La Turchia pesa nella guerra regionale in Nagorno-Karabach: qui gioca il ruolo di Stato-guida islamico. Ma poi, in Europa, raccoglie sfide globali come quella con la Cina.
Non è escluso che a un certo punto il conflitto scoppiato nel Nagorno-Karabakh possa tracimare e coinvolgere le grandi potenze del Caucaso: Turchia, Russia e Iran. Al momento, però, è tutto giocato all’interno del triangolo turco-azero-armeno. L’Iran non pare oggi intenzionato a farsi trascinare nel conflitto. Il rischio, infatti, è quello di mettere in fibrillazione la comunità azera – oltre 20 milioni di individui – che vive in Iran ma rimane molto legata alla propria identità nonostante la soppressione dell’azero e l’obbligatorietà del farsi nelle scuole iraniane. Quanto agli Stati Uniti, che pure non avevano esitato a intervenire in Georgia nel 2008, questa volta si tengono alla larga dal Caucaso. La stessa Russia, storico protettore degli armeni, per ora nicchia. L’impressione è che l’eventuale allargamento della crisi dipenda soprattutto dalla Turchia.
Gli armeni imputano ad Ankara tanto il sostegno esplicito alle operazioni militari azere, quanto una vera e propria guerra per procura. I turchi starebbero infatti sostenendo una coalizione di guerriglieri islamisti con capacità belliche di tipo tattico, provenienti dalla Siria. L’accusa rivolta dagli armeni alla Turchia – quella di essere lo sponsor di una nuova Isis nel Caucaso – è davvero pesante. Gli iniziali successi dell’Isis in Siria segnalarono infatti il collasso dell’intera architettura mediorientale, e le esitazioni occidentali nel puntellarla.
L’Isis si rivelò abilissima a insinuarsi nei vuoti dello scacchiere mesopotamico e levantino, spogliandosi gradualmente dei connotati geografici iniziali. Di certo c’è che Ankara vuole passare dallo status di leader regionale a quello di Stato-guida islamico. Questa impostazione venne inizialmente accolta con favore dalle amministrazioni statunitensi (Bill Clinton e Barack Obama), che strizzarono l’occhio all’Islam politico e ai suoi sponsor.
La Turchia di Erdogan, insieme al Qatar, si è fatta nume tutelare della Fratellanza musulmana, in un evidente ribaltamento storico del secolarismo del padre della Patria Mustafa Kemal Atatürk. Ancora oggi, Washington rinuncia a condannare la dottrina strategica turca.
La Turchia, infatti, fa gioco agli Stati Uniti. Serve come puntello contro la Russia ma anche contro la Cina. Per Erdogan le spinte eurasiatiche verso Occidente della Cina rappresentano una fonte di affari, ma anche una concorrenza sul piano strategico. Inoltre la strategia turca non abbraccia solo le sconfinate superfici eurasiatiche, ed è oggi molto visibile nello stesso bacino mediterraneo. Ankara è in competizione diretta sia con gli altri «brand» islamici sia, sempre di più, con l’influenza cinese.
Nel quadrante occidentale del Mediterraneo è, per esempio, evidente l’ostilità contro il modello algerino. Agli occhi di Erdogan, si tratta di un esperimento di «euro-islamismo» alternativo alla formula più radicale della Fratellanza musulmana, e l’Algeria è uno storico alleato della Cina. Nel quadrante orientale, oltre al «muscolarismo» di questi giorni nelle acque cipriote e al rinfocolarsi dello storico conflitto con la Grecia, non va dimenticata l’Albania. Anch’essa, come la stessa Turchia, è da molti anni in coda per l’ammissione alla Unione europea.
E proprio l’Albania è teatro di un’accesa competizione tra turchi e cinesi. I primi non intendono abdicare alla sfera di influenza ottomana nei Balcani. I secondi sono presenti in Albania fin dalla Guerra fredda grazie al regime filo-maoista che fu guidato dal dittatore Enver Hoxha. A Pechino intendono saldare questo sodalizio storico con la nuova e robusta presenza nel Pireo ateniese.
Quanto all’Italia, essa ha scelto di tenersi buona la Turchia e di rinunciare a ogni iniziativa. A guidare è Erdogan, e Roma docilmente si accoda. Molti, troppi sono gli interessi italiani «tutelati» da Ankara: dai profughi siriani trattenuti in Turchia ai pozzi dell’Eni in Libia, fino ai numerosi insediamenti industriali italiani e scambi commerciali. Certo, vi fu un tempo in cui Roma contava davvero in Turchia grazie a geniali uomini d’affari come il veneziano Giuseppe Volpi di Misurata. Ma Volpi fece fortuna nel crepuscolo dell’Impero Ottomano, grazie ai buoni uffici con quei kemalisti che Erdogan ha spazzato via.
* L’autore Francesco Galietti è un esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
