Uno studio Unipol sul futuro del welfare propone investimenti per accrescere il potenziale di sviluppo e la produttività del Paese. A partire dal mercato del lavoro.
Il giudizio emesso ieri dalla Commissione Europea sulle linee direttrici della prossima legge di bilancio evidenzia due problemi sistemici per il nostro Paese. Da un lato, il ritardo con cui la manovra è stata presentata ma soprattutto la grande incertezza che avvolge alcuni degli interventi previsti. Dall’altro, il tema della sostenibilità del debito.
Nello stesso giorno è stato presentato un interessante studio Unipol sul futuro del welfare in Italia. Questi due fatti, solo apparentemente slegati, permettono, invece, di sottolineare la fase di profonda incertezza che stiamo vivendo e anche una certa mancanza di visione che sta pervadendo sempre di più l’operato del Governo.
Occorre ricordare, infatti, che il Governo ha finora varato la legge di bilancio in due riunioni distinte a un mese dall’altro, con nel frattempo l’approvazione di due decreti di emergenza a sostegno delle imprese e delle famiglie. Questi documenti fanno fatica a parlarsi tra di loro e anche a completarsi. Manca, cioè, nella legge di bilancio una visione definita del futuro prossimo del Paese e tutto sembra dipendere dalle risorse che arriveranno dall’Europa.
Nel frattempo, però, un dato economico è assolutamente chiaro: l’aumento del debito. Un aumento veramente significativo che pone, nel medio-lungo periodo, il tema della sua sostenibilità. E, quindi, dei limiti che potrebbe avere nei prossimi anni la politica economica. Ciò è ancora più vero se, oltre ai dovuti e necessari interventi di «ristoro» verso le imprese e le famiglie colpite dalla pandemia (un «ristoro» che deve essere ben costruito perché si dovrà protrarre per un lungo periodo di tempo), il debito che si viene accumulando paga interventi di carattere assistenziale o bonus di breve periodo e non investimenti o riforme strutturali capaci di accrescere il potenziale di sviluppo e produttività dell’Italia.
Una ipotesi che sembra molto vicina alla realtà. Da qui le suggestioni che vengono sviluppate dal rapporto del Progetto Welfare di Unipol: investimenti sulla sanità e investimenti sulle politiche attive del lavoro. Azioni di medio periodo che devono essere disegnate ora affinché i loro effetti si dispieghino diffusamente nei prossimi anni. E si ritorna, dunque, su alcuni dei colli di bottiglia dell’economia italiana: uno di questi è la bassa quota di occupazione.
Ovviamente non siamo come eravamo agli inizi del secolo, alcuni importanti passi avanti sono stati fatti e il tasso di occupazione è cresciuto. Nondimeno, siamo ancora nella parte bassa della classifica europea, abbiamo significativi ritardi per i segmenti dei giovani e delle donne e non si è costruita una strategia di invecchiamento attivo per cercare di fare rimanere più a lungo al lavoro anche la popolazione più anziana.
Le scelte di questi ultimi anni sono state, poi, assai contraddittorie con la spinta fornita dalla stagione del Jobs Act e poi con le riforme all’indietro dei governi Conte. Si è prodotto un progressivo ed ingiustificato ingessamento del mercato del lavoro, si è diffusa una pratica di sgravi contributivi temporanei e male segmentati, si è abbandonata ogni ambizione su un più equilibrato rapporto tra politiche attive e politiche passive (risultato anche di una errata sperimentazione dell’assegno di ricollocazione, strumento principale delle politiche attive).
Il maggiore protagonismo delle Regioni non ha prodotto un salto di qualità delle politiche attive, anche laddove esisterebbe una maggiore propensione culturale in questa direzione. L’avverarsi della pandemia ha poi bloccato qualsiasi nuova avventura su questo terreno. Al contrario, come dimostra lo studio Unipol, le politiche attive possono essere una politica controciclica particolarmente importante in questa fase.
Laddove, poi, questo significa non solo reimpiego ma azioni di formazione e di riqualificazione, miglioramento delle competenze, innalzamento complessivo del capitale umano ciò è ancora più vero. Si tratterebbe di una riforma strutturale capace di costruire le condizioni per una maggiore produttività e per favorire quel cambiamento strutturale della nostra economia.
Gli esempi che provengono dagli altri Paesi europei ci devono incoraggiare in questa direzione e la necessità di creare un debito sostenibile che punta sugli investimenti e non sui bonus può essere assecondata da queste politiche. Certo, sarebbe necessaria una maggiore visione, una capacità riformista di governare che sembra mancare a questo Governo, oggi, ancora di più quando emerge un pericoloso nuovo collateralismo con le forze sociali della conservazione.
Nella storia italiana ciò non ha mai portato ad avanzamenti, ma a significativi arretramenti. Per questo anche quando si afferma che il 2021 sarà l’anno delle politiche attive del lavoro è difficile comprendere in quale direzione si andrà.
