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Il Referendum che dice sì all’eutanasia, ma non risolve il vuoto di legge

Il Referendum che dice sì all’eutanasia, ma non risolve il vuoto di legge

La raccolta di firme a favore della «morte volontaria medicalmente assistita» ha già toccato quota 750 mila. Ma la Corte costituzionale, con i suoi pronunciamenti, ha già stabilito precise linee-guida per i casi più gravi di patologie. E in mancanza di una norma organica decisa dal Parlamento, il rischio è di legalizzare forme non controllate di aiuto al suicidio.


La polemica cova sotto la cenere, pronta a divampare. Il 25 agosto, in meno di due mesi, il referendum sull’eutanasia ha superato la soglia delle 750 mila firme e punta al risultato del milione di adesioni entro il 30 settembre, termine legale della raccolta. Almeno per ora, però, se si escludono il Vaticano che è fermamente contrario all’iniziativa e pochi importanti giuristi che hanno mostrato gravi perplessità, nessuno sembra essersi accorto della campagna che dal primo luglio punta ad abrogare in più punti l’articolo 579 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 6 a 15 anni «chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui», cioè l’omicidio del consenziente.

A sostenere la campagna referendaria è un fronte composito, che nella società civile mette assieme l’Associazione Luca Coscioni e l’Associazione avvocati matrimonialisti, più una galassia di grandi e piccole sigle, tendenzialmente di sinistra (dall’Arci a Democrazia atea, fino alle Sardine), e a livello politico raggruppa i Radicali italiani, +Europa, il Partito liberale e quello socialista. Il «front man» dell’organizzazione e della propaganda è Marco Cappato, il tesoriere dell’Associazione Coscioni che nel dicembre 2019 è stato assolto con formula piena dall’accusa di aver partecipato attivamente al suicidio di Fabiano Antoniani (in arte Dj Fabo), il quale era affetto da tetraplegia e cecità per un grave incidente stradale e aveva deciso di togliersi la vita ricorrendo a una delle società della «buona morte» legalmente attive in Svizzera.

Grazie all’abile «taglia-e-cuci» giuridico degli organizzatori, se il referendum dovesse passare, la cosiddetta eutanasia attiva sarebbe consentita anche in Italia, e resterebbe punita soltanto se commessa contro tre categorie di soggetti: gli incapaci d’intendere e di volere, le persone il cui consenso sia stato estorto con violenza e/o minaccia, e i minori di 18 anni.

Per sostenere le ragioni del referendum, i promotori si fanno forti di una pronuncia della Corte costituzionale del novembre 2019, che di fatto ha aperto la strada all’eutanasia, anche se con infinita prudenza. La Consulta, in effetti, ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 580 del Codice penale, che sanziona non l’assistenza al suicidio (di cui tratta l’articolo 579), bensì l’istigazione al suicidio. L’articolo 580 prevede che «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni». Nel novembre 2019 i supremi giudici hanno dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 580 perché non ammette la possibilità di dare aiuto «a chi abbia deciso autonomamente e liberamente» di porre fine alla propria vita.

Con la loro pronuncia, i giudici costituzionali hanno quindi stabilito una limitata libertà di eutanasia, possibile – come nel caso di Dj Fabo – soltanto se viene somministrata a una persona che sia pienamente capace di prendere «decisioni libere e consapevoli», che sia stata colpita «da patologie irreversibili oppure da intollerabili sofferenze fisiche e/o psicologiche», e che sia tenuta in vita esclusivamente da trattamenti di sostegno vitale. Per accrescere le garanzie e per evitare ogni tipo di abusi, oltre a questo quattro circostanze la Consulta ha stabilito che le condizioni e le modalità di esecuzione del suicidio assistito debbano essere «preventivamente verificate da una struttura del servizio sanitario pubblico», e hanno aggiunto per sovrapprezzo anche la necessità del parere favorevole del Comitato etico territorialmente competente.

Quasi un anno prima di pronunciarsi sull’articolo 580, nell’autunno 2018 la Corte aveva anche raccomandato al Parlamento di legiferare tempestivamente sulla materia, ma la politica ha fatto ben poco, e quella richiesta fin qui è rimasta senza alcuna risposta: soltanto lo scorso 6 luglio le commissioni congiunte Affari sociali e Giustizia della Camera hanno approvato il «testo base» di una proposta normativa che ha unificato cinque diversi disegni di legge, a loro volta presentati da deputati del Partito democratico, di Liberi e uguali, del Movimento 5 stelle, del Gruppo misto e della Lega (molto più restrittivo degli altri). Il testo unitario, alla fine, ricalca in molte parti le prudenti logiche della sentenza della Consulta, e potrebbe essere la base per arrivare a una norma il più ampiamente condivisa sulla «morte volontaria medicalmente assistita».

Sull’eutanasia, peraltro, la politica non soltanto è in ritardo, ma ha dato prova di estrema inconcludenza. La prima proposta di legge in materia risale addirittura al 1984: a presentarla, 37 anni fa, era stato, l’ex ministro Loris Fortuna, l’autore della legge sul divorzio. Il problema è che, pur se il Parlamento finalmente sembra essersi svegliato, il referendum corre però molto più velocemente, anche perché – per la prima volta nella storia italiana – da metà agosto le firme vengono raccolte anche online. Tant’è che Cappato ormai vede la vittoria a portata di mano: «Il dibattito sull’eutanasia legale è maturo», dice, «e non c’è sondaggio che indichi meno del 60 per cento di favorevoli alla nostra proposta».

In realtà il referendum sull’eutanasia ha anche avversari importanti, e per questo è facile prevedere che già nelle prossime settimane si accenderanno notevoli polemiche. Il Vaticano ha già espresso la sua più ferma opposizione: «C’è la tentazione di una nuova forma di eugenetica», ha dichiarato monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita «e prevale un’errata, nuova concezione salutistica per la quale chi è nato e non è sano deve morire».

La Conferenza episcopale italiana, da parte sua, ha manifestato «grave inquietudine» per la rapidità con cui cresce il consenso di firme al referendum: «Chiunque si trovi in condizioni di estrema sofferenza», hanno ammonito i vescovi, «va aiutato non a eliminare la propria vita, ma a gestire il dolore e a superare angoscia e disperazione. Scegliere la morte è la sconfitta dell’umano: è la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista, in cui non trovano più spazio né la speranza, né le relazioni interpersonali».

A dubitare dell’esito finale dell’abrogazione non è soltanto la Chiesa: anche ambiti laici manifestano dubbi intensi, e giuristi di diverso orientamento. Forti perplessità mostra per esempio Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia di Romano Prodi, a metà degli anni Novanta, e poi tra il 2008 e il 2009 presidente della Corte costituzionale: «La sentenza della Consulta chiedeva al legislatore d’intervenire con puntualità sull’articolo 580 e su una parziale depenalizzazione dell’aiuto al suicidio», sottolinea Flick, «ma il quesito referendario di fatto liberalizza l’omicidio del consenziente.

Questo rischia di creare una contraddizione non da poco, perché se passasse il referendum ci troveremmo nella situazione per cui chi uccide una persona maggiorenne e cosciente di sé che glielo chiede, anche in buona salute, non rischia il carcere; mentre rischierebbero le sanzioni previste dall’articolo 580 sull’aiuto al suicidio un medico o un familiare stretto o un amico che procura il farmaco letale a una persona che non si trova nelle quattro condizioni indicate dalla Consulta». Per tutto questo, Flick dice che «il tentativo referendario pone le basi di nuove ambiguità, nuove contraddizioni e nuove difficoltà interpretative in sede giudiziaria e costituzionale».

Ancora più netto, se possibile, è Luciano Violante, già magistrato, poi parlamentare del Partito comunista e presidente della Camera, infine docente di diritto pubblico: «Il referendum», dichiara, «liberalizza ogni forma di omicidio del consenziente, anche se è determinato da una depressione, da un fallimento finanziario, da una delusione sentimentale, da una momentanea fragilità psichica, e anche se viene commesso con mezzi violenti». I ragionamenti di Violante scavano ancora più profondamente nell’inquietudine dei nostri tempi: «Quale sarà il destino dei malati vecchi e poveri», si domanda, «in una società che invecchia, con una sanità costosa, dove sia possibile sopprimere chiunque lo consenta?».

Da sinistra, quindi, Violante teme, sembra concordare con l’allarme eugenetica che proviene dalla Chiesa. Altri giuristi sostengono poi che il referendum non risolverebbe la delicata questione del «come» dovrebbe essere dimostrato, concretamente, il consenso dell’aspirante suicida. Le poche sentenze che hanno applicato finora l’articolo 579 del Codice penale si limitano a sottolineare che la volontà di essere uccisi deve essere «seria, esplicita, non equivoca e perdurante sino al momento della commissione del fatto», oltre che provata in maniera «chiara, univoca e convincente».

Sulle modalità con cui esprimere il consenso però non esiste alcuna norma, e l’approvazione del quesito referendario non riempirebbe la lacuna. Se il quesito passasse il vaglio della Consulta e della Cassazione si andrebbe a un voto popolare nella tarda primavera del 2021. Sull’eutanasia, però, sarebbe decisamente più saggio restituire la parola alla politica, al Parlamento. Non che deputati e senatori di questa legislatura abbiano dato prova di grande saggezza, va detto. Ma questioni complesse come quella dell’eutanasia non possono essere risolte con l’accetta. Per questo, inevitabilmente, la polemica cova sotto la cenere. Ed è pronta a divampare, forse con grave ritardo.

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