Tassa di successione per i diciottenni, legge sullo ius soli, retorica del partito di popolo e non di potere… La surreale strategia di Enrico Letta per far implodere il suo Pd.
L’incondizionata resa arriva a pagina 35: «Il Pd che voglio costruire deve saper unire anima e cacciavite, riconoscersi ed essere riconosciuto come progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti. Ma che significa?». Stavolta Enrico Letta ci ha tolto le parole di bocca. Il suo manifesto programmatico è stato appena dato alle stampe e già pone insondabili dilemmi. Titolo del libro: Anima e cacciavite. Centosettantadue paginette. Piene di ardite metafore e scoppiettanti intenti che, una riga dopo l’altra, non smettono di rincorrersi.
In ossequio alla migliore tradizione della sinistra italiana, anche il nuovo segretario del Pd ha sentito l’insopprimibile urgenza di pubblicare. Il compianto predecessore, Nicola Zingaretti, titolò la sua ultima fatica letteraria con una canzone di Lucio Dalla: Piazza grande. Matteo Renzi ha scelto esortazioni: come Fuori! o Adesso!. Walter Veltroni, dotato di inesauribile vena narrativa, s’è tenuto sul vago: Ciao, Quando, Noi. Infine, è arrivato l’immaginifico Letta. Cuore e utensili. Un sognatore pragmatico: non si limita a far attraversare la strada alle vecchiette, ma si offre anche di riparare il lavello. «L’anima e il cacciavite vanno usati insieme per far rinascere la speranza nel nostro Paese» recita la sinossi del libro pubblicato da Solferino, casa editrice del Corriere della sera, il quotidiano dove lavora la moglie, Gianna Fregonara, conosciuta ai tempi in cui lei era una brillante cronista parlamentare. L’opera viene pubblicizzata ovunque: a partire dalla prima pagina del quotidiano milanese. Ed Enrichetto guadagna perfino la copertina di Sette, il magazine della casa.
Nonostante gli sforzi, il saggio sembra arrancare. L’interessato fuoco di fila del gruppo di Urbano Cairo, almeno per ora, non ha dovuto transennare le librerie onde evitare l’assalto dei lettori. Proprio mentre Io sono Giorgia, sottinteso Meloni, alla guida dell’antitetica Fratelli d’Italia, scala le classifiche e guadagna insospettabili favori.
La sfortunata parabola del libro esemplifica quella dell’autore. A tre mesi dalla sua plebiscitaria designazione, è già SottiLetta: sondaggi vicini ai minimi storici, ruolo residuale nel governo, partito a rischio implosione. Da moderato a massimalista, da timorato a panzer, da uomo di relazioni a impavido difensore degli oppressi. In un esecutivo con un monarca assoluto, Mario Draghi, il segretario del Pd è avvinto dall’eterno dilemma morettiano: «Mi si nota di più se…». Ha così deciso la svolta identitaria, rovesciando il celebre motto di Pitigrilli: da pompiere è diventato incendiario. Pena l’oblio.
Del resto, aveva avvertito. Stavolta si fa sul serio. Non basta una rotta diversa, informa nel volumetto. Serve proprio «un’altra bussola». Dunque? Interpretando mirabilmente ancora una volta le fatiche del lettore, dettaglia: «Significa battersi per i diritti, quelli che vogliamo difendere con il ddl Zan, quelli dei lavoratori sfruttati, quelli dei bambini che vogliamo tutelare con una nuova legge sulla cittadinanza». Per farlo, Letta promette di tralasciare il «ritorno elettorale»: insomma, aveva perfino garbatamente avvertito del probabile sfacelo. Il Pd, nelle rilevazioni demoscopiche, è attorno al 19 per cento, superato da Fratelli d’Italia. E il centrodestra soverchia il centrosinistra, allargato ai Cinque stelle, di una decina di punti. Conclusione: Giorgia surclassa Enrico. Ovunque: sia in libreria che nelle intenzioni di voto. Quella che conta è la «dignità», scrive il leader dei democratici. Soprattutto tentare la più eroica delle missioni: trasformare il Pd da «partito del potere» a «partito di popolo».
Impresa erculea. SottiLetta però non s’è perso d’animo. Un colpo fragoroso l’ha esploso con la scoppiettante proposta di dare una dote di 10 mila euro alla metà dei diciottenni, definiti lugubremente «generazione Covid», finanziata con una tassa di successione sui patrimoni superiori ai 5 milioni di euro. «Non ne abbiamo mai parlato. Non l’abbiamo mai guardata. Non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli» replica Draghi.
Del resto, la maxipaghetta ai maggiorenni può davvero persuadere qualcuno a non lasciare l’Italia, come sogna Enrichetto? Il sottaciuto è meno nobile. Assomiglia a quello del fallimentare reddito di cittadinanza voluto dai grillini: allargare gli agonizzanti consensi tra i giovani del Pd, soprattutto al Sud. Assistenzialismo mascherato da ardore per le nuove generazioni? Di sicuro, la proposta è stigmatizzata perfino a sinistra.
Poco importa. Emancipare i giovani è l’ossessione lettiana. Assieme alla valorizzazione del gentil sesso, ovvio. Così, alla prima occasione, ha reso chiara l’antifona. Bisogna decidere il candidato sindaco a Roma, sua città adottiva, guidata dalla quarantaduenne Virginia Raggi? Ecco l’ideona: avanzi l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, classe 1966 come Letta, dunque un virgulto. E a Torino, dov’è in scadenza la trentaseienne Chiara Appendino? Le primarie si risolveranno un’appassionante sfida a quattro: tutti uomini. Il riscatto generazionale doveva quindi passare dalla Calabria. S’era candidato alla presidenza Nicola Irto, baldo trentanovenne, scelto da militanti e segreteria regionale. Una settimana fa, ha gettato la spugna: «Il Pd è ancora in mano a piccoli feudi».
Niente giovani. E niente donne, in perfetta sincronia con l’incoerenza che regna in Europa. A destra, tacciata di maschilismo, prosperano leader come Marine Le Pen in Francia, Isabel Díaz Ayuso in Spagna e Meloni in Italia. Mentre a sinistra il potere, quote rosa a parte, resta saldamente in mano ai supermaschi progressisti del continente. A partire da Letta. Che, sempre nel suo saggio-manifesto, sventola altissima pure «la nostra battaglia per l’integrazione». Lo ius soli, quindi. Rilanciato perfino nel discorso dell’investitura. Il 14 marzo 2021, di fronte all’assemblea nazionale, ammette: «Ho ricevuto tante critiche». Si possono riassumere nel generalizzato cruccio: mentre il mondo s’è fermato, bisogna davvero ripartire dalla cittadinanza ai figli degli immigrati? «Come se potesse esserci un legame tra queste differenti priorità…» spiega però Enrichetto ai faciloni.
Così, è diventato il più antisalviniano in circolazione. Per definire un’identità serve un nemico, gli suggeriscono gli strateghi. E chi meglio del leghista? È finito addirittura a processo, con l’accusa di sequestro di persona, per i 147 migranti rimasti per giorni a bordo della Open Arms. Il leader del Pd, un mese dopo il suo insediamento, si fa quindi fotografare sornione in compagnia di Òscar Camps, fondatore della Ong spagnola. Indossa persino una felpa con il logo della nave: alla Salvini, insomma.
Certo, sotto s’intravede la solita camicia azzurrina e la cravatta a pallini. Dettagli. Per la sinistra più radicale, quella che teorizza l’accoglienza a ogni costo, è l’apoteosi. Incessante pure l’impegno sul ddl Zan: da approvare subito, così com’è, senza tentennamenti, presto che è tardi. Ma è notevole per tempismo anche la proposta sul sacerdozio femminile.
Insomma, Draghi rimarca le sue priorità: pandemia, lavoro, Recovery plan, grandi opere, semplificazione, riforma della giustizia. Il Pd rilancia: patrimoniale, ius soli, guerra alla omotransfobia. Difatti, a sorpresa, la palma di fidi governisti va ormai dalla Lega, quasi sempre in perfetta sintonia con il premier. E tra i ministri in quota democratica, il preferito di Palazzo Chigi rimane Lorenzo Guerini, alla Difesa: non a caso, il meno lettiano della compagine. Mentre, dopo i personalismi sulla proroga al blocco dei licenziamenti, crescono le perplessità su Andrea Orlando, titolare del Lavoro, uno degli ortodossi a prescindere.
Pure il partito è già imploso, tramortito dalle intemerate del segretario. Basta correnti, aveva giurato. Invece, continuano a proliferare. L’ultima è Le Agorà di Goffredo Bettini, consigliori di Zingaretti e architetto dell’alleanza giallorossa, che ovviamente si premura di avvertire che la sua è solo «un’area di pensiero plurale».
La più agguerrita è Base riformista di Guerini, Luca Lotti e Andrea Marcucci, ex capogruppo al Senato deposto senza complimenti. Insomma: le correnti, mal contate, sarebbero almeno 13. Tutte alla ricerca di micropoteri, in rappresentanza microcorpi elettorali. Eppure il segretario continua a godere di ottima stampa. Il Corriere è pancia a terra.
E Repubblica non osa infierire. Il direttore, Maurizio Molinari, condivide con il segretario dem l’appartenenza alla Trilaterale, think tank fondato dallo scomparso multimiliardario David Rockefeller. E della commissione fa parte anche Monica Maggioni, presidente della Rai. Letta adora le metafore calcistiche. Ecco: lui doveva essere il Ronaldo dei democratici, rientrato a giocare in patria a furor di popolo. Ricordate? Il governo Draghi nasceva. E lui, dal buen retiro accademico parigino, nicchiava. Nell’intervista a Sette racconta: «Quando sono arrivato sotto casa, ho trovato le telecamere ad aspettarmi… Lì ho ancora avuto la tentazione di dire al tassista di tornare indietro. Poi ho pagato la corsa e sono sceso».
Ha gettato il cuore d’oro oltre l’ostacolo. Lui, forse, non se n’è ancora pentito. Gli altri, che già rimpiangono Zingaretti, sì. Eppure aveva lasciato un bel ricordo. Lo ricordavano come un brav’uomo. Dialogante e rispettoso, perfetta incarnazione del suo velenosetto soprannome: «Nipotissimo». Di Gianni Letta, chiaramente. L’«eminenza azzurrina», per dirla con Dagospia. Quintessenza del potere berlusconiano: felpato, curiale e sornione. Qualche anno fa, Enrichetto confessa: «Ricorderò sempre il giorno in cui capii che avrei fatto politica. Ero andato a Roma per trascorrere la Pasqua con lo zio Gianni. Erano i giorni del rapimento Moro, e lo zio, insieme a mio padre, portò me e mio cugino in via Fani. Quel giorno capii che per le proprie idee si può arrivare a dare la vita. Avevo 12 anni».
Letta junior ha mutuato modi zieschi, anche se per una fulminante carriera sulle opposte sponde democratiche. Ministro giovanissimo: a 32 anni. Poi ininterrottamente sulla breccia. Infine premier, deposto dal perfido Matteo Renzi. Dunque, l’esilio accademico in Francia: dal 2014 allo scorso marzo.
Un periodo raccontato come paradisiaco, lontano dagli sporchi giochi di potere che l’avevano fatto fuori. Invece l’«Enrico stai sereno» sibilato da chi gli preparava la festa deve aver continuato a scavare. E quella campanella, passata all’ex Rottamatore durante le consegne a Palazzo Chigi, deve aver seguitato a risuonare. Il periodo transalpino ha trasformato un ossequioso giovane vecchio, erede dell’ancor più moderato Beniamino Andreatta, in un massimalista. «Tutta tattica», dicono al Nazareno. «Sbagliata» aggiungono sospirando, sfogliando i disastrosi sondaggi.
Enrichetto però continua con le mandrakate. Anche se il suo eroe preferito resta Dylan Dog. «Mi piacerebbe essere lui» rivela anni fa a Vanity Fair. «Ha parecchio successo con le donne. E lei come è messo?» gli domanda allora l’intervistatrice. «Beh, insomma… Diciamo che ho fatto la mia parte».
Ma il suo magnetismo non pare incantare gli italiani. Il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, già si scalda a bordo campo. Un’altra metafora calcistica. Però la più amata dal segretario resta: «La politica è come il Subbuteo. Chi ha la mano pesante perde». Ma il tempo passa per tutti. E anche SottiLetta dev’essersi dimenticato del suo motto preferito.