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Il covid insegna: federalismo meglio dello Stato centrale (bizantino)

Il covid insegna: federalismo meglio dello Stato centrale (bizantino)

Dal 2011 si rinvia la legge sull’autonomia fiscale e nell’attuale discussione sulla manovra c’è il concreto rischio che la sua attuazione si rinviata nuovamente. Uno scenario che mostra le difficoltà di tutte le forze politiche nello spingere il sistema verso un maggiore regionalismo. Eppure mai come adesso in tempi di Dpcm servirebbe. Da Palazzo Chigi si dispongono orari, chiusure, spostamenti, contatti sociali e famigliari che caratterizzano la vita degli italiani. Siamo di fronte a un bizantinismo giuridico e a un centralismo della peggior specie.


Dal 2011 si rinvia la legge sul federalismo fiscale e nell’attuale discussione sulla manovra c’è il concreto rischio che la sua attuazione si rinviata nuovamente al prossimo anno. Uno scenario che mostra le grandi difficoltà di tutte le forze politiche nello spingere il sistema verso una maggiore autonomia delle Regioni. La pulsione centralista è sempre forte per i partiti italiani e lo è ancora di più in uno stato di emergenza come quello che viviamo da oltre un anno. Allargando la prospettiva, i decreti-leggi e i Dpcm di Conte mostrano un processo di accentramento costante sia rispetto ai territori che rispetto al Parlamento. Da Palazzo Chigi si dispongono orari, chiusure, spostamenti, contatti sociali e famigliari che caratterizzano la vita degli italiani. Siamo di fronte ad un bizantinismo giuridico e ad un centralismo debole della peggior specie. Davvero c’era bisogno di tante e tali regole dettate dal governo? Non mancano gli effetti nefasti. Si attenta alla legittimità del diritto con regole cangianti, incerte, artificiali. Una Repubblica sommersa di leggi, ma senza un pieno Stato di diritto e con un capitale di fiducia tra potere e cittadini oramai eroso. D’altronde, quale cittadino può fidarsi di un sistema costruito per scacciare la responsabilità? Dai tempi di Plutarco il rendiconto da parte della classe politica verso i cittadini viene considerato un perno fondamentale del buongoverno, ma in Italia esso viene mascherato dal paternalismo ed evitato attraverso il legalismo. C’è poi il controverso rapporto con le Regioni, che mostra un paese incapace di valorizzare il pluralismo e le differenze territoriali ma che allo stesso tempo non riesce a superarle con un centralismo forte, come quello francese ad esempio. Il risultato sono territori mortificati ed uno Stato che non funziona. Questa crisi pandemica lascia molto su cui riflettere nei rapporti tra governo locale e centrale. Molti, ad esempio, invocano una nazionalizzazione del sistema sanitario, ma non v’è certezza che sia la strada giusta. Ad esempio la pluralità di strategie adottate dai diversi sistemi regionali ad inizio pandemia ha mostrato quale modello potesse funzionare meglio, una possibilità che sarebbe venuta meno con una centralizzazione totale del sistema. Gli stessi governatori, grazie al contatto più diretto con il territorio e con gli ospedali, hanno capito prima di Roma la gravità della situazione, anticipando alcune mosse poi seguite dal governo.

Sul piano costituzionale le debolezze del Titolo V, con competenze sovrapposte ed incapacità impositiva delle regioni, sono già note. Sul piano della discussione politica, invece, ci si ferma sempre alla lamentela superficiale e alla cinica presa d’atto che le istituzioni non funzionano e nulla si possa fare per rimediare. Paradossale, per altro, è il ritorno della province in queste pandemia, ancora utilizzate come metro geografico e comunitario utile dopo essere state formalmente abolite in nome della lotta alla casta. In molti si sono accorti come questo ente intermedio avrebbe potuto rivestire un ruolo più importante anche delle Regioni, se non avesse subito l’ordalia dell’antipolitica. Il federalismo, dunque, fiscale ed istituzionale giace dimenticato, mentre al governo ci sono una forza a trazione meridionalista e centralista come il Movimento 5 stelle ed un “partito dello Stato” come il PD. Uno scenario che non lascia presagire la possibilità di una qualche evoluzione in tal senso.

Eppure nella sua lunga storia il Paese ha avuto grandi federalisti tra i suoi migliori, eccentrici ed eretici pensatori. Da Carlo Cattaneo a Marco Minghetti, da Adriano Olivetti a Gianfranco Miglio, da Sergio Ortino a Geminello Alvi. Tutti consapevoli che l’Italia ha dentro di sé molti Paesi che possono svelarsi nel raggio di pochi chilometri e che sono così ricchi e diversi da impedire la formazione di uno Stato centrale efficace e funzionante. Meglio allora abbandonare l’illusione francese, quella di costruire una nobiltà di Stato ed un centralismo potente, per costruire una repubblica federale e mediterranea. Non sono soltanto le geografia e la storia antica a parlare, ma anche quell’Italia moderna dei Comuni e delle Signorie, ancora oggi così influenti nel disegno delle nostre città e nella nostra idea di cultura. Anche la costruzione di sistemi politici asimmetrici è il segnale del particolarismo italiano. Un sistema maggioritario e di fatto presidenziale è apparso sopportabile alla popolazione italiano sul piano cittadino e regionale, ma non su quello nazionale dove si è preferito mantenere una segmentazione di interessi maggiore con il parlamentarismo, per evitare eccessive concentrazione di poteri al centro. Oggi la nostra democrazia, già molto vincolata dall’esterno dall’Unione Europea ed influenzata dai nuovi legami della globalizzazione, sconta un grave deficit di controllo politico dei cittadini sul parlamento ed il governo nazionale. I parlamentari eletti non esistono sul territorio e si prestano a continui cambi di fronte, il governo è oramai il vero legislatore, la burocrazia non risponde alle esigenze della società e assume posture dirigiste. Ciò che resta all’Italia sono i territori: quartieri, città, province, regioni dove albergano gli ultimi scampoli di società civile e di rapporto tra eletti ed elettori. Non resta che valorizzarli attraverso il principio di sussidiarietà e con una riforma federale, fiscale ed istituzionale, che stimoli la responsabilità, la competizione ed il rendiconto verso gli elettori-contribuenti. Un potere senza volto, al contrario, è nemico della libertà e del pluralismo.

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