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Europa: quei silenzi sulle lobby

Europa: quei silenzi sulle lobby

Con l’arrivo delle imponenti risorse del Recovery Fund, s’intensifica la pressione da parte dei cosiddetti «portatori di interessi». Ma rispetto a riunioni e incontri con loro, al Parlamento Ue c’è scarsa trasparenza. E ancora più opaca è la situazione per Camera e Senato in Italia…


L’ultima a iscriversi è stata una multinazionale austriaca, la Amiblu, «specialista nelle soluzioni in vetroresina per acqua potabile e irrigazione», come si legge sulla sua pagina dedicata. È la nuova arrivata, ma di certo si trova in buona e numerosa compagnia: a oggi sono 13.217 le organizzazioni iscritte nel registro dell’Unione europea per svolgere attività di lobbying.

Si tratta di quelle associazioni, think-tank, pensatoi, società multinazionali che perseguono legittimi interessi – spesso in rappresentanza di gruppi di potere – per orientare la politica comunitaria e, ancora di più, quella della Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen. Proprio l’organismo di Bruxelles ha il compito di gestire il corposo documento.

È un lavoro, quello delle lobby, sempre più intenso negli ultimi mesi considerando la mole di finanziamenti che, passando dall’Ue, si riverserà sui vari Paesi membri con il Recovery Fund (esattamente 750 miliardi di euro di cui oltre 200 all’Italia). I settori economici coinvolti sono i più disparati: dallo sport al fisco, dalle politiche ambientali alla sicurezza alimentare. Ogni realtà, che spazia dalle aziende alle Organizzazioni non governative, ha il proprio interesse da coltivare e provare a proteggere dalle iniziative europee.

L’interminabile lista dà la plastica rappresentazione di come Bruxelles sia di fatto diventata la capitale del lobbismo: solo nell’ultimo anno si sono iscritte ex novo 1.724 aziende e società all’apposito registro. Tanto basta per capire gli interessi economici che ruotano intorno a questa attività: secondo l’osservatorio indipendente Corporate Europe, si parla di circa 1,5 miliardi di euro annui. Una somma che, tuttavia, non deve stupire.

La sola Google, per dire, conta sette persone accreditate per entrare al Parlamento europeo, e ha aperto una sede proprio a Bruxelles. Quindi stima di spendere, solo nell’ambito Ue, circa 5 milioni per «attività coperte dal registro» (dunque per attività di lobbying). E così la Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche (11 persone accreditate e una spesa superiore ai 4 milioni), la Shell (4,5 milioni) o la British American Tobacco (2,2 milioni).

Sono d’altronde, 311 le aziende che, sempre dal registro Ue, risultano investire nel lobbismo una quantità di risorse pari ad almeno un milione di euro annuo. Nella lista non mancano le società che hanno avuto il placet proprio dall’Ue, attraverso l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, alla produzione e commercializzazione dei vaccini per il Covid-19, da Pfizer a Moderna fino ad Astrazeneca. Altrettanto «presidiato» risulta il campo energetico. Sempre Corporate Europe, in occasione della recente Cop26 di Glasgow sui cambiamenti climatici, ha rilevato come ad almeno 503 lobbisti, nel circuito delle combustibili fossili «affiliati ad alcuni dei maggiori colossi del petrolio e del gas», fosse stato concesso l’ingresso alla convention. Quasi un paradosso.

Ma c’è di più. Il settore in cui si investe maggiormente in attività di lobbying è il digitale, che riceverà fiumi di denaro dal Recovery Fund: 612 le aziende, i gruppi e le associazioni di imprese che, stando al dossier di Corporate Europe, «esercitano pressioni sulle politiche dell’economia digitale dell’Ue». Nel complesso spendono oltre 97 milioni di euro annui per il lavoro di lobbying.

In questo quadro l’Italia gioca la sua partita: sono 831 le organizzazioni iscritte con sede nella Penisola. Nella lista ci sono varie realtà. Su tutte spiccano le grandi società partecipate da risorse pubbliche come Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Eni ed Enel. E poi banche, sindacati, associazioni di categoria, singoli avvocati, fino ai soliti think-tank popolati da politici come l’Aspen Institute. Non c’è che dire: da una parte c’è un poderoso giro economico, dall’altra resta un importante esercizio di trasparenza assicurato dal registro Ue, che annota ogni dettaglio.

A inciampare proprio lungo il cammino della trasparenza, tuttavia, sono gli europarlamentari, i quali non comunicano gli eventuali incontri tenuti con società, lobbisti e rappresentanti. Secondo uno studio dell’organizzazione spagnola Civio, sono 359 su 705 gli eurodeputati che hanno dichiarato di aver partecipato ad almeno un incontro. I restanti 346 potrebbero effettivamente non aver preso parte ad alcuna riunione. O potrebbero non averlo dichiarato. Di sicuro non si trova alcuna informazione a riguardo. Osservando il fenomeno in base al Paese di origine degli eurodeputati, si scorgono profonde differenze. Se più del 90 per cento dei parlamentari svedesi, danesi e finlandesi lo ha reso nota, la quota scende a meno del 13 per cento per i rappresentanti di Grecia, Polonia, Bulgaria e Lettonia. Anche l’Italia non brilla: in 23 hanno riferito degli incontri, altri sono rimasti silenti.

Prendiamo il Movimento Cinque stelle: su nove europarlamentari, cinque non hanno annotato alcun incontro. Peggio va ancora per il Pd e per la Lega: il report dell’osservatorio spagnolo rivela, infatti, che nel caso dei dem solo in tre hanno comunicato la propria agenda contro i 13 che non l’hanno fatto. Per il Carroccio il rapporto è invece 6 a 22.

Non mancano nomi illustri: nel novero di coloro che sembra non abbiano avuto contatti con rappresentanti d’impresa figurano i dem Caterina Chinnici e Alessandra Moretti, il leader di Azione, Carlo Calenda, la leghista Anna Bonfrisco e il meloniano Raffaele Fitto. Andando sulle loro pagine dedicate, in effetti, non compare alcuna voce «riunioni», la sezione che campeggia sulle pagine di chi ha segnalato gli incontri tenuti.

Se in Europa, però, è possibile conoscere l’operato delle lobby che agiscono intorno al Parlamento europeo, in Italia è molto più difficile. Nel registro sui «portatori d’interessi» del ministero dello Sviluppo economico figurano 2.283 soggetti iscritti, ma l’agenda sembrerebbe non aggiornata considerando che l’ultimo incontro registrato del ministro Giancarlo Giorgetti risale al 31 agosto 2021 (con Alitalia). Ad avere un suo registro è anche la Camera dei deputati dove sono elencati i soggetti «che svolgono professionalmente attività di rappresentanza di interessi nei confronti dei deputati presso le sedi della Camera», si legge sul sito istituzionale. E ancora: «Il registro ha la finalità di rendere pubblica e trasparente l’attività delle organizzazioni che svolgono la rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera».

Peccato che di trasparente ci sia ben poco: al di là di un lungo elenco di nomi e società (270 in tutto) non risulta nulla che rimandi a eventuali incontri tenuti con i singoli deputati. Sempre meglio, però, rispetto ai «silenzi» tombali del Senato: a Palazzo Madama, nonostante i numerosi tentativi fatti sia nella scorsa legislatura sia nell’attuale, non ci sono elenchi né provvedimenti su lobbisti e rappresentanti d’interesse. E a quanto pare neanche la volontà di introdurli. In un periodo, come quello del Recovery Fund, dove l’attenzione invece dovrebbe essere massima. n

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