Gse, la società pubblica per i servizi energetici che gestisce oltre 15 miliardi di euro all’anno nelle fonti rinnovabili, ha un nuovo vertice. Un amministratore che non risponde più a un consiglio interno, ma solo al ministero dell’Economia che lo ha designato. Risultato? Minore controllo sulle sue decisioni.
Una macchina da soldi, chiamata a maneggiare un’imponente quantità di risorse per le energie rinnovabili. Ancora più centrale nell’epoca del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che sullo specifico capitolo investe molte risorse. Eppure, nei prossimi due anni, il Gestore servizi energetici agirà con meno vincoli e controlli, grazie a una nomina arrivata nelle scorse settimane, in sordina, che ha modificato profondamente l’assetto societario.
Niente più consiglio di amministrazione: al suo posto c’è l’amministratore unico che avrà come referente solo il «giudice delegato della Corte dei conti, chiamato a vigilare sulla correttezza dell’operato aziendale», sottolinea un’interrogazione presentata dalla deputata di Fratelli d’Italia Ylenja Lucaselli. La conseguenza è che «mentre prima il magistrato poteva contare su più voci per approfondire e vagliare le scelte della direzione, ora il contraltare sarà unico e l’azione di controllo depotenziata», riferisce l’atto presentato alla Camera.
Ma di cosa si occupa il Gse? La società, al 100 per cento del ministero dell’Economia e delle Finanze, conta 630 dipendenti ed è chiamata a gestire la promozione e «lo sviluppo sostenibile attraverso l’incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica», come specifica il sito ufficiale. E movimenta un’ingente quantità di soldi. Solo nel 2020 ha erogato 15 miliardi e 200 milioni di euro per la sostenibilità, di cui poco meno di 12 miliardi per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta con energie rinnovabili, tra fotovoltaico ed eolico. Il resto è stato suddiviso, con quote minori, su altre voci.
È, insomma, la longa manus statale sulla gestione dell’economia green, principalmente, che con il Pnrr acquisirà un ulteriore peso specifico. Tanto per rendere l’idea, lo scorso anno ha rilasciato un milione e 700 mila «certificati bianchi», lo strumento che attesta il conseguimento di risparmi negli usi finali di energia attraverso interventi e progetti di incremento dell’efficienza.
Perché dunque la revisione della governance societaria? Il motivo è strettamente legato a una diatriba interna che coinvolgeva l’ex presidente Pasquale Vetrò che voleva revocare le deleghe all’allora amministratore delegato, Pasquale Moneta. Uno scontro che ha portato il governo Conte 2 alla decisione di commissariare la società.
Nel decreto Milleproroghe era contenuta la norma da emanare a inizio 2020. L’attesa si è però protratta per mesi, anche a causa delle divergenze interne, senza che arrivasse alcuna decisione, nonostante la sollecitazione del Parlamento, in particolare della deputata ecologista Rossella Muroni, che a maggio dello scorso anno parlava di situazione «non più rinviabile».
Si è arrivati così al cambio della guardia a Palazzi Chigi soltanto ad agosto, tramite un blitz in piena regola. Il governo Draghi ha cancellato con un tratto di penna il consiglio di amministrazione, istituendo la carica di amministratore unico. Il prescelto è stato Andrea Ripa di Meana. Il rampollo della nota famiglia è un volto noto mediaticamente, ma soprattutto vanta una lunga carriera manageriale all’interno di banche e di partecipate. Dagli esordi negli uffici del Mef alla fine degli anni Novanta, è passato alla Bnl fino ad approdare ad alcune società del gruppo Invitalia. Un percorso che gli ha consentito di crearsi buoni uffici negli apparati statali.
Per questo il ministro dell’Economia Daniele Franco, in accordo con il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, lo ha nominato al vertice del Gse. Stipendio: 192 mila euro annui fino al 2023.
«Mentre attendevamo la nomina del commissario è arrivata l’esautoramento del cda, accentrando tutti i poteri nelle mani di una sola figura. Diventa quasi una gestione ad personam, e su questioni così delicate non è affatto auspicabile» sottolinea Lucaselli, interpellata da Panorama. La parlamentare del partito di Giorgia Meloni aggiunge: «In assenza del cda, l’amministratore avrà solo due referenti ed è obiettivamente poco in rapporto alla quantità di risorse economiche da gestire nei prossimi mesi».
Per questo motivo Lucaselli chiede al governo di spiegare «perché è stata fatta questa scelta, visto che sarebbe bastata la nomina del cda, come è sempre successo, senza alcuna novità». Tecnicamente è possibile un ritorno al modello di governance precedente, come viene spiegato da fonti parlamentari: se c’è stata l’abolizione del cda, potrebbe esserci un suo ripristino. Ma occorre una volontà politica.
La questione è finita all’attenzione anche di Andrea Vallascas, deputato de L’Alternativa c’è: anche lui ha presentato un’interrogazione a Montecitorio. «Appare del tutto inopportuno» afferma il parlamentare «che il governo abbia deciso di depotenziare l’attività di controllo sulla gestione di un ente che sarà sempre più centrale e strategico nella sfida della transizione ecologica. E che nei prossimi mesi dovrà gestire ingenti risorse proveniente dal Pnrr».
