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Europa separata e in bolletta

Europa separata e in bolletta

Mentre l’Italia conta il gas che le rimane e il prezzo della luce è fuori controllo, tante imprese sono allo stremo. Si prevedono 10 milioni di persone alla fame. Ma nell’Europa «casa comune» si va in ordine sparso.


Uno spettro si aggira per l’Europa, etereo e mortale come una nube di gas. Lo stanno imparando a loro spese gli italiani. È nato il movimento «non pago» animato da artigiani, partite Iva, famiglie che hanno già inscenato nelle piazze, da Torino a Palermo, il falò delle bollette. Ma è un fuoco fatuo. Non scalda ed evoca il fantasma più terribile: la povertà. La stima è che in Italia arriveremo a 10 milioni di persone sotto i livelli di sussistenza, mentre si infoltiscono le file alle mense della Caritas. Sembrano tornati i giorni del Covid, ma le code sono più lunghe, più meste. La seconda manifattura d’Europa è appesa a un filo di gas.

Non è però una maledizione biblica, neppure uno tsunami. La corsa dei prezzi del metano e dell’elettricità è cominciata nel secondo semestre di un anno fa, Vladimir Putin se ne stava ancora nella dacia. Il risveglio post pandemico del mondo chiedeva energia, tanta. Noi attoniti, come nei molti anni prima, siamo rimasti a guardare: senza nucleare, con poco eolico, con un solare disordinato e tempi biblici d’installazione, con i tubi del gas che portavano oltre il 40 per cento di ciò che ci serve dalla Siberia e con oltre metà dell’energia elettrica fatta col metano, ma non il nostro, quello presente in Adriatico e di cui approfittano (giustamente) i croati, perché abbiamo smesso di trivellare e pompare.

Ci ha rassicurato il ministro della transizione energetica Roberto Cingolani (pare si sia pentito di aver accettato il dicastero) che per l’inverno siamo a posto: abbiamo stoccaggi per il 90 per cento. Dopo 24 ore Claudio Descalzi, l’a.d. dell’Eni che vuol dire la quasi totalità del gas usato in Italia, afferma: speriamo di far arrivare un po’ di metano dalla Russia sennò non ce la facciamo. Intanto c’è già chi non ce la fa più. Per Confartigianato il caro-energia mette a rischio 881.264 micro e piccole imprese con 3.529.000 addetti, pari al 20,6 per cento dell’occupazione del sistema imprenditoriale italiano. Il Cerved, che valuta la sostenibilità finanziaria, vede il rischio fallimento per 100 mila aziende, la Confcommercio stima 120 mila chiusure, secondo Confindustria salteranno 46 mila piccole e medie imprese e c’è un quinto del sistema industriale che non si rialzerà. A conti fatti sono 3 milioni di posti di lavoro che evaporano.

Saltano anche le utilities, le società che distribuiscono gas ed energia. In fallimento ce ne sono già 70, la domanda alla Snam di occupazione dei tubi è sotto il 70 per cento, vuol dire che non sono stati rinnovati contratti di fornitura. Il ministro dell’Economia Daniele Franco ha riscritto il documento della Nadef e prevede una crescita dello 0,6 per cento del Pil (dal 2,4 che era). Lo stesso Mario Draghi vede tre trimestri consecutivi di recessione. Il 5 aprile apostrofava gli italiani: «Volete la pace o i condizionatori accesi?». Forse non si era reso conto che la minaccia di Putin sul gas era seria.

Il premier ha avanzato invano la richiesta del price cap al metano sperando nella solidarietà europea e siamo arrivati a 60 miliardi impegnati per tentare di fermare la corsa del gas con le mani. Le bollette corrono impazzite. E l’Arera, l’Autorità da cui dipendono i prezzi, avverte che per gas ed elettricità si arriverà al raddoppio di tariffe già folli. Al ministro Cingolani non è rimasto che provare a convincere l’Europa almeno a cambiare mercato per la contrattazione. Ursula von der Leyen – presidente della Commissione che ha la doppia colpa di aver insistito sul Green deal pur in costanza della crisi energetica e di non aver fatto nulla per predisporre un piano energetico credibile – balbetta di nuove sanzioni alla Russia, ma non torna indietro. A chi vorrebbe chiudere – l’Italia e altri 14 Paesi – la Borsa di Amsterdam, dove si tratta il TTF speculativo sul metano, risponde picche.

Quel mercato fu voluto nel 2003 da Romano Prodi quando era presidente della Commissione europea per rafforzare l’euro e far alzare il prezzo del gas in modo da render un po’ più competitive le energie rinnovabili. Così Von der Leyen manda a dire al parlamento di Strasburgo: «Gli operatori del mercato si aspettano che i prezzi dell’energia rimangano elevati per il resto del 2022 e fino al 2024-2025. […] Si teme inoltre che gli interventi nella formazione dei prezzi possano aumentare la domanda di gas nell’Ue, compromettendo la transizione energetica e gli obiettivi del Green deal europeo e minando la sicurezza dell’approvvigionamento nell’Unione». Quanto al possibile debito comune contro il caro energia la risposta arriva dal ministro delle finanze tedesco Christian Linder: «Di fare interventi comuni non se ne parla. C’è solo un problema del mercato del gas». Che Mark Rutte, premier olandese, difende a spada tratta. È il primo a rompere il fronte europeo: con la Borsa di Amsterdam guadagna miliardi. Ad abbassare il prezzo si oppone anche la Norvegia che non aderisce all’Unione ed è il nostro primo fornitore di gas: ha un surplus commerciale da inizio anno di 80 miliardi e aumenta di ora in ora. È davvero un’Europa che va in ordine sparso: il vertice tra i ministri energetici e l’Eurogruppo (si è tenuto il 6 e 7 ottobre a Praga) non ha fatto altro che rinviare le decisioni, «aspettando che Godot» (la Commissione) trovi un modo per costruire un’intesa comune.

L’appuntamento è per il 20 ottobre, data dell’ultimo Consiglio europeo a cui partecipa Draghi. È probabile che anche di fronte alla concreta possibilità di una recessione lunga e dura in Europa – l’inflazione a due cifre, la Bce che alza ancora i tassi deprimendo il ciclo economico – sul gas non ci sarà alcun accordo. La ragione? Semplice. Mentre il Covid poteva colpire tutti, la crisi energetica è un’occasione d’incremento di competitività per qualcuno, Germania docet. Magari in bolletta, ma separati. Una prova evidente l’hanno data Spagna e Portogallo. Il price cap se lo sono fatti in casa fiscalizzando la differenza di prezzo tra bollette e acquisto. Si stanno svenando ma il primo ministro Pedro Sánchez non molla. Del resto lui ha gas africano e non russo e una buona dose di rinnovabili.

Chi ha scelto una strada simile è il presidente francese Emmanuel Macron. Intanto ha totalmente rinazionalizzato EDF (Electricité de France), mettendo sul piatto 10 miliardi di euro, e ci ha piazzato un suo uomo, Luc Remont. Poi ha posto un tetto al rincaro delle bollette: oltre il 15 per cento non si va. Tanto l’energia è comunque un affare di interesse nazionale. Ha fermato temporaneamente le centrali nucleari e smesso di vendere l’elettricità all’Italia, poi ha fatto un patto con la Germania per un scambio: gas da Parigi e «luce» da Berlino. C’è rimasto un po’ male quando Olaf Scholz ha messo 200 miliardi sul piatto del «calmiere tedesco», ma non più di tanto. Inoltre la Francia ha ripreso le esplorazioni alla ricerca di metano.

A rompere il fronte europeo è anche Viktor Orbán, che ha siglato un accordo diretto tra Gazprom (il gigante russo) e la sua MVM (la società ungherese di Stato). Il premier di Budapest ha ottenuto certezza di fornitura, un prezzo fisso del gas dai russi e una dilazione nei pagamenti. La stessa intesa l’ha siglata Recep Tayyip Erdogan. Il dittatore turco ha rotto il fronte Nato e ha siglato un patto con Gazprom per avere tutto il gas che gli serve: il 25 per cento lo paga in rubli e la prima rata scatta nel 2024. Così Ankara recupera competitività.

È manifesto che la lettera dei famosi 15 Paesi – Italia compresa – che chiedono all’Europa il price cap sia carta straccia. Draghi ha fatto la faccia feroce con i tedeschi per il loro maxi piano con cui la Germania finanzia in parte anche il trasferimento di sue imprese in luoghi dove l’energia costa meno rompendo la catena di subfornitura con l’Italia (la Volkswagen lo sta già facendo e per la nostra componentistica sono dolori), ma non è andato oltre. Il nostro piano energetico peraltro assomiglia tanto a quello anti-Covid: termosifoni spenti e vigile attesa. Ma Ursula von der Leyen non è la monaca di Monza ed è probabile che la «sventurata non risponda». n

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