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Come resistere al potere

Fratelli d’Italia si dà un obiettivo ambizioso: governare il Paese senza perdere l’anima, né la spinta innovativa che l’ha portato a essere il primo partito. Ci riuscirà?


Da cespuglietto a moltitudine. L’ultimo capitolo della nostra storia illustrata è raccolto tra due scatti. Dicembre 2012: un gigionesco Guido Crosetto tiene in braccio una sbalordita Giorgia Meloni, alla convention da cui nascerà Fratelli d’Italia. Sono «Il gigante e la bambina», come quelli di Lucio Dalla: «Sotto il sole contro il vento/in un giorno senza tempo/camminavano tra i sassi». La scarpinata dura 10 anni. Seconda, recente, istantanea: Meloni giura da premier, davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

«Sotto il sole contro il vento» è nato un nuovo partito di massa: dopo Dc, Pci, Pdl, Pd. Dal 15 al 17 dicembre 2022, in Piazza del Popolo a Roma, si festeggerà il decennale di Fratelli d’Italia. Proprio in quei giorni, Meloni sarà di ritorno dal secondo viaggio in Europa, dove discuterà di Pnrr e crisi energetica. La sfavoritissima underdog, come dicono gli inglesi, diventa Lady di ferro, come la britannica Margaret Thatcher. Dieci anni fa era «la regina della Garbatella», circondata da sconosciuti ragazzotti. Allora dicevano: «Non usciranno dal raccordo anulare». Adesso disperano: «Governeranno almeno cinque anni». I consensi languivano: alle politiche del 2013, nemmeno il 2 per cento. Alle ultime elezioni, invece, arrivano al 26. Ora, superano il 30 nei sondaggi.

Giovanni Donzelli è responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia dal 2018. Dopo il trionfo alle ultime elezioni, tre mesi fa, gli altri fedelissimi della leader bramano il governo. Lui, invece, impazzisce per decimali da conquistare ed estenuanti discussioni con gli alleati: «Vorrei restare al partito». Ad ascoltare piagnistei e far da paciere? I vecchi amici entrano nella stanza dei bottoni, quella coniata da Pietro Nenni. Lui no. Rimane in via della Scrofa, unica sede sopravvissuta dalla Prima repubblica: prima con l’Msi, ora con FdI.

Quarantasette anni, due figlie, magro come un chiodo: il deputato toscano entra per primo e spegne le luci per ultimo. Vita ascetica. Durante le campagne elettorali, non tocca cibo: «Si perde tempo». Al massimo, una barretta di KitKat. Lo chiamano il «Monaco»: «Esagerati! Pure io, ogni tanto, mi lascio andare…» assicura Donzelli, tentando di scansare l’epiteto. Tocca a lui, comunque, organizzare anche la tre giorni in Piazza del popolo. «Sarà una festa di compleanno. Per rivendicare gli ultimi dieci anni e tratteggiare i prossimi dieci».

Nientemeno. «Certo, servono almeno due legislature per far funzionare l’Italia». Una decade al potere? «La nostra vittoria simboleggia il ritorno al passato, dopo 11 anni di tecnici, instabilità e nominati. Facciamo politica da una vita. Fratelli d’Italia è un partito tradizionale, nemmeno il simbolo è cambiato. Nessuna svolta, fusione, predellino. Vecchia scuola: sedi sul territorio, corsi di formazione, gavetta nelle amministrazioni. Siamo gli unici che hanno ancora movimenti nelle scuole e negli atenei: Gioventù nazionale e Azione universitaria».

L’obiettivo rimane iperuranico. «Giorgia ha impostato un partito che tiene» eccepisce Donzelli. «Non è mai emersa una spaccatura interna. Non ci sono correnti». Meloni, del resto, soffocherebbe ogni vagito in culla. «Ma no! È il contrario, piuttosto. Non c’è dissenso perché lei riesce a far sintesi. Il confronto diventa sempre costruttivo. La coerenza genera compattezza. E poi la nostra generazione è cresciuta insieme».

Anche Donzelli è stato un dirigente di Azione giovani, il movimento dei virgulti di Alleanza nazionale, già guidato da Meloni. La classe dirigente viene da lì. Come il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. O Galeazzo Bignami, viceministro alle Infrastrutture. E Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia. Per carità: il partito, negli anni, s’è allargato. Sono arrivati ex forzisti: Raffaele Fitto, Elisabetta Gardini, Lucio Malan. Ma l’architrave resta il nucleo degli ex virgulti. Eppure, sembrava l’ennesima scissioncina malriuscita. Nel 2009 il Pdl fagocita An. «Che fai mi cacci?» urla Gianfranco Fini a Silvio Berlusconi. È l’apocalisse. I seguenti inciampi sembrano sancire la fine degli orgogliosi eredi dell’Msi di Giorgio Almirante. A fine 2012 nasce però Fratelli d’Italia, guidata da un triumvirato: Meloni, Crosetto e Ignazio La Russa, adesso presidente del Senato. «Si schianteranno» sghignazzano i volponi finiani. La previsione sembra azzeccata. Politiche 2013: 1,96 per cento. E il prosieguo non conforta. Elezioni 2018: 4,3 per cento. Il doppio, ma non certo un’exploit.

La svolta, sostiene Donzelli, arriva con le Europee dell’anno successivo: 6,4 per cento. «Da quel momento, non siamo stati più considerati un partito in cerca di sopravvivenza. Giorgia e Ignazio alle riunioni ce lo ripetevano sempre: “Basta superare il cinque, poi è tutto in discesa”. Avevano ragione». La crescita dei tesserati è conseguente. Nel 2019 sono 43.969. L’anno dopo il triplo: 130 mila. Nel 2021 salgono: 141 mila. Quest’anno aumentano ancora: 170 mila. E niente grandi finanziatori, come Italia Viva o Azione. «Non abbiamo l’assegno dell’imprenditore, ma i piccoli contributi dei pensionati. E va bene così. Noi parlamentari abbiamo versato 30 mila euro per la candidatura. Adesso contribuiamo con mille euro al mese. Il partito, fortunatamente, non ha grandi spese. Appena una ventina di collaboratori. Il resto sono volontari, che lo fanno per passione. La vera ricchezza è motivare la gente».

Meno fiabeschi trasformisti tentano di salire sul carro meloniano. Non è il momento di stravincere, ragionano però i colonnelli. E non perché siano damerini, usi a inchini e baciamani. Se le leadership alleate venissero messe in discussione, anche il governo potrebbe traballare. Le Regionali del 12 febbraio 2023 saranno la prossima prova. Toccherà a Fratelli d’Italia scegliere l’aspirante governatore, tentando di evitare la fallimentare strategia delle comunali romane. In Lombardia corre invece per la riconferma Attilio Fontana. Con la fibrillante Lega costretta a riconquistare gli elettori in fuga.

Il Terzo polo, intanto, si scalda a bordo campo. Sarà davvero la stampella di Palazzo Chigi? «Calenda è stato furbo» ammette Donzelli. «Tenta di fare opposizione costruttiva: come Giorgia nella scorsa legislatura. Con Conte, certo, il dialogo era difficile. Con Draghi però, che non l’ha mai considerata una rivale, c’è stato subito feeling. Lo schema, in definitiva, è semplice: prima di portare in aula le tue proposte, le anticipi al premier». Il «Dragoni» nacque così. «Quella sponda ha tranquillizzato, ha aumentato la nostra credibilità, ha dimostrato che volevamo comunque lavorare per l’Italia».

Partito al 30 per cento, dunque. «Una parte viene da chi votava per altri nel centro destra. Poi, ci sono quelli affascinati dal nuovismo. Gente che prova a fidarsi: ex elettori dei Cinque stelle, persino di Matteo Renzi». Ed ecco l’assunto, anzi la regola: niente, in politica, è più repentino della disfatta. Vedi Renzi, appunto: dal 40 per cento alle Europee nel 2014 con il Pd, al misero 2 di Italia Viva. O Giggino Di Maio: dal 33 per cento nel 2018 con i Cinque stelle allo 0,6 di Impegno civico, cinque anni dopo. E, in misura minore, Matteo Salvini: la Lega è passata dal 34 per cento nel 2019 all’8,8 dell’ultima tornata. Uguale destino cinico e baro toccherà quindi a Giorgia e ai suoi Fratelli d’Italia? «Abbiamo gli anticorpi…» assicura Donzelli.

Ovvero? «Abbiamo già vissuto la parabola di Fini, che pure da ragazzini ce lo ricordava sempre: il consenso è una gran puttana…». Basta questo? «Giorgia rimarrà con i piedi per terra. E noi con lei». Lo dicono tutti. «Sì, ma molti dei suoi predecessori venivano dal nulla. E sotto c’era il vuoto. Stavolta, è diverso. Siamo insieme da 25 anni». Il potere cambia. «E Giorgia, invece, non cambierà. Conosce ancora i nostri consiglieri comunali uno per uno, da Casale Monferrato a Vittoria».

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