Il settore delle materie prime ha subito un notevole rialzo negli ultimi mesi e la politica italiana sembra non avere ancora ben compreso la gravità del problema per il nostro sistema industriale. Siamo in totale carenza di approvvigionamento. Entro fine maggio la Commissione sarà chiamata a decidere se mantenere le tasse sul siderurgico oppure se ridurle o addirittura eliminarle. Tutelare i produttori attraverso il proseguo di una politica protezionista che penalizza tutti gli utilizzatori oppure favorire le aziende trasformatrici con una liberalizzazione degli scambi? La prima scelta sarebbe per noi la mazzata finale.
Il settore delle materie prime ha subito un notevole rialzo negli ultimi mesi e la politica italiana sembra non avere ancora ben compreso la gravità del problema per il nostro sistema industriale. L’indice Lme (che raggruppa gli andamenti dei metalli non ferrosi) ha chiuso l’anno 2020 con un rincaro del 52% trainato in particolare dal rame (+47%) nichel (+51%) e zinco (+51%) e alluminio (+26%). La fase rialzista è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con un ulteriore aumento generalizzato del 7%. Particolarmente grave la situazione nel settore degli acciai dove la carenza di offerta ha aperto la strada a prezzi quasi triplicati.
Alla base di una crescita così impetuosa dei prezzi delle materie prime vi è una serie di fattori quali il forte aumento della spesa infrastrutturale in Cina, l’unico Paese oltre agli Usa che ha adottato una politica economica realmente espansiva; la crisi del container, determinata dall’aumento delle esportazioni cinesi e dalla domanda americana di prodotti hi-tech assemblati in Asia. Da novembre il costo della spedizione di un container di 40 piedi dall’Asia all’Europa è aumentato di oltre tre volte, da circa 2.200 dollari a oltre 7.900; ci sono poi le restrizioni sull’offerta dovute alla diffusione della pandemia e la conseguente adozioni di politiche di lockdown che hanno determinato un marcato rallentamento delle attività di estrazione, raffinazione e raccolta di materia prima; quarto, e più importante sul piano politico, c’è il problema europeo delle misure di salvaguardia. Di fatti, la Commissione europea a partire dall’ottobre 2019, ha imposto delle quote all’importazione di 26 categorie di prodotti siderurgici. Tale misura è stata giustificata dalla necessità di evitare che si riversasse in Europa l’eccesso di produzione (specialmente cinese) derivante dal blocco all’ importazione statunitense dovuta alla politica protezionista inaugurata da Trump. La Commissione ha stabilito il limite annuo quantitativo della media di importazione dei tre anni antecedenti per ciascuno dei 26 prodotti, poi successivamente rivista lo scorso autunno in senso ancor più protezionistico. E’ stato stabilito che superata la quota di import, a quei prodotti in eccesso si applica un dazio pari al 25%. Questa restrizione del mercato è un grave problema per i Paesi trasformatori come l’Italia, soprattutto in un momento di forte rialzo delle materie prime. Come ha spiegato Gianclaudio Torlizzi, uno dei maggiori esperti italiani nell’analisi dei mercati delle materie prime, «non è solo un problema di impennata dei prezzi che danneggia gli utili delle imprese. La grande novità rispetto al passato, quello che non si era mai verificato nella storia è il panico di approvvigionamento di materie prime. Alcune aziende sono costrette oggi a rallentare la propria attività perché non hanno materie prime».
Entro fine maggio la Commissione Ue sarà chiamata a decidere se mantenere i dazi nel siderurgico oppure se ridurli o addirittura eliminarli. Sul piano politico, in sostanza, si deve decidere se tutelare i produttori attraverso il proseguo di una politica protezionista che penalizza tutti gli utilizzatori oppure se favorire le aziende trasformatrici con una liberalizzazione degli scambi. L’Italia sarà particolarmente colpita da questa decisione, considerando che il nostro sistema industriale è fondato per gran parte sulla trasformazione e non sulla fornitura di materie prime. Le filiere industriali non si sono ancora organizzate per pressare la politica verso una abolizione dei dazi, ma chi è al governo dovrà rendersi conto di quanto potenzialmente dannosa sia per gruppi come Leonardo, Eni, Fincantieri, soltanto per restare nel perimetro della proprietà pubblica, una tale impennata di materie prime. Ragionamento che acquista valore, quello della liberalizzazione dei dazi, se si guardano i risultati del produttore largamente dominante del mercato italiano, l’ex Ilva di Taranto. L’azienda che nel 2012 produceva 8 milioni di tonnellate e oggi arriva a malapena a 3,5. Nei prossimi due anni lo Stato italiano sarà chiamato ad investire 1.1 miliardi e a salire fino al 60% del capitale di Ilva diventando l’azionista di riferimento. Gruppo che negli scorsi anni è stato prima espropriato al gruppo Riva per intervento della magistratura (top manager e proprietà poi assolti) e poi consegnato nel 2017 tramite gara, quando al Mise c’era Carlo Calenda, al gruppo franco-indiano Arcelor-Mittal preferito alla cordata italiana capeggiata da Arvedi. Nella crisi delle materie prime aleggiano due domande: chi ha guadagnato dal ridimensionamento produttivo di Ilva? Cosa potrà fare lo Stato-azionista? La prima risposta è semplice, il beneficiario principale è Arcelor. Il colosso dell’acciaio ha, grazie al controllo di Ilva, ristretto il mercato europeo e ha ridotto l’offerta. Dinamica che, insieme agli altri fattori sopra analizzati, ha spinto all’aumento dei prezzi dell’acciaio, all’abbassamento dei costi del lavoro (con impatti occupazionali) e ha ridotto la concorrenza su scala europea. Nel caso della seconda domanda la risposta è più complessa poiché lo Stato italiano sarà chiamato a contemperare due interessi, da un lato la necessità di far aumentare la produzione dell’Ilva di cui assumerà la maggioranza delle quote e dall’altro quello di tutelare la filiera della trasformazione. Il primo punto necessità di tempo poiché la transizione verso la proprietà pubblica sarà graduale e fino all’assunzione del controllo dell’acciaieria di Taranto le decisioni saranno prese da Arcelor Mittal. Ed è qui che interviene il secondo punto, cioè una politica di liberalizzazione del mercato, anche temporanea, da parte dell’Unione europea. Soltanto un’azione coordinata e flessibile, che faccia uscire la politica dall’indifferenza verso questo nuovo problema, potrà evitare asimmetrie capaci di affliggere negativamente i pilastri del nostro sistema industriale.