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I Kennedy suonati alle primarie dem

I Kennedy suonati alle primarie dem

Joe Kennedy III è stato sonoramente battuto alle primarie democratiche per il seggio senatoriale del Massachusetts. Un colpo non di poco conto per il pronipote di John Fitzgerald e di Ted che proprio del Massachusetts fu ininterrottamente senatore dal 1962 al 2009


Non è un buon periodo storico, questo, per le dinastie politiche americane. E gli ultimi a fare le spese di questo clima ostile sono stati i Kennedy. Martedì, Joe Kennedy III è stato sonoramente battuto alle primarie democratiche per il seggio senatoriale del Massachusetts. Un colpo non di poco conto per il pronipote di John Fitzgerald e di Ted: quel Ted che proprio del Massachusetts fu ininterrottamente senatore dal 1962 al 2009. Il giovane Joe (classe 1980) si è ritrovato surclassato dal senatore uscente, il progressista Ed Markey, rimanendo inchiodato al 44% dei consensi contro il 56% del suo settantaquattrenne rivale. Nipote di Bobby, Joe è deputato del Congresso dal 2013 e vedeva nella possibilità di entrare in Senato un deciso trampolino di lancio per la propria carriera politica. Una carriera che, pur non potendosi certo dire conclusa, ha comunque subìto una dura battuta d’arresto. E questo, nonostante l’inversione di rotta tentata dal giovane deputato. Come di recente sottolineato da Politico, differentemente da molti suoi parenti, Joe aveva mantenuto un profilo più basso, umile e meno glamour, temendo – come poi effettivamente accaduto – di non riscuotere adeguato consenso. Del resto, sono due le considerazioni da fare alla luce della sua sconfitta.

La prima riguarda specificamente la dinastia Kennedy. Una dinastia che, nonostante l’aura mitica che la accompagna, ha visto nella sua storia scandali, controversie e non pochi aspetti oscuri. Il padre di Joe, Joseph P. Kennedy II, era anche lui un tempo deputato democratico del Massachusetts e anche lui nutriva grandi ambizioni. Ambizioni che furono tuttavia stroncate principalmente a causa di una polemica pubblica con la sua ex moglie, Sheila Rauch Kennedy. Joseph, cattolico, aveva chiesto l’annullamento del proprio matrimonio – nonostante la coppia avesse figli – per potersi liberamente risposare con la sua segretaria. Per tutta risposta, Sheila pubblicò un libro nel 1997 in cui denunciava il comportamento del marito. Appena pochi mesi dopo, Joseph annunciò che non si sarebbe candidato per un nuovo mandato alla Camera: scelta su cui pesò sia la morte del fratello, Michael, sia ovviamente la controversia dell’annullamento matrimoniale. D’altronde, al di là degli scandali e delle opacità, il problema dei Kennedy si è spesso rivelato di natura politica. Anche in riferimento alle figure più carismatiche della dinastia.

Prendiamo John Fitzgerald. Primo (e finora unico) presidente cattolico degli Stati Uniti, arrivò alla Casa Bianca nell’ambito di una corsa elettorale – quella del 1960 – in cui non mancarono sospetti di brogli in Stati chiave come l’Illinois e il Texas. Tanto che, per un breve periodo, lo staff del suo rivale, l’allora vicepresidente uscente Richard Nixon, accarezzò l’idea di fare ricorso. Tuttavia, al di là di queste polemiche, va anche ricordato come JFK riscontrò enormi difficoltà nel portare avanti la sua agenda politica, ritrovandosi – anche per inesperienza – spesso bloccato da un Congresso ostile. Non sarà del resto un caso che gran parte di quell’agenda fu alla fine realizzata – dopo la sua morte – da Lyndon Johnson: figura indubbiamente controversa, ma con ben altra astuzia e conoscenza dei meccanismi di Washington. Anche Ted Kennedy non ha troppo brillato politicamente. E’ pur vero che, come detto, ha mantenuto il seggio senatoriale del Massachusetts ininterrottamente per decenni. Così come è vero il fatto che sia stato spesso accompagnato da una narrazione mediatica non poco enfatica (lo chiamavano il “leone del Senato”). Tuttavia la sua scarsa consistenza si manifestò in tutta evidenza nel 1980, quando decise di contendere la nomination democratica al presidente uscente, Jimmy Carter. Messosi alla testa dell’ala progressista dell’asinello (che vedeva Carter troppo spostato a destra), Ted avviò la sua battaglia: una battaglia che si si risolse poi in una bolla di sapone. Tutto questo per dire come, molto spesso, la famiglia Kennedy sia stata celebrata da una narrazione giornalistica che non corrispondeva ad effettiva sostanza sul piano politico. Persi nel nebuloso mito di Camelot, i Kennedy hanno proseguito nell’incarnare un’idea di progressismo elitario e mediatico, molto glamour ma ben poco concreto sul fronte programmatico. Del resto, proprio JFK fu – da grande comunicatore – in un certo senso l’inventore del marketing politico negli Stati Uniti, come testimoniato dal dibattito televisivo che ebbe con Nixon nel 1960. Nixon era concreto e cerebrale, Kennedy molto più superficiale. Ma Kennedy poteva contare su un’immagine giovane e una retorica efficace, laddove Nixon – col suo sguardo da mastino – non suscitava certo troppa simpatia.

In secondo luogo, la crisi politica dei Kennedy, esemplificata dal recente fallimento di Joe, va anche inserita in un contesto più ampio. Gli ultimi dodici anni hanno mostrato una progressiva perdita di consenso da parte delle grandi dinastie politiche americane. Una perdita di consenso, principalmente dovuta al crescente sentimento anti-establishment che pervade sempre più l’elettorato americano. In questo senso, eventi come la guerra in Iraq e la Grande Recessione hanno svolto un ruolo assolutamente fondamentale. E’ quindi in questo contesto che vanno lette le due sconfitte di Hillary Clinton alle primarie democratiche del 2008 e alle presidenziali del 2016. E sempre in questo quadro va interpretata la debacle di Jeb Bush alle primarie repubblicane di quattro anni fa. Un discorso che, in parte, riguarda anche Barack Obama: nato come candidato antisistema nel 2008, l’ex presidente si è man mano lasciato assorbire dall’establishment di Washington, attirandosi per questo l’antipatia di consistenti ambienti della stessa sinistra democratica. Non sarà un caso che, nonostante il ferreo sostegno dato a Hillary Clinton nel 2016, l’ex first lady alla fine abbia perso ugualmente.

La grande “aristocrazia” statunitense è finita sempre più sul banco degli imputati per le storture che la globalizzazione ha prodotto. Se ai Bush si rimproverano le “guerre senza fine”, i Clinton sono accusati di gettato le basi per la crisi finanziaria, esplosa dodici anni fa. Va quindi da sé che, in quest’ottica, dinastie e professionismo politico siano caduti progressivamente in profondo discredito. E i Kennedy, che sull’idea di dinastia hanno fondato da sempre il proprio consenso, si sono ritrovati a subire il contraccolpo più o meno indiretto di una simile situazione. L’ascesa di una figura come Donald Trump sta del resto a testimoniare come il sentimento antisistema dell’elettore americano si sia sempre più rafforzato nel corso degli ultimi anni. E l’attuale presidente, nel corso della Convention nazionale del Partito Repubblicano, ha non a caso rinverdito il suo classico messaggio anti-establishment. Tutto questo, nonostante la forte presenza dei suoi parenti all’evento abbia portato alcuni commentatori a ritenere che Trump stia cercando di lanciare una propria dinastia politica: obiettivo che, qualora fosse confermato, potrebbe rivelarsi non poco rischioso. La forza dell’attuale presidente ha infatti costantemente affondato le sue radici in una vigorosa carica antisistema e contro l’idea stessa di un potere trasmesso quasi per via ereditaria. Ed è anche (se non soprattutto) su questa base che l’inquilino della Casa Bianca si giocherà la rielezione il prossimo novembre.

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