Home » Attualità » Esteri » Iran, la rivoluzione che non cambia nulla

Iran, la rivoluzione che non cambia nulla

Iran, la rivoluzione che non cambia nulla

Le elezioni presidenziali si svolgono il 18 giugno. Ma le spinte all’innovazione di un Paese con 80 milioni di abitanti rischiano di venire soffocate dalla stretta del potere religioso e dalla crisi economica dovuta alle sanzioni imposte da Donald Trump.


Con l’immancabile turbante nero, lo sguardo sornione dietro gli occhiali da vista rettangolari, la barba sale e pepe, Ebrahim Raisi è il grande favorito alle elezioni presidenziali iraniane del 18 giugno. È un conservatore e religioso sciita dalla linea dura, capo della magistratura iraniana, e un potenziale successore dell’ayatollah Ali Khamenei come Guida suprema della Repubblica islamica. Nel 2017 ha dovuto digerire la sconfitta di fronte al riformista Hassan Rohani, con solo il 38 per cento dei voti. Adesso, però, è arrivata la sua grande occasione. Il Consiglio dei guardiani ha escluso quasi tutti i candidati riformisti, per spianargli la strada. Raisi ha concentrato la sua campagna sulla lotta alla povertà e alla corruzione per allargare il suo consenso.

La sua vittoria – se conquisterà il 50 per cento dei voti, altrimenti andranno al ballottaggio i primi due classificati – significherebbe un Iran che rialza la testa, diffidente nei confronti di Stati Uniti ed Europa, più «khomeinista», secondo la rivoluzione «conservatrice» che ha cambiato il corso della storia nel Paese, nel 1979.

L’ascesa di Raisi è legata al suo ruolo di custode del santuario dell’imam Reza a Mashhad, un complesso di edifici religiosi che ospita il mausoleo dell’imam Ali al-Rida, l’ottava guida spirituale degli sciiti duodecimani. Con la sua cupola dorata, 14 minareti e tre fontane è il cuore dell’ortododossia sciita nel Paese. Raisi è anche sposato con Jamileh Alamolhoda, la figlia dell’imam della «preghiera del venerdì» di Mashhad. Ma la sua carica di custode è soprattutto importante perché implica la gestione di un bonyad, gli enti di beneficenza che svolgono un ruolo fondamentale nell’economia iraniana, controllano circa il 20 per cento del Pil e incanalando i ricavi a gruppi che sostengono la Repubblica islamica. Sono strutture supervisionate per lo più da Khamenei, non trasparenti nella gestione, dove si concentrano supremazia politica e interessi economici e che possono aver aiutato Raisi nella sua scalata al potere, a partire dalla guida della magistratura. Un ruolo controverso, macchiato dalle esecuzioni di massa di diverse migliaia di prigionieri politici nell’estate del 1988.

A frapporsi alla sua corsa non c’è più l’incognita dell’ex speaker del Parlamento, Ali Larijani, un moderato, considerato il suo principale antagonista; cassato tuttavia dalla lista degli aspiranti presidenti dai Guardiani con una motivazione capziosa ma efficace: la figlia risiede negli Stati Uniti. Il Consiglio, il 25 maggio scorso ha approvato quindi sette candidati, per lo più conservatori, e ne ha escluso diversi ritenuti importanti, tra cui, oltre a Larijani, anche l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad e il vicepresidente di Rohani Eshaq Jahangiri, un riformista.

«La squalifica di Ahmadinejad non è una sorpresa, poiché ha usato il suo secondo mandato per minare l’establishment clericale e in particolare Khamenei» dice l’analista dell’Arab Gulf States Institute Ali Alfoneh a Panorama. «La squalifica di un lealista al regime come Larijani, d’altra parte, mostra il desiderio di Khamenei di vedere Raisi come il prossimo presidente della Repubblica, e forse come il suo successore nella carica di leader della rivoluzione. In ogni caso questa scelta allontana il popolo che non è più rappresentato tra le élite al potere».

Tanto più che in questa tornata elettorale Raisi – salvo colpi di scena – è ormai visto come il vero possibile successore a Rohani, che non può candidarsi per la terza volta. Anche se l’esclusione dei riformisti dalla competizione ha scatenato polemiche accese, senza però cambiare il dato di fatto. «È una seria minaccia alla concorrenza leale tra le tendenze politiche» ha avvertito Eshaq Jahangiri. Lo stesso Rohani, il 26 maggio, ha inviato una lettera a Khamenei con la richiesta di riconsiderare la lista dei candidati. «Le elezioni sono un simbolo di libertà» ha dichiarato solennemente.

Affermazione rimasta, è il caso di dirlo, lettera morta. Il processo è andato avanti. E il 5 giugno i candidati superstiti si sono confrontati in un primo dibattito televisivo infuocato. L’ex governatore della Banca centrale Abdolnaser Hemmati è stato duramente attaccato dagli altri cinque avversari per la gestione dell’economia, in particolare per l’alta inflazione e il crollo del tasso di cambio. Hemmati ha replicato sostenendo che la maggior parte dei suoi antagonisti sono semplicemente una copertura per far vincere Raisi e li ha sfidati a impegnarsi a non ritirarsi dalla gara prima del giorno delle elezioni.

La lunga corsa di Raisi alla seconda carica più importante del Paese – dopo ovviamente la Guida suprema – è a questo punto sul punto di concludersi a suo favore. E ciò non significa che le sue ambizioni si fermino a tale carica. «I poteri del presidente sono limitati da altre istituzioni concorrenti, compresi i Pasdaran, i guardiani della rivoluzione islamica» puntualizza Alfoneh. «E Raisi sarà in una posizione migliore per diventare, a sua volta, Guida suprema se vincerà queste elezioni».

Prima però dovrà affrontare i concretissimi problemi dell’economia e del dossier nucleare e si troverà al timone di un Paese disastrato. Il Pil iraniano è stato affossato dalle sanzioni ripristinate dopo il ritiro dell’amministrazione di Donald Trump dall’accordo sul nucleare nel 2018, e ancor più dalla cattiva gestione interna. Le vendite di petrolio e gli utili in valuta estera sono crollati, l’inflazione è aumentata al 50 per cento. Il rial iraniano si è schiantato, fino a 240 mila unità per un dollaro. Le banche affrontano una crisi molto grave. E pure le attività dei commercianti dell’animatissimo bazar di Teheran – un tassello importante per l’andamento del voto – sono in crisi.

Di fronte a tali difficoltà, la classe media urbana appare sempre più disinteressata al voto e si prevede un tasso di astensionismo alto. Due anni fa la crisi ha innescato manifestazioni massicce, specialmente a causa dell’aumento dei prezzi del carburante. Il regime le ha soffocate nel sangue, con 1.500 morti. Nel 2021 sono proseguite le proteste contro la corruzione e la gestione disastrosa della pandemia. Tra gli Stati del Medio Oriente, l’Iran è stata quella più colpita dal coronavirus con 2,86 milioni di casi e, stando ai numeri ufficiali tutti da verificare, oltre 79 mila decessi.

Un altro colpo all’orgoglio nazionale è stato la perdita del generale Qasem Soleimani, capo della Forza Quds dei Pasdaran, ucciso il 3 gennaio 2020 da un raid americano in Iraq. La Repubblica islamica ne è stata fortemente segnata: cortei oceanici, come non se ne vedevano da tempo, sono stati organizzati per commemorarlo.

Ma la questione più urgente ora è trovare un modo per uscire sanzioni e rilanciare economicamente il Paese. «Sono le più dure della storia» fa notare l’analista del Middle East Institute Alex Vatanka a Panorama. «Potenzialmente l’economia iraniana sarebbe molto forte, ma all’establishment interessa solo la conservazione del potere». Una strada sarebbe rilanciare l’accordo sul nucleare, ora che Trump non è più alla Casa Bianca. A quel punto le sanzioni potrebbero essere rimosse e le esportazioni potrebbero avere un rimbalzo, anche se i Pasdaran non sembrano di questo avviso.

Ecco che il 14 aprile Teheran ha avviato l’arricchimento dell’uranio al 60 per cento nell’impianto nucleare di Natanz, nella provincia di Isfahan. Il giorno dopo, un incidente – attribuito dall’Iran a un «sabotaggio» di Israele – lo ha parzialmente danneggiato. «La Repubblica islamica vuole l’accordo sul nucleare e chiunque vincerà lo farà» conclude però Vatanka. «Anche se gli iraniani non vedono grande differenza tra l’amministrazione Trump e quella di Joe Biden, per loro è solo una questione di differenza di stile». «E poi a ogni azione degli Stati Uniti nel corso della storia dell’Iran si è sempre assistito a una reazione» aggiunge Luca Miraglia, ceo per Ambrosetti Middle East a Panorama: «Ahmadinejad era stata la risposta alla presidenza di George W. Bush, ora ci si aspetta la replica all’era post-Trump».

© Riproduzione Riservata