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L’impero non colpisce più

L’impero non colpisce più

Il recente tour ai Caraibi dei duchi di Cambridge per festeggiare il Giubileo di Platino di Elisabetta II è stato un mezzo flop. Le contestazioni hanno messo in evidenza come l’istituzione post-coloniale del Commonwealth vada stretta a molti dei 53 Paesi che ne fanno parte.


Bye bye, Commonwealth. Sarà anche questo il Giubileo di Platino di Elisabetta II, un lungo e doloroso addio a quell’Unione delle nazioni creata nel dopoguerra sulla scia dell’esperienza coloniale inglese. «È abbastanza semplice spiegare che cosa il Commonwealth non è. In effetti questo è un passatempo piuttosto popolare» ha dichiarato una volta la Regina a proposito dell’organizzazione intergovernativa volontaria che forse più di ogni altra, nella sua evoluzione, rispecchia le contraddizioni delle realtà nei Paesi in via di sviluppo e allo stesso tempo lega la propria storia a quella della sovrana più longeva del Regno.

Da lei presieduto soltanto simbolicamente, questo sistema di Stati in cui in passato si poteva respirare l’atmosfera di un club privato – per l’uso della stessa lingua, la tradizione letteraria e la struttura amministrativa simile a quella dell’impero di cui i suoi membri era stati colonie – appare ora sempre più disgregato al proprio interno e sempre meno disposto a onorare anche la tradizione più innocua che riporti alla memoria le grandezze della Casa reale.

A dimostrarlo è stato il completo fallimento del primo viaggio di rappresentanza dei duchi di Cambridge ai Caraibi, tour di una settimana tutto imperniato sull’eredità lasciata dalla Regina in quelle terre, che si è invece rivelato la cartina di tornasole della necessità di un cambiamento ormai irrinunciabile della monarchia stessa. Molti editorialisti hanno addossato la colpa a un’errata organizzazione e in parte è così.

«A casa dei Reali, le decisioni vengono prese basandosi spesso su quello che è accaduto in passato» commenta Camilla Tominey, editorialista del Telegraph. «Ecco perché i duchi si sono ritrovati a ricreare il momento in cui la Regina e il Principe Filippo hanno girato l’isola sul retro di una Land Rover. Poteva funzionare nel 1953, ma adesso quest’immagine di loro sulla stessa jeep non avrebbe potuto apparire più colonialista. Sarebbe stato meglio se l’avessero guidata di persona, ospitando a bordo il primo ministro giamaicano Holness e sua moglie Juliet».

Chissà, forse in questo caso William si sarebbe risparmiato almeno l’umiliazione di dover ricambiare i calorosi saluti di benvenuto del capo del governo della Giamaica e assistere allo stesso tempo all’annuncio ufficiale dell’intenzione di smarcarsi dal solco inglese e di voler «andare avanti, come un Paese indipendente, sviluppato e prospero». Il suo sguardo perso e imbarazzato faceva quasi tenerezza.

Non che non dovesse aspettarselo; la mossa, seppur non elegante, era prevedibile visto che la visita ufficiale dei duchi era stata preceduta da forti momenti di protesta sul ruolo della Gran Bretagna nel commercio degli schiavi. Un ruolo che in tempi di «cancel culture» è ossessivamente ricordato e contestato, tanto da indurre persino il ministro dell’Istruzione britannico Nadhim Zahawi a sottolineare l’esigenza di far conoscere agli studenti «anche le azioni positive compiute dall’impero».

Sul tour caraibico, gli analisti delle vicende reali spiegano che l’idea di ripercorrere idealmente i passi degli amati nonni, ricordando il trionfo del primo viaggio di Elisabetta e Filippo negli stessi luoghi nell’anno dell’incoronazione, è stata sicuramente discussa in anticipo dal principe William insieme alla monarca.

Le crisi di un Commonwealth ormai troppo diviso e di un’istituzione travolta da innumerevoli scandali non potevano però venir risolte con un affettuoso omaggio ai bei tempi passati, nella speranza che i fotografi dei quotidiani internazionali si accontentassero di affiancare gli scatti nuovi a quelli vecchi, come in quei giocosi confronti familiari che appaiono sui social.

Così, l’immagine di una Kate sorridente e spigliata che stringe con materno calore le manine delle centinaia di bimbetti ammassati al di là di un reticolato di ferro non ha contribuito ad allentare le tensioni di una visita partita con il piede sbagliato. Il primo impegno dei duchi in Belize – una visita al villaggio di Indian Creek – è stato frettolosamente cancellato dopo che alcuni abitanti avevano inscenato una protesta descrivendo la tappa come «un atto colonialistico e uno schiaffo in faccia» nei loro confronti dato che la coppia reale pensava ancora di poter atterrare con l’elicottero personale sul campo di calcio del villaggio senza avvertirli.

Ma appare fin troppo ovvio che le difficoltà affrontate da William e Kate non si possono ridurre a una mera questione di pubbliche relazioni inefficienti. Le condizioni economiche e politiche, i sentimenti e le problematiche di un’organizzazione che raggruppa 53 Paesi disseminati su diversi continenti per una popolazione totale di 2 miliardi di abitanti, sono ormai estremamente complesse e spesso toccano nervi ancora scoperti e ferite mai rimarginate.

La protesta in questione, per esempio, era parte di una lunghissima disputa che vede gli abitanti del villaggio contrapposti allo stato sui diritti terrieri persi nell’era coloniale. Anche John Briceno, premier del Belize, al pari del collega Holness, sembra inoltre essersi lasciato contagiare dall’ondata di repubblicanesimo che sta portando molti degli Stati membri a considerare l’ipotesi di seguire le orme dell’isola di Barbados, che lo scorso anno ha rescisso i suoi legami con la monarchia inglese. Sono trasformazioni e perdite cui la Regina assiste forse con rassegnata impotenza, ma che i suoi diretti discendenti, in particolare il principe William, hanno deciso di affrontare di petto.

Così, dopo essersi fatto immortalare insieme alla moglie in abiti informali multicolore, dopo aver dichiarato ufficialmente tutto il suo profondo rammarico per gli errori commessi in passato e il dolore inflitto alle popolazioni dell’ex impero, Il primogenito di Carlo ha chiuso la partita, almeno per il momento, accettando di buon grado la retromarcia dei leader del Commonwealth – che con un referendum nel 2018 avevano deciso di confermare i successori di Elisabetta a capo dell’organizzazione – e lasciando alle popolazioni la facoltà di scegliere quale via intraprendere.

«Non sono interessato a dire alla gente che cosa deve fare» ha dichiarato in una serie di post sull’account Twitter ufficiale dei Cambridge, sottolineando che questo viaggio aveva evidenziato con urgenza alcune questioni sul passato e sul futuro del sistema di nazioni. E sicuramente, anche sul suo, di futuro, come erede al trono di una monarchia che va ripensata se vuole sopravvivere.
Se a sua nonna, a 95 anni, basta comparire in pubblico per qualche ora alla cerimonia in memoria del marito per mettere a tacere le malelingue che la vogliono relegata su una sedia a rotelle, lui dovrà fare molto di più per assicurarsi un ruolo attivo nella storia del suo Paese.

E intanto la guerra aiuta Boris Johnson a rifarsi l’immagine

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Ansa

Rivali e complementari, mai così contrapposti, ora anche ugualmente invisi. Dopo le multe comminate da Scotland Yard al Premier Boris Johnson e al suo Tesoriere Rishi Sunak, la corsa alla futura leadership subisce un’ulteriore scossa.

Se infatti Johnson è uno che tira dritto come un ariete a testa bassa nonostante le richieste di dimissioni, non appare chiaro se il suo avversario più quotato, ora che gli umori della gente hanno virato decisamente al nero pece, avrà ancora voglia di rimettersi in gioco, soprattutto se la sconfitta è probabile. Intanto il livello dello scontro tra i due rimane alto: un dualismo che riporta ai tempi di Blair contro Brown, se non fosse che, secondo le ultime stime, mister Sunak in 2 anni ha aumentato le tasse più di quanto abbia fatto Brown nei suoi 10 trascorsi allo stesso ministero.

La sua ultima manovra finanziaria ( che, tra le altre cose, ha incrementato la soglia del contributo per il servizio sanitario e ridotto di soli 5 pence il prezzo della benzina) ha scontentato tutti, confondendo persino gli elettori più fedeli. E alcune sue gaffes immediatamente scoperte dai tabloids, come aver chiesto in prestito un’utilitaria di un dipendente della stazione di rifornimento per farsi fotografare mentre fa benzina, minacciano la sua posizione in cima alla classifica dei politici più popolari.

Gongola Johnson, che grazie alla guerra in Ucraina si è ritagliato un nuovo ruolo di leader forte e determinato di quell’Europa da cui ha voluto uscire e conta proprio su questo per far dimenticare le multe appena ricevute. Su di lui pendono però come una spada di Damocle la questione di una post Brexit ancora in fase di stallo e il nodo irlandese irrisolto che penalizza le transazioni commerciali con l’Europa. Il voto amministrativo del 5 maggio nei 200 consigli comunali, che coincide con l’elezione dell’Assemblea dell’Ulster, sarà un buon banco di prova sia per il Primo Ministro che per il suo collega e avversario, visto che le più colpite dai tagli nella spesa pubblica sono proprio le autorità locali su cui si riversa il malcontento dei cittadini. Le elezioni del 2024 restano ancora sullo sfondo e il partito mai come ora si sta chiedendo su che cavallo puntare.

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