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Francia: le spine elettorali di Macron

Francia: le spine elettorali di Macron

Le prossime elezioni per l’Eliseo saranno un affare tra i candidati del centrodestra. Il presidente, il cui gradimento è salito per la gestione della pandemia – e perché non ha per ora avversari competitivi – cerca di convincere gli elettori su sicurezza, economia e politiche sociali. E sul ruolo decisivo dell’Europa contro lo strapotere Usa.


Rayanne aveva solo 14 anni quando è stato falciato da una raffica di kalashnikov lo scorso agosto. Non in Afghanistan né in Siria, ma a Marsiglia. Nei quartieri settentrionali del capoluogo provenzale, tra le zone più povere di Francia, infuria la guerra tra spacciatori. Narcotraffico e violenza non sono problemi nuovi nella città, la seconda più popolosa del Paese dopo Parigi, ma la crescente brutalità e l’età sempre più bassa delle vittime allarmano l’opinione pubblica.

Pochi giorni dopo l’omicidio dell’adolescente, Emmanuel Macron si è affrettato in una visita di tre giorni nella «cité phocéenne», dove ha presentato un piano di investimenti da un miliardo e mezzo di euro per combattere degrado e criminalità. I suoi avversari hanno però bollato la misura come campagna elettorale pagata con i soldi dello Stato: la sicurezza è infatti uno dei temi chiave su cui l’attuale inquilino dell’Eliseo si giocherà la rielezione il prossimo aprile.

Ed è caro anche ai suoi principali avversari: l’ormai abituale rivale di estrema destra Marine Le Pen e il gollista Xavier Bertrand, di area repubblicana. Gli unici due, nella trentina di candidati annunciati finora, ad avvicinarsi nei sondaggi al presidente in carica. La prima indietro di qualche punto, ma comunque sopra il 20%, mentre il secondo più distaccato a circa 15 punti.

La sfida per chi si aggiudicherà la più alta carica della République si giocherà infatti tutta a centrodestra, dove i tre dovranno conquistare i voti decisivi per passare al secondo turno. Dall’altra parte della barricata, la sinistra paga pegno per le sue divisioni non ricomposte, cannibalizzando i voti con una pletora di candidati schierati, tutti dati sotto il 10%. Tra cui Anne Hidalgo, sindaca socialista di Parigi, che nonostante l’ampia copertura mediatica ricevuta non è nemmeno la più popolare della compagnia. A sorpassarla, l’ex-collega di partito Jean-Luc Mélenchon, mentre i Verdi la tallonano.

Macron si era presentato alle elezioni del 2017 come il centrista in grado di ricomporre destra e sinistra, mandando in soffitta i vecchi schemi della politica francese. Ma il baricentro elettorale «gallico» si è progressivamente spostato a destra e il giovane presidente non ha potuto far altro che seguirlo per provare a restare in sella. Dopo il piano marsigliese, a metà settembre ha estratto dal cilindro anche una riforma della polizia: sul piatto un altro miliardo e mezzo di euro e il raddoppio degli agenti di pattuglia sulle strade.

Una misura che dovrebbe rassicurare non solo i cittadini ma anche gli stessi poliziotti, che si sentono abbandonati a fronteggiare il malcontento violento di periferie e piazze. A loro hanno fatto eco i soldati: lo scorso aprile è stato pubblicato un appello firmato da diversi alti ufficiali, poi ufficialmente censurati, che invitata a combattere la «disgregazione» dello Stato a causa di islamisti e «orde» delle banlieue.

Sulla lotta al terrorismo jihadista e al suo retroterra ideologico Macron ha invece già ampiamente scavalcato Le Pen: spera di porre un freno a queste derive con il controverso progetto contro il «separatismo islamico», presentato nell’ottobre 2020 dopo il barbaro omicidio di Samuel Paty – il professore decapitato da uno studente musulmano radicalizzato – approvato poi nel luglio scorso.

Una serie di misure che, nelle intenzioni presidenziali, dovrebbero plasmare un’interpretazione dell’Islam in linea con i valori nazionali. I suoi avversari e i rappresentanti della comunità islamica lo hanno però descritto come una stigmatizzazione generale dei musulmani francesi, più di 5 milioni secondo le stime, e una violazione della libertà di culto.

A febbraio, il canale France 2 ha ospitato un surreale dibattito sul tema tra il ministro dell’Interno Gérald Darmanin e Le Pen, dove è toccato alla leader di Rassemblement National affermare che «l’Islam è una religione come le altre», mentre il suo interlocutore le rimproverava di essersi rammollita sul pericolo islamista.

Marine per la verità ha intrapreso da anni un percorso inverso e speculare a quello del presidente «tecnocratico», cercando di depurare l’immagine del partito dall’eredità di razzismo e antisemitismo del passato. La trasformazione verso una forza conservatrice più moderata non è andata giù però a un pezzo della base: alle regionali di giugno, il Rassemblement National si è preso una batosta. Ora a strappare altri voti dalle dita della bionda politica è calato Eric Zemmour, opinionista e giornalista noto per le posizioni ultraconservatrici e provocatorie, che secondo le previsioni potrebbe raccogliere fino al 10% delle preferenze.

Macron ha anche saputo giocare a suo favore la gestione della pandemia. Nonostante 7 milioni di contagi e oltre 100.000 morti, l’approvazione pubblica del suo operato è balzata al 40%. Quasi un raddoppio sul minimo di 23% toccato tre anni fa nel pieno delle proteste dei gilet gialli, peraltro sfrattati dalle piazze con le misure di contenimento anti-Covid e neanche lontanamente rimpiazzati dai manifestanti contro lockdown e green pass.

Tra le misure del presidente, e ancora prima ministro dell’Economia, ci sono state generose elargizioni per supportare la ripresa. Il governo, accusato anche stavolta di fare campagna elettorale con fondi pubblici, ha infatti aperto tutti i suoi rubinetti a favore di imprese e professionisti, stanziando 80 miliardi di euro in sussidi e 160 in prestiti con garanzia statale. L’effetto dovrebbe essere una crescita di quasi 4,8% nel secondo trimestre di quest’anno, contro il 2,7% dell’Italia.

Un terreno su cui Macron ha poi tenuto la barra dritta è quello europeo, cifra distintiva del leader di En Marche fin dagli esordi. In un discorso tenuto a La Sorbona nel 2017, appena insediato, il neo presidente aveva chiaramente esposto la sua visione per l’Europa, condensabile in un unico termine: sovranità. Un caposaldo rimasto immutato in questi quattro anni, lasciandosi alle spalle ancora una volta Le Pen, alle prese con l’ennesima giravolta che l’ha vista nascondere sotto il tappeto i suoi appelli precedenti per una «Frexit».

«L’europeismo resta molto importante per Macron. Basti ricordare che la Francia ha spinto per avere il Recovery plan, nonostante ne sia un contributore netto» spiega Francesco Maselli, corrispondente del quotidiano francese L’Opinion. «Nei prossimi mesi il presidente insisterà molto anche sull’autonomia strategica europea, soprattutto ora che si è verificata la crisi dei sottomarini con l’Australia. In generale perseguirà da un lato una maggiore integrazione tra istituzioni nazionali ed europee, dall’altro un maggiore protagonismo francese nella gestione comunitaria».

E l’autonomia strategica parte dalla dimensione militare. Se non un esercito europeo, il sogno proibito, almeno una politica di difesa comune. In primo luogo, per liberare il continente dalla dipendenza americana, la cui relazione con Parigi è di insofferenza reciproca. Con Macron che due anni fa decretava il rischio di «morte celebrale» della Nato, e Washington che un mese fa ha giocato il ruolo del grande burattinaio dietro l’annullamento da parte dell’Australia della commessa miliardaria per l’acquisto di sottomarini nucleari prodotti in Francia.

In secondo luogo, una difesa europea permetterebbe al Paese d’Oltralpe di avere le spalle coperte sullo scenario geopolitico, dove nutre ambizioni oltre i propri mezzi nazionali. Come nel Sahel, retaggio coloniale dalla decolonizzazione incompiuta, in cui Parigi si spende da anni con scarso successo e larga spesa, economica ma anche di vite umane, per stroncare le filiali locali di Al-Qaeda e Stato islamico.

Perché l’Europa che Macron sogna è unita sì, ma sotto guida francese. E se finora Parigi ha dovuto condividere il timone col vicino tedesco, economicamente più rilevante, oggi può sognare la vetta con l’uscita di scena della grande protagonista Angela Merkel. A prescindere dalla composizione della futura coalizione di governo al Bundestag, nessuno dei leader di partito avrà una posizione a Bruxelles salda come il presidente francese. Ma l’insidia si nasconde proprio nell’attesa che il nuovo esecutivo teutonico prenda forma, e in soccorso potrebbe arrivare proprio l’Italia.

Mario Draghi, altro europeista di ferro, ha incontrato Macron a Marsiglia durante la visita di inizio settembre. Cautela invita però a non illuderci di prendere il posto di Berlino. A essere più realisti del re-presidente, ci si potrebbe ritrovare vassalli.

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