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Il governo ipoteca l’industria nazionale, ma dimentica le risorse umane

Il governo ipoteca l’industria nazionale, ma dimentica le risorse umane

Alitalia, Ilva, Autostrade e rete unica. Un management pubblico forte può imporsi su una politica debole oppure una politica forte può gestire un management di origine privata, ma l’assenza di entrambi rischia di generare disastri. Soprattutto se prevalgono gli appetiti sulla tutela dei posti di lavoro. E’ il monito di Giuseppe Bono («si pensa i fondi ma non alle risorse umane») che, insieme allo stato confusionale mostrato dal governo, offrono alla classe dirigente italiana prezioso materiale di riflessione.


«Sono particolarmente preoccupato perchè si parla solo di fondi. Ma cio’ che manca sono soprattutto le risorse umane, di cui non si vuole parlare sebbene sia uno dei fattori piu’ importanti della non crescita del Paese». Lo ha fatto notare di recente l’ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, intervenuto a un dibattito al festival del giornalismo Link. Secondo il decano dei manager pubblici italiani, in questa fase, bisogna «capire dove vogliamo andare, qual e’ l’obiettivo, il settore primario. Dobbiamo sapere – ha precisato – cosa vogliamo fare. Da qui poi discendono i progetti e dopo ancora le risorse. Che sono soprattutto quelle umane».

Parole passate inosservate, ma che fanno riflettere sulla piega presa dal governo e, più in generale, dal rapporto tra Stato e mercato in Italia. In questi giorni si discute del destino dell’Ilva e prende sempre più concretamente piede l’ipotesi di un intervento pubblico, questa volta tramite Invitalia, che consegni allo Stato il controllo societario dell’acciaieria (51%) in partnership con Arcelor-Mittal. In pole position come manager designato alla guida del colosso di Taranto ci sarebbe Domenico Arcuri, ad di Invitalia, già impegnato come commissario per l’emergenza del Covid, che ha dato una modesta prova delle sue doti nel processo di riapertura delle scuole. Tuttavia, il coinvolgimento nell’affaire Ilva suscita delle perplessità poiché Invitalia è una agenzia amministrativa, per quanto impegnata su fronti economici, e non di una società o di un’altra azienda pubblica. Torniamo così proprio al punto sollevato da Giuseppe Bono: lo Stato ha gli strumenti ed il personale adatto a condurre certe rischiose operazioni di salvataggio industriale?

Invitalia è ad oggi più un ente capace di erogare incentivi, monitorare le riconversioni, effettuare parziali operazioni di riqualificazione ambientale che un serbatoio di manager e risorse per salvataggi industriali di rilevanti dimensioni. Si potrebbe obiettare che proprietà e management sono separati e che i dirigenti si possono già trovare sul posto o reperire sul mercato, ma chi è disposto a credere che la politica rinunci a scegliere il top management delle aziende controllate dallo Stato? Il caso di Alitalia, azienda irriformabile e oramai buco nero di prestiti ponte con denaro dei contribuenti, è eloquente. Il rischio è che Ilva trasformi così in una seconda Alitalia, sempre a spese dei cittadini italiani. Sulla stessa linea si collocano le pressioni politiche per far intervenire Cassa Depositi e Prestiti in ogni situazione di crisi. E’ successo con l’intervento in Borsa Italiana, nonostante ciò finita nell’orbita francese; con il tentativo di assumere la maggioranza in Autostrade, trattativa oggi arenata per le condizioni poste da Atlantia; e con la partecipazione in Tim-Open Fiber per la costruzione della rete unica. Ma se quest’ultima operazione è giustificata da esigenze di sicurezza nazionale e di strategia di ammodernamento infrastrutturale, per le altre restano dubbi sulle opportunità di utilizzare profittevolmente il risparmio degli italiani.

Senza contare che Autostrade può trasformarsi in un fallimento per il governo e che Borsa Italiana non è stata pienamente tutelata dal controllo straniero. Insomma, anche se si fosse entusiasti di una nuova Iri, sono necessarie una strategia e dei mezzi adeguati che nel caso dell’Italia non si palesano. In tutto il mondo è in corso un’evoluzione dello Stato verso forme di protezione e di venture capital pubblico nei settori strategici. Ma questi ultimi sono individuati con precisione (digitale, robotica, farmaceutica, difesa, grandi banche) e sono afferenti alla sicurezza nazionale o alla possibilità di capitalizzare un vantaggio nell’emergenza pandemica, come ad esempio la produzione di nuovi vaccini. Non sembrano affatto rientrare in questa casistica Ilva, Alitalia ed Autostrade per esempio, dove prevalgono invece gli appetiti della politica sia nel tutelare ad ogni costo i posti di lavoro sia nell’esercitare un più vasto potere di patronage sul management. L’impressione è che il governo Conte bis dimentichi troppo spesso che queste operazioni vengono condotte con i risparmi e con le tasse di tutti i cittadini italiani. I vantaggi eventuali ed inevitabilmente temporanei rischiano infatti di andare a favore di piccole minoranze, cioè di lavoratori maggiormente tutelati rispetto ad altri, mentre le perdite ricadranno sull’intera collettività. Una classe manageriale pubblica, con spirito di corpo, dovrebbe servire proprio ad indentificare le priorità e a valorizzare le partecipazioni pubbliche. Qui invece c’è una classe politica che cerca di mettere le mani un po’ ovunque, senza un piano preciso, e manager per lo più provenienti da grandi società di consulenza che profittano momentaneamente della nomina pubblica per accumulare incarichi e potere. In Italia non c’è più la vecchia Iri di Menichella e una Ecole National d’Administration non c’è mai stata, mentre la politica continua ad essere disordinata, clientelare, partigiana. Un management pubblico forte può imporsi su una politica debole oppure una politica forte può gestire un management di origine privata, ma l’assenza di entrambi rischia di generare disastri. E’ il monito di Bono che, insieme allo stato confusionale mostrato dal governo, offrono alla classe dirigente italiana prezioso materiale di riflessione.

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