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Case di comunità, i non luoghi della salute

Case di comunità, i non luoghi della salute

Due miliardi di euro del Pnrr sono destinati a finanziare nuove strutture che, 24 ore su 24, dovrebbero dare cure e sostegno ad anziani e malati cronici. Ma servono migliaia di medici e infermieri (che non ci sono). Ed è solo uno dei tanti limiti di una falsa soluzione.


Non sono piccoli ospedali e nemmeno grandi studi di medicina generale, non sono poliambulatori specialistici né punti di primo soccorso, ma nemmeno guardie mediche allargate. Potrebbero essere, però, l’ennesimo grande flop della sanità italiana.Parliamo delle Case di comunità, nome vagamente ottimistico che significa 2 miliardi di euro del Pnrr destinati all’istituzione di 1.350 «contenitori»: strutture che dovrebbero rimanere aperte 24 ore al giorno, riformare le cure primarie e garantire migliore assistenza soprattutto agli anziani e ai malati cronici. Per funzionare avranno bisogno di migliaia di medici di medicina generale, infermieri, fisioterapisti, professionalità che già adesso mancano all’appello anche solo per la gestione ordinaria della medicina territoriale.

Nelle intenzioni dell’ex ministro Roberto Speranza, che ha deciso l’istituzione di queste Case di comunità definite «il più grande lascito politico» della sua gestione, dovrebbero essere la panacea di tutti i mali: dal sovraffollamento del Pronto soccorso alla mala gestione dei malati cronici abbandonati a sé stessi causa depauperamento della medicina generale, dalla scarsa copertura specialistica del territorio al disagio di anziani, disabili e fragili. La realtà è che, invece, questa ennesima (falsa) soluzione è riuscita nel difficile compito di scontentare tutte le parti in causa. «Si calcola che per istituire e portare avanti una sola Casa di comunità» spiega Domenico Crisarà, Vice segretario sazionale Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) «occorrano 30 persone, soltanto tra medici di famiglia e pediatri. In un momento come quello attuale, con un’ondata di pensionamenti in arrivo, costruire “cattedrali nel deserto” senza avere il personale per riempirle è antistorico. Si pensi piuttosto a formare i nuovi medici di famiglia e a dotare gli studi di apparecchiature moderne e portatili come ecografi ed elettrocardiografi, in modo che possano garantire esami di primo livello realizzando una vera prossimità territoriale».

Anche la distribuzione sul territorio riserva spiacevoli sorprese: nell’atto di nascita delle Case di comunità, il Decreto ministeriale 77 entrato in vigore in Gazzetta Ufficiale il 7 luglio scorso, è specificato che le strutture debbano essere una ogni 50 mila abitanti. Ma in questo modo si penalizzano tutti i piccoli centri, aree interne, montane o disagiate che dovranno «accorparsi» per realizzare una singola Casa: per raggiungerla una gran fetta della popolazione (per la gran parte anziana) dovrà sobbarcarsi in macchina 50 chilometri o anche più. «Se l’intento della Casa di comunità» continua Crisarà «è realizzare un luogo fisico di prossimità e facile individuazione dove la comunità può accedere per entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria, è evidente che si stia andando nella direzione sbagliata. Queste strutture ci sono già e sono i 60 mila ambulatori dei medici di famiglia. Inoltre non dobbiamo dimenticarci che il Pnrr finanzia solo i muri delle Case di comunità, e non il Servizio sanitario nazionale. Come verranno pagati stipendi, software, dotazioni, tutto il resto?».

Non solo: uno degli intenti del ministero (allora) guidato da Speranza era alleggerire – fornendo alla popolazione nuovi mini hub sanitari per problematiche minori – il carico dei Pronto soccorso ospedalieri, ma anche in questo caso si è fatto un errore di valutazione: i problemi dei Ps italiani non stanno lì, e per capirlo sarebbe bastato parlare con chi vi lavora. «La questione degli accessi inappropriati» spiega Fabio De Iaco, presidente di Simeu, Società italiana medicina di emergenza e urgenza, «ossia dei tanti codici “bianchi” e “verdi” che si rivolgono a noi perché non trovano risposte sul territorio, non è la causa di tutti i mali del Pronto soccorso e nemmeno la principale. Queste persone, infatti, arrivano da noi, fanno il triage e vengono curate con i tempi che la loro non-acuzie richiede. Poi tornano a casa. Il problema che ingessa questo reparto d’urgenza è il “boarding”: il fatto che non si riesca a trovare posto, nei reparti di degenza ordinari, ai malati così gravi da non poter essere dimessi. Questi ultimi rimangono in Pronto soccorso per giorni, con i disagi del caso. Come potrebbero ovviare, le Case di comunità, a tutto questo? Destinare fondi al potenziamento degli ospedali sarebbe stata, invece, una strategia vincente».

Idee condivise anche dai primari dei reparti in questione che non nascondono il disappunto: «Si vogliono far passare le Case di comunità come l’uovo di Colombo» sostiene Massimo Geraci, primario del Ps del Civico di Palermo, uno dei più grandi del Meridione. «La soluzione perfetta – alla quale nessuno aveva mai pensato – per gli atavici problemi delle nostre strutture. Temo non serviranno neanche a risolvere il problema del territorio». Critiche bipartisan anche dalla politica. Se il nuovo sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, dichiarava già da responsabile Sanità di Fratelli d’Italia che la soluzione per superare il problema dell’assistenza a macchia di leopardo era di «investire in professionisti della sanità – e non in muri – attrezzando di strumentazioni il medico di famiglia e il farmacista, che garantiscono l’assistenza di base davvero prossima», anche il presidente della Commissione Sanità della Regione Lazio, Rodolfo Lena del Pd mostra forte perplessità. «Senza personale sarà difficile far funzionare le Case di comunità e la nuova organizzazione della medicina territoriale» ha detto. «C’è il rischio che questa riforma non riesca a camminare».

Infine, non mancano difficoltà sulla gestione del personale: ammesso che si trovi un accordo con i medici di famiglia, per cui ogni professionista garantisca due ore settimanali in questi centri, come si realizzerà la continuità assistenziale e la condivisione dei dati? «Non si farà» riflette Luca Foresti, ceo del centro medico Santagostino, importante gruppo sanitario privato a Milano, «perché organizzare il lavoro di così tanti medici con una presenza di ciascuno solo per un paio d’ore a settimana in queste strutture è impossibile: non si riuscirà a metterli in rete né a coordinarli, tutto si ridurrà a una sorta di guardia medica, un ibrido che non si sa bene a cosa dovrebbe servire». Se non a spendere i soldi del Pnrr. E, forse, senza che la popolazione ne abbia davvero beneficio.

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