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Lo strano endorsement di Conte: Biden o Trump? Non cambia nulla

Lo strano endorsement di Conte: Biden o Trump? Non cambia nulla

Il premier si lascia andare a dichiarazioni pericolose e che a Washington non faranno piacere

“Sono convinto che non ne deriveremmo nessuna conseguenza negativa nel caso vinca Trump o Biden alle elezioni presidenziali americane, nonostante il buon rapporto tra me e il presidente Trump”. Con queste parole si è espresso ieri il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in riferimento alle prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Parole che, a ben guardare, non possono che lasciare un po’ perplessi. Che infatti non possa cambiare nulla per l’Italia in caso di vittoria di Trump o Biden risulta una tesi piuttosto azzardata. I due candidati americani portano avanti delle linee ben differenti a partire da un dossier che per Roma è non poco delicato: quello dei rapporti con la Cina.

Se andiamo infatti oltre la mera retorica da campagna elettorale, scopriremo che i due avversari su Pechino propugnano visioni pressoché antitetiche. Per quanto oggi si dica un fiero avversario della Cina, Biden ha una storia politica pregressa che suggerisce tutt’altro: non solo un anno fa disse che la Repubblica Popolare non costituisse un pericolo commerciale per Washinton, ma – da senatore del Delaware – appoggiò attivamente l’ingresso del dragone nell’Organizzazione Mondiale del Commercio: un ingresso che era stato principalmente sostenuto dall’allora amministrazione di Bill Clinton. E proprio a Clinton bisogna tornare per capire quale sarà prevedibilmente l’approccio alla Cina di un’eventuale presidenza Biden. Secondo l’allora presidente democratico era necessario mostrare severità verso Pechino in materia di diritti umani, non rinunciando tuttavia a una politica commerciale morbida nei suoi confronti: una politica che – nelle intenzioni di Clinton – avrebbe condotto la Repubblica Popolare verso riforme interne in senso liberale. Ciononostante l’ascesa di Xi Jinping e dossier come quello di Hong Kong mostrano come quella strategia abbia miserevolmente fallito. Eppure i democratici americani sembrano intenzionati a rispolverare la linea clintoniana, visto che – nei fatti – hanno lasciato solo Trump nei fronti di scontro decisivi con Pechino: non solo hanno criticato aspramente il suo abbandono dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, non solo non lo hanno mai realmente spalleggiato in materia tariffaria, ma – nelle scorse ore – la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha affermato che – in vista delle prossime presidenziali – la Russia costituisca addirittura un pericolo maggiore della Cina. Un commento (vagamente azzardato), seguìto a quanto riferito – venerdì scorso – dal controspionaggio americano, secondo cui Pechino starebbe (guarda caso) puntando su una sconfitta di Trump a novembre.

Va quindi da sé che un’eventuale vittoria dell’ex vicepresidente porterebbe magari la Casa Bianca a fare la voce grossa sui diritti umani ma – sul piano concreto – ben difficilmente quel tipo di retorica darebbe adito ad azioni energiche contro la Cina (soprattutto sul fronte commerciale). Uno scenario che si rivelerebbe estremamente gradito al governo Conte bis. Non è del resto un mistero che – salvo qualche rara eccezione – il nostro attuale esecutivo nutra una fortissima simpatia nei confronti della Cina: una simpatia che ha suscitato – negli scorsi mesi – non poca irritazione da parte del Dipartimento di Stato americano. E’ quindi chiaro che l’attuale maggioranza di governo speri in una vittoria di Biden a novembre: non soltanto il Pd (per i suoi storici legami con l’universo clintoniano), ma lo stesso Movimento 5 Stelle (che rappresenta l’ala maggiormente filocinese nell’esecutivo). Di contro, una vittoria di Trump metterebbe Palazzo Chigi in una posizione scomoda, costringendo Conte a continuare a barcamenarsi tra istanze contrapposte. Che dunque per l’Italia non cambierà nulla in caso di vittoria dell’uno o dell’altro non è vero, perché dalle sorti delle prossime presidenziali americane dipenderà probabilmente il destino della nostra politica estera.

In secondo luogo, si scorge anche un’incognita che riguarda più direttamente il futuro dell’attuale esecutivo italiano. Non dimentichiamo che l’anno scorso il ministro della Giustizia americano, William Barr, abbia nominato il procuratore, John Durham, per condurre una controinchiesta sul caso Russiagate. In particolare, l’intento è cercare di dimostrare la teoria di Trump, secondo cui l’inchiesta russa che lo vide coinvolto altro non fosse, se non una polpetta avvelenata, confezionata dai suoi avversari politici con l’aiuto delle comunità di intelligence di alcuni Paesi occidentali: Paesi tra cui figurerebbe anche l’Italia. D’altronde, sono due i punti di contatto tra l’Italia e il Russiagate. In primo luogo, abbiamo il misterioso professor Joseph Mifsud, che – attualmente introvabile – si incontrò a Roma con l’allora consigliere di Trump, George Papadopoulos, nel 2016. In secondo luogo, lo scorso maggio è stata desecretata una lista di alti esponenti dell’amministrazione Obama che – nel corso della transizione presidenziale – chiesero di svelare il nome del generale Mike Flynn (altro consigliere di Trump) nelle intercettazioni in cui era rimasto coinvolto. Ebbene, tra i nomi presenti nell’elenco figura anche quello dell’allora ambasciatore americano in Italia, John Phillips. D’altronde, che Washington stia esaminando attentamente il nostro Paese è testimoniato anche dal viaggio, effettuato un anno fa, dello stesso Barr a Roma.

Ora, va da sé che se Durham fosse realmente riuscito a reperire evidenze di un coinvolgimento italiano nel caso Russiagate, per il governo Conte potrebbero esserci delle ripercussioni non indifferenti. Non dimentichiamo che, all’epoca dei fatti, in Italia fosse al potere il Pd con Matteo Renzi. E non dimentichiamo neppure che Mifsud – su cui pare che Durham abbia concentrato in particolare la propria attenzione – intrattenesse stretti legami con la Link Campus University: istituzione non poco vicina al Movimento 5 Stelle. Ragion per cui – se l’indagine di Durham reperisse prove effettive di un coinvolgimento italiano – potrebbero configurarsi problemi e imbarazzi per Pd, Movimento 5 Stelle e Itala Viva: gran parte, cioè, dell’attuale compagine di governo italiana. Anche per questo le prossime elezioni americane saranno dirimenti. Dovesse essere riconfermato, Trump avrebbe infatti tutto l’interesse a cavalcare politicamente l’inchiesta di Durham. Un interesse che, di contro, non avrebbe un’eventuale amministrazione Biden, che – anche in caso di prove solide – lascerebbe probabilmente cadere nel dimenticatoio la faccenda. Ecco un’altra ragione per cui – alla fin fine – i giallorossi non possono che sperare in una disfatta di Trump a novembre.

Infine, non va neppure trascurato come le parole pronunciate ieri da Conte rischino di avere esse stesse delle spiacevoli ripercussioni politiche. Lascia infatti perplessi che un premier che ha sempre rivendicato di avere un ottimo rapporto con Trump, alla prova dei fatti, dica che è indifferente se vinca il suo sfidante. Probabilmente Conte avrà pensato che l’attuale presidente americano sia in difficoltà e che abbia poche chances di essere riconfermato: ragion per cui sarebbe meglio lasciarsi le mani libere e puntare sul candidato vincente. D’altronde, per uno che è passato con disinvoltura nel giro di pochi giorni da Salvini a Zingaretti non deve essere troppo traumatico passare da Trump a Biden.

Eppure la situazione risulta ben più complessa. Nelle ultime due settimane, svariati sondaggi (Rasmussen, Emerson, The Hill) hanno infatti mostrato che il vantaggio del candidato democratico si è drasticamente ridotto a 3 o 4 punti percentuali. Non è inoltre chiaro quanto un fissato della fedeltà politica come Trump potrà apprezzare le recenti considerazioni di Conte: considerazioni che, nei fatti, espongono il nostro premier all’accusa di opportunismo. Un elemento che, in caso di rielezione dell’attuale presidente, porrebbe probabilmente Palazzo Chigi in cattiva luce dalle parti della Casa Bianca. Una Casa Bianca che potrebbe invece guardare con maggiore interesse ad alcuni settori dell’opposizione, vista la netta linea anticinese che negli scorsi mesi hanno assunto Lega e Fratelli d’Italia su dossier come Hong Kong e il 5G. Tutto questo, soprattutto alla luce del fatto che, pochi giorni fa, la maggioranza giallorossa ha bocciato una mozione del Carroccio, che chiedeva al governo di aprire un contenzioso con la Cina presso la Corte di giustizia internazionale per la questione pandemica. E proprio il primo firmatario della mozione, il vicepresidente della commissione Esteri alla Camera Paolo Formentini, ha dichiarato a Panorama: “Noi crediamo nell’America come bastione di libertà. Speriamo non trovino ulteriori conferme le conclusioni del controspionaggio americano, secondo cui la Cina spererebbe in una vittoria di Biden. Il confronto più rischioso a cui l’Occidente sta andando incontro è infatti quello con Pechino”.

Insomma, Trump e Biden non sono esattamente la stessa cosa per l’Italia. Conte evidentemente lo sa, ma punta a una declinazione americana del suo ben rodato trasformismo. Del resto, si sa, il premier è una volpe. Ma, come ricordava Craxi, “prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria”.

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