi dovrà svendere la stalla.