Le prossime amministrative saranno l’occasione di una sfida finale un po’ in tutti i partiti. Soprattutto nel Pd, devastato da crisi interne, mazzette europee, scandali assortiti e sorpassi da parte dei 5 Stelle. Ma anche nel centrodestra, così come nel Terzo polo, lo show promette avvincenti sorprese…
L’unica certezza è che non vi sono certezze. Le prossime regionali e le seguenti amministrative sembravano tornate politiche di complemento. Tanto rumore per nulla. Invece, s’annunciano scoppiettanti rese dei conti. Una sfida all’alba, mano sulla fondina, tutti contri tutti, finché nessuno resta in piedi. Perfino Fratelli d’Italia, che nei sondaggi sfiora il 30 per cento e surclassa gli inseguitori, rischia qualcosina. Un po’ per gli alleati. Poi per la «sindrome Michetti», intesa come la rivedibile campagna a sindaco di Roma. Gli altri, certo, stanno peggio: nella Lega nasce la fronda dei bossiani ortodossi. E Forza Italia deve fronteggiare il Terzo polo, che tenta di saccheggiare ai berlusconiani dirigenti ed elettori. A loro volta, i centristi devono rifarsi, dopo aver promesso invano sfracelli alle ultime politiche.
Nulla di lontanamente paragonabile alla devastante crisi del Pd: Qatargate, battaglia di successione, consenso ai minimi storici. «Il più grande spettacolo dopo il Big Bang» canterebbe Jovanotti. Pop corn, patatine e bibitone ghiacciato. L’implosione favorisce i Cinque stelle di Giuseppón Conte, emulo del Mélenchon che in Francia sbaraglia a sinistra: anche l’ex doroteo rinato barricadero però stavolta trema, consideranti i tonitruanti sganassoni ricevuti abitualmente dal Movimento alle amministrative. Su Articolo 1 di Robertino Speranza meglio invece stendere un velo pietoso, vista la comune militanza con Antonio Panzeri, protagonista assoluto dell’inchiesta belga sulle mazzette.
Perfino Bonelli&Fratoianni vivono una lacerante crisi. Erano già in ambasce per le sorti del compagno deputato Aboubakar Soumahoro, sommerso dai maneggi delle cooperative familiari nonostante gli stivaloni di gomma. Adesso la coppia più promettente della sinistra tricolore è ufficialmente scoppiata in vista delle regionali laziali, il 12 e 13 febbraio 2023. Angelo il timidone spalleggia il Pd di Albino Ruberti, quello dell’«inginocchiati o ti sparo», mentre Nicola lo straripante s’è rimaritato con i Cinque stelle.
Il ruspante ambientino ha difatti convinto il fu Giuseppi ad abbandonare i Dem ai loro regolamenti di conti. Dopo settimane di finti abboccamenti, il leader pentastellato ha scelto la corsa solitaria: l’aspirante governatrice è la giornalista Donatella Bianchi, già presidente di Wwf Italia, capo del Parco nazionale delle Cinque Terre e conduttrice del programma Linea Blu. Possibilità di vittoria: nessuna. «Piuttosto che niente è meglio piuttosto» insegna però un detto milanese. Appoggiare il candidato del Pd, Alessio D’Amato, con maggiori seppur residuali chance, portava difatti con sé l’usuale certezza: percentuali microscopiche. L’annunciata disfatta avrebbe offuscato l’ascesa nei sondaggi del Movimento, che ormai supera i moribondi piddini. La corsa solitaria, invece, dovrebbe garantire qualche punticino in più pescando tra gli arrabbiatissimi, grazie anche alla battaglia per il Reddito di cittadinanza. E poi Bianchi garantisce quella spruzzata di ambientalismo mediatico cui Rocco Casalino, consigliori dell’ex premier, teneva tanto. Non a caso, è arrivato il sostegno di Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, reduce dall’apparentamento con i Verdi di Bonelli. Il povero D’Amato, che comunistone lo è stato davvero, si presenta invece come «candidato di coalizione». Già, ma quale? L’ex assessore regionale alla Salute è sostenuto pure dal Terzo polo, il primo ad appoggiarlo, che però quasi ovunque rivaleggia con il Pd.Campo largo striminzito e a geometrie variabili.
Tra i due litiganti, Bianchi e D’Amato, è il terzo a godere: Francesco Rocca, ex presidente della Croce Rossa, indicato da Fratelli d’Italia. Il compito è agevole: riscattare la parabola di Enrico Michetti, sconfitto alla comunali romane. Giorgia Meloni, stavolta, è certa di non fallire. La premier ambisce anche al Molise, che dovrebbe andare al voto tra maggio e giugno assieme al Friuli-Venezia Giulia. La candidatura spetterebbe a Forza Italia, che però ha già strappato agli alleati la Sicilia, con l’elezione a governatore di Renato Schifani. Nel Lazio, intanto, i sondaggi danno Rocca in vantaggio. Per il Pd, che guidava la regione con Nicola Zingaretti, ora eletto a Montecitorio, sarebbe la mazzata finale. Tra l’altro a ridosso delle gattopardesche primarie, previste una settimana dopo, il 19 febbraio 2023. Stringi stringi: Stefano Bonaccini, supposto usato sicuro, sfiderà Elly Schlein, presunta nuovista.
A metà febbraio si vota anche in Lombardia. E tra le opposizioni al governo, il mazzo si rimescola. Nella regione più produttiva d’Italia l’identitaria lotta per il sussidio grillino è controproducente. Giuseppón rischiava di non eleggere nemmeno un consigliere al Pirellone. Proprio com’è già successo a ottobre 2021 alle comunali milanesi, con la candidata Layla Pavone schiantata al 2,7 per cento. Ecco, meglio evitare l’ennesima figura barbina. Meglio nascondersi dietro il Pd, appoggiando Pierfrancesco Majorino. Possibilità di vittoria: ancora una volta, nessuna. I terzisti puntano invece su Letizia Moratti. L’emblematica scelta sancisce la conclamata strategia: saccheggiare la Forza Italia dei tempi d’oro, che aveva indicato «Donna Letizia» sia come ministro che sindaco di Milano. L’ex manager, cinta da vecchie glorie berlusconiane, sfrenate ambizioni e illimitate risorse, punta in alto. Troppo, a occhio e croce.
Il favorito dei pronostici resta il governatore uscente: il leghista Attilio Fontana. Il Carroccio però fibrilla, laddove nacque oltre 30 anni fa, per mano di alcuni fedelissimi del fondatore, Umberto Bossi. Il nascente Comitato Nord è partito alla ricerca dell’ortodossia perduta. Sarà pure «la scissione dell’atomo», come dice Matteo Salvini, ma è la prima in un partito monolitico. Forse, sarà solo un buffetto. Di sicuro, i meloniani sono pronti in Lombardia a rifare il botto, dopo aver doppiato gli alleati alle ultime politiche. Chi rosicchia consensi a Forza Italia sembra il Terzo Polo: lo scorso settembre ha sfiorato nella regione il 10 per cento, con le liste che traboccavano, e traboccheranno, di ex azzurri.
Stesso copione in Friuli-Venezia Giulia, che andrà al voto con il Molise. La conferma di Massimiliano Fedriga, che è pure presidente della Conferenza delle regioni, appare scontatissima. Come Luca Zaia s’è ormai affrancato dal salvinismo. E come il gemello veneto, presenterà una sua lista, «visto che molti cittadini non si riconoscono nei partiti nazionali del centrodestra». Disinteressato contributo alla causa, assicura. E il tacito vantaggio di misurare il suo consenso personale. Del resto, l’ha già fatto il doge veneto nel 2020. Risultato: il triplo della Lega.
Anche qui, patria di piccole e medie aziende, il Terzo polo va a caccia di politici e consensi forzisti. Calenda e Matteo Renzi, andrebbero perfino oltre, rimarcando la loro attitudine: seguire il vento ovunque soffi, da destra a sinistra. Circostanze permettendo, l’appoggio a Fedriga, il leghista democristiano, sarebbe sperticato. Così Calenda prova ad aggirare l’ostacolo, puntando sulle concomitanti amministrative: 800 comuni al voto, tra cui un capoluogo di regione e 17 di provincia. Come Treviso, dove potrebbe scoccare la scintilla. Il Terzo polo s’è già sbrodolato in lodi al sindaco leghista, Mario Conte, pronto a ricandidarsi. Il «Churchill dei Parioli» tenta il colpaccio: «L’alleanza è possibile».
Ettore Rosato, plenipotenziario renziano nel Nord-est, è ancor più speranzoso: «Conte è stato all’altezza della sfida. C’è già un dialogo in corso con lui. E non da oggi». Calenda, voglioso di sfasciare lo sfasciabile, blandisce pure Zaia, «un buon amministratore», invitandolo a liberarsi di Salvini. Il governatore veneto non ci casca: «Abbiamo una coalizione chiara». Ma il leader di Azione si rifarà sotto, anche per far capire agli elettori da che parte stanno i terzisti nella Marca e dintorni.
Da Treviso a Catania, un’altra emblematica città al voto. C’è già un’aspirante non ufficiale: Valeria Sudano, deputata del Carroccio. Salvini, nell’estate 2021, evocava «una donna sindaco della Lega in una delle città più importanti del Sud»: lei. Quella casella spetta però a Fratelli d’Italia. Il sindaco uscente, Salvo Pogliese, è stato eletto in Senato. E Meloni non vuole trattare, visto il passo indietro alla regione, dov’è saltata la ricandidatura di Nello Musumeci, poi nominato ministro per la Protezione civile.
Minuzie, se paragonate a quelle del campetto largo. La gauche etnea è tentata dal fronte progressista con i Cinque stelle, che qui vanno forte visto il Reddito di cittadinanza. Girano nomi pazzeschi, in ossequio all’arte del riciclo già sperimentata in Parlamento da Giuseppón. Come Nunzia Catalfo, ex ministra del Lavoro. Problemino: per le lasche regole pentastellate, chi ha fatto due mandati in Parlamento si può candidare solo a consigliere comunale. Mal che vada, c’è una sontuosa alternativa. Nientemeno, tenetevi fortissimo, che Giancarlo Cancelleri. Lui sì, di primissimo pelo: due volte candidato governatore, altrettante legislature alla regione, poi viceministro, infine sottosegretario.
Dovesse sfumare l’alternativa, resta l’highlander: Enzo Bianco, 71 primavere, presidente del Consiglio nazionale dell’Anci, vecchia gloria piddina, ex ministro, deputato, senatore. E, soprattutto, sindaco di Catania per quattro volte. Fa niente. Vuole ripresentarsi. Spera nel quinto mandato. A dispetto di Schlein, già cinta da immarcescibili come Dario Franceschini e Francesco Boccia. Siamo alle solite, con i soliti. Elly, ti presento quelli. n
