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I nuovi schiavi

I nuovi schiavi

Sono gli italiani che dichiarano più di 35 mila euro lordi all’anno e sui quali grava tutto il peso delle imposte e dei servizi pubblici senza avere nulla in cambio. Li ha battezzati così Alberto Brambilla, esperto di previdenza ed ex consigliere economico di Palazzo Chigi, che in questa intervista accusa i politici di parlare solo di diritti e fa a pezzi le principali promesse dei partiti.


Li definisce «nuovi schiavi». Sono quelli che portano sulle loro spalle il peso dell’intero Paese, che pagano più tasse, mantengono i servizi pubblici e in cambio non hanno nulla. Anzi, potrebbero venire ulteriormente bastonati se alcune delle promesse elettorali dei partiti saranno mantenute senza adeguate coperture. A individuare questa nuova classe sociale, chiamiamola così, è Alberto Brambilla, presidente del Centro studi Itinerari previdenziali. Un esperto di temi pensionistici ed economici, già sottosegretario al Lavoro con delega alla Previdenza nei governi Berlusconi II e III, quando ministro era il leghista Roberto Maroni, e consigliere economico alla presidenza del Consiglio dal 2018 al 2020. Brambilla si considera un tecnico e come tale non risparmia critiche ai politici che fanno demagogia, non importa se di sinistra come di destra.

Nei suoi interventi lei ha parlato dei «nuovi schiavi»: chi sarebbero?

Chi dichiara più di 35 mila euro lordi all’anno. Sono il 13,07 per cento dei cittadini e pagano il 60 per cento dell’Irpef. Sono quelli sui cui grava il peso maggiore delle imposte e che vengono considerati «ricchi» dai nostri politici. È una fetta della popolazione che tiene sulle sue spalle il Paese, paga i servizi, la sicurezza, la scuola, la sanità per tutti e non ha diritto a niente. Neppure al bonus di Renzi o a quelli di Draghi. Persone che non godono di alcuno sconto. Lo sa che il 50 per cento della popolazione italiana paga appena 5,1 miliardi di Irpef cioè meno del 3 per cento del totale? Solo per garantire a questi cittadini l’assistenza sanitaria, che nel 2019 è costata 1.930 euro pro capite, servono 52,7 miliardi di euro, pagati dal suddetto 13,07 per cento di contribuenti che dichiarano più di 35 mila euro all’anno. L’Italia è il Paese della tripla progressività: la prima riguarda il fatto che più un soggetto guadagna e più paga; la seconda progressività è data dall’incremento dell’aliquota. La terza è una progressività «occulta», perché esiste ma non è mai evidenziata dai fautori della riduzione delle imposte, e soprattutto pericolosa, perché più tasse si pagano meno servizi si ricevono. All’aumentare del reddito diminuiscono infatti fino a sparire le deduzioni. Non solo: per Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, il ministro Andrea Orlando, questi contribuenti che guadagnano più di 35 mila euro lordi dovrebbero pure pagarsi la sanità. Figuriamoci. Bisognerebbe fare una rivoluzione per restituire più equità a un sistema fiscale che scarica tutto il peso solo su una minoranza della popolazione. Altro che pensioni di mille euro o quattordicesime. Il fatto è che la politica non riesce a parlare di doveri ma solo di diritti.

Invece, nei programmi dei partiti di doveri non ce n’è l’ombra.

La prima sensazione che ho, leggendo i programmi dei partiti è di essere preso in giro, vedo poco rispetto per l’intelligenza altrui.

E nessuno parla di debito pubblico e di come tenerlo sotto controllo.

Infatti. E questo sarà il problema numero uno perché il prossimo anno avremo più di 400 miliardi di debito in scadenza e mancheranno gli acquisti della Banca centrale europea in un contesto difficile per la guerra in Ucraina, per l’inflazione, per il costo del gas, per i tassi più alti. Eppure sento dai partiti critiche alle agenzie di rating perché abbassano il voto all’Italia e questo di certo non rassicura i grandi fondi pensione internazionali che investono nei nostri titoli: istigare la gente contro i mercati finanziari è sbagliato, è una politica un po’ da straccioni.

Veniamo alle proposte dei partiti: che cosa pensa della proposta della Lega di consentire a chiunque di andare in pensione con 41 anni di anzianità lavorativa?

Oggi abbiamo due barriere che riescono in qualche modo a tenere in equilibrio il sistema pensionistico: i 67 anni di età da una parte o i 42 anni e 10 mesi di anzianità dall’altra. Questi limiti sono stati indeboliti provvisoriamente con «quota 100» (62 anni di età e 38 anni di contributi) poi innalzata fino alla fine del 2022 a «quota 102», cioè 64 anni di età e 38 anni di contributi. Tenendo conto della situazione delicata dei conti pubblici, «quota 41» così come è stata enunciata potrebbe essere sostenibile tra 25 anni, non prima. Perché allora non ci saranno più i baby boomer che sono nati prima del 1960 e di solito hanno una storia contributiva completa. Oggi «quota 41» non è sopportabile proprio perché il sistema previdenziale verrebbe travolto dall’ondata di pensionamenti dei baby boomer. Io ritengo che «quota 41» sarebbe accettabile se riservata solo a certe categorie, come chi ha fatto lavori usuranti o le donne madri. Se non è selettiva è troppo costosa.

Silvio Berlusconi lancia invece la proposta della pensione minima di mille euro: è fattibile?

È una proposta che non sta in piedi: se dovessimo portare a mille euro al mese l’assegno dei quasi sette milioni di pensionati che oggi percepiscono meno quella cifra, dovremmo spendere 32,5 miliardi in più all’anno. Per sempre. È evidente che non è possibile e penso non sia onesto fare proposte di questo genere. E poi mi faccia aggiungere una riflessione: in Italia diamo la pensione sociale a 800 mila persone che hanno compiuto i 67 anni di età e di cui non sappiamo assolutamente nulla, nessuno gli chiede che cosa ha fatto nella sua vita e come mai non ha versato un euro di tasse e contributi. Quanti di questi hanno «lavorato» nella malavita organizzata? Non solo: ci sono 2,7 milioni di pensionati che costano una quindicina di miliardi all’anno perché gli abbiamo portato la pensione a 530 euro al mese visto che i loro contributi versati durante la vita lavorativa non erano sufficienti per garantire una prestazione adeguata e poi abbiamo un altro milione e 150 mila pensionati che hanno avuto l’aumento della pensione minima a 650 euro pur avendo versato molto meno. Insomma, queste sono persone che per tutta la loro vita non hanno contribuito allo Stato e quando raggiungono i 67 anni gli dovremmo dare pure il premio di mille euro al mese? E allora che cosa dovrebbero dire tutti gli artigiani, i commercianti, gli imprenditori agricoli che versano i contributi e che si troveranno con una pensione da poco più di mille euro al mese? Chi glielo fa fare di versare i contributi se comunque tutti alla fine prendono mille euro al mese? La proposta di Berlusconi è il de profundis di tutto il sistema previdenziale italiano: nessuno, tranne i lavoratori dipendenti, verserebbe più nulla nelle casse dell’Inps.

Invece il Pd propone una mensilità in più per tutti i lavoratori, una «quattordicesima» ottenuta dalla riduzione dei contributi sociali finanziata con gli extraprofitti delle imprese energetiche e con l’extragettito dell’Iva. È fattibile?

No, è una manovra improponibile. Stiamo alle cifre reali: il contributo previdenziale a carico dei lavoratori dipendenti è pari al 9,19 per cento della retribuzione annua lorda e per un reddito di 15 mila euro lordi l’anno il contributo ammonta a 1.378,5 euro. La retribuzione per 13 mensilità è pari a 1.153,8 euro al mese, quindi per garantire una mensilità in più occorrerebbe uno sconto di 7,5 punti di contribuzione, cioè quasi tutti i contributi. Per i circa 9 milioni di dipendenti con un reddito di 15 mila euro l’anno uno sconto di questa entità costerebbe 6,24 miliardi strutturali l’anno; se poi il Pd vuol dare una mensilità in più anche ai redditi tra 15 e 20 mila euro deve prevedere altri 2,5 miliardi e se vuole estenderlo ai redditi tra i 20 e i 29 mila euro, altri 10,42 miliardi; totale 19 miliardi che raddoppierebbero il disavanzo Inps.

E della flat tax che cosa pensa?

Intanto dobbiamo ricordare che l’Italia è il Paese dell’Ocse con la più alta evasione fiscale. L’apposita commissione interministeriale ha valutato l’evasione in 103 miliardi, anche se in realtà siamo più vicini ai 160-170 miliardi. In questo contesto la flat tax proposta dalla Lega, cioè un’aliquota fissa del 15 per cento sui redditi delle partite Iva fino ai 100 mila euro annui, rischia di alimentare l’evasione perché il contribuente non potrà più scaricare le sue spese e quindi cercherà di spendere di meno pagando in nero. E per la stessa ragione non avrà alcun interesse a sviluppare la sua attività assumendo un collaboratore. Inoltre non si capisce perché io lavoratore dipendente devo avere un’aliquota massima del 43 per cento mentre un lavoratore autonomo fino a 100 mila euro di reddito ne ha una del 15: a me sembra incostituzionale. Sono proposte fatte da persone che non sembra abbiano chiaro il senso dello Stato. Se invece parliamo della flat tax al 23 per cento applicata a tutti i redditi, anche a quelli dei lavoratori dipendenti, il risultato è il seguente: invece di incassare 173 miliardi all’anno di Irpef lo Stato ne prenderebbe la metà. Vogliamo davvero ottenere questo obiettivo?

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