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Daniela Fumarola: «Col sì al referendum non torna l’articolo 18, anzi cala l’indennizzo»

Daniela Fumarola: «Col sì al referendum non torna l’articolo 18, anzi cala l’indennizzo»

La leader Cisl: «Si riandrebbe alla legge Fornero. Per i contratti della Pa mai così tanti soldi, a Cgil e Uil dico: smettete di bloccarli»

Difficile parlare di sindacati in Italia senza entrare in politica. E da quando la Cgil ha deciso di puntare tutto su cinque quesiti referendari (8 e 9 giugno) che sembrano più una conta all’interno della sinistra che una sfida sul mondo del lavoro la sovrapposizione dei ruoli si è acuita. Impossibile quindi non partire da qui anche con Daniela Fumarola, da poco segretario della Cisl, che in questi giorni è stata chiamata a schierarsi sulle proposte che tendono a eliminare il Jobs act e a modificare le regole sulla cittadinanza agli stranieri.

Segretario, lei cosa voterà?

«I referendum sul lavoro sono uno strumento sbagliato nel merito e nel metodo perché non risolvono le questioni che si pretende di affrontare. Non si ristabilisce l’articolo 18 ma anzi si fanno tornare le tutele alla legge Monti-Fornero, riducendo il numero di indennità riconosciute al lavoratore in caso di licenziamento».

Non sarebbe stato logico fare anche un invito all’astensione vista la centralità dei temi toccati dalla campagna?

«La Cisl non fa campagna pro o contro i quesiti e non invitiamo all’astensionismo. Questo clima da tifoseria di stadio va disinnescato. I problemi complessi del mercato del lavoro di oggi richiedono tutele nuove, non improbabili ritorni al passato. Sono criticità di ordine prevalentemente qualitativo, non quantitativo. Il punto è dare qualità, stabilità e sicurezza all’occupazione».

Belle parole, come si fa?

«La chiave di volta è quella della formazione, delle competenze, di un sistema lavoro da spostare su più alti livelli di valore aggiunto attraverso l’innovazione, di una contrattazione calata sulle persone, in grado di redistribuire la ricchezza su salari più alti e orari più flessibili e leggeri».

Lei dice che non vuole politicizzare i referendum, ma se è lo stesso Landini che fa capire che il raggiungimento del quorum è impossibile e che l’obiettivo è raggiungere i 12 milioni di voti per dire che si hanno più preferenze della Meloni, cosa resta se non una questione politica?

«Il referendum è uno strumento polarizzante di suo. Uno strumento peraltro meramente abrogativo, con cui si rischiano di creare vulnus normativi e che non può in alcun modo realizzare una riforma organica per il buon governo del mercato del lavoro. La spinta divisiva non giova a nessuno, e rischia di trasformarsi in un clamoroso autogol soprattutto sul tema della cittadinanza. La legge attuale va modificata e migliorata in Parlamento, con una riforma che non lasci buchi e incoerenze, verso forme di ius scholae e agevolazioni per l’accesso alla cittadinanza, specialmente per le seconde generazioni. È un’azione che va fatta con serietà, con un approccio partecipato anche dalle parti sociali».

Cambiamo argomento. È passata la vostra legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Una svolta. La Cgil e parte del Pd dicono che è stata annacquata…

«Assolutamente non vero. La nostra legge ha mantenuto la sua fisionomia, con il riconoscimento delle quattro forme di partecipazione: organizzativa, gestionale, economico-finanziaria e consultiva. È una vera svolta nelle relazioni industriali. Si valorizza la contrattazione collettiva come leva fondamentale per accordi partecipativi costruiti dal basso, nei luoghi di lavoro, incoraggiati da incentivi economici alimentati da un Fondo dedicato alla partecipazione. È molto curiosa, poi, la posizione di chi oggi si fa paladino del testo originale dopo aver presentato alla Camera 30 emendamenti che ne avrebbero stravolto l’impianto».

Il vero tema del lavoro in Italia è quello legato ai salari. Anche lei come il suo predecessore è contraria al salario minimo?

«Non abbiamo bisogno di minimi in Gazzetta Ufficiale stabiliti di volta in volta dalla politica. La toppa sarebbe peggio del buco, con migliaia di aziende che uscirebbero dalla contrattazione per attestarsi sulla soglia minima legale. Due i rischi: compressione dei salari medi e esplosione del nero nella fascia labour intensive. La sfida è un’altra: in un Paese come il nostro, dove la contrattazione copre il 98% del lavoro, bisogna rafforzare i contratti esistenti, rinnovarli alla scadenza e non dopo dieci anni come accade in qualche settore. Dobbiamo potenziare la contrattazione decentrata aziendale e territoriale, estendendola anche nei settori in cui manca. E poi rispondere alle piaghe che determinano gran parte del lavoro povero in Italia: il part time involontario, le cooperative spurie e il falso lavoro autonomo, il lavoro nero e grigio. Ambiti in cui il salario minimo non interviene in alcun modo».

La Lega propone un mini ritorno alla scala mobile: rivalutazione in parte dei salari all’inflazione su base annuale, quindi non agganciata al rinnovo contrattuale. Siete d’accordo?

«È giusto porsi il tema dell’aumento dei salari, ma la questione non può essere affrontata con un semplice tratto di penna in Gazzetta Ufficiale. Vale per il salario minimo, che schiaccia in basso le retribuzioni. E vale anche per qualunque forma di automatismo, che incendierebbe l’inflazione innescando una rincorsa tra salari e prezzi. Non a caso ce ne siamo liberati nei primi anni Novanta. Il salario non è una variabile indipendente dell’economia, ma un elemento da connettere alla produttività e alla sua buona distribuzione attraverso fisco e contrattazione. Per questo va realizzata una politica espansiva dei redditi che incentivi la partecipazione e la contrattazione di secondo livello, abbassi il carico impositivo sul ceto medio, contrasti speculazione su prezzi e tariffe».

La stessa Lega prevede anche una sorta di mini gabbie salariale sui premi di risultato, quindi sulla contrattazione di secondo livello. Più agevolazioni a chi vive in città piuttosto che nelle periferie. Che ne pensate?

«La contrattazione di secondo livello va estesa e detassata integralmente in tutti i settori, anche nel pubblico impiego, perché è nelle aziende e nei luoghi di lavoro che bisogna quasi in maniera sartoriale contrattare per cogliere le specificità dei territori, venire incontro alle esigenze di flessibilità degli orari, conciliare famiglia e lavoro, favorire lo smart working. Non servono nuove leggi. Serve più partecipazione, più condivisione nelle scelte, più protagonismo dei lavoratori».

C’è stata grande polemica sul rinnovo dei contratti della Pa. La Cgil si oppone alla proposta dell’Aran e del governo che ha messo 20 miliardi sul piatto, che si traducono in aumenti medi da 150 euro lordi al mese per i 3 milioni e passa di dipendenti pubblici. Qualche contratto è stato firmato solo grazie alla vostra spinta. Perché Landini e Bombardieri si oppongono? Anche qui fanno politica?

«Bisognerebbe chiederlo a loro. Noi riteniamo un errore grave questa “melina”’ sui contratti pubblici. Parliamo di centinaia di migliaia di lavoratori dei Comuni e delle Regioni, di infermieri e personale sanitario che hanno pagato un prezzo altissimo durante gli anni del Covid. Mai come in questa occasione sono state stanziate tante risorse per rinnovare i contratti pubblici. Bloccare il rinnovo significa negare aumenti salariali, arretrati e la rivalutazione delle indennità a tanti lavoratori. In passato gli stessi sindacati che ora fanno ostruzionismo hanno firmato contratti ben al di sotto dei livelli inflazionistici e lontanissimi dagli aumenti proposti in questa tornata. Mettere in stallo i rinnovi sulla pelle dei lavoratori accampando argomenti benaltristi è da irresponsabili».

Chi ha vinto nel voto per le elezioni dei delegati della Pa? La Cgil e la Uil gridano al successo.

«La Cisl continua ad essere di gran lunga il primo sindacato in termini di iscritti e rappresentatività in quasi tutti i settori pubblici».

Secondo lei a questo punto il governo dovrebbe garantire gli aumenti per legge?

«Non è la soluzione che noi auspichiamo perché riporterebbe le relazioni sindacali indietro nel tempo, quando gli aumenti dei pubblici dipendenti si stabilivano nelle stanze dei ministri di turno, senza alcun legame con la produttività, con i bisogni verificati, le carriere professionali, la formazione, i risultati raggiunti, le tutele per la maternità, ferie, malattie, welfare. Un contratto non è costituito solo dalla parte economica che comunque è importante».

Pensa si possano sbloccare i contratti? Cgil e Uil potrebbero cambiare idea?

«Me lo auguro. Anzi rivolgo alle categorie un appello alla responsabilità. Lavoriamo insieme subito per dare ai lavoratori i giusti aumenti e le giuste tutele».

Come procedono le trattative con il governo in vista dei prossimi provvedimenti soprattutto sul versante fiscale?

«Nell’incontro positivo che abbiamo avuto con la Meloni l’8 maggio non siamo entrati nel merito, ma è importante che il presidente del Consiglio ci abbia detto che si tratta di un primo passo di un percorso strutturale. La sicurezza sul lavoro deve diventare uno dei tasselli di un grande patto della responsabilità tra governo e parti sociali, che permetterebbe non solo di aumentare i salari e la produttività, ma anche di investire in formazione e innovazione, costruire una nuova politica industriale, affrontare il tema della sanità, delle pensioni, della politica dei redditi e di un fisco più equo. Senza sanatorie, ma con una vera lotta all’evasione».

Cosa risponde a chi dice che la Cisl rimane troppo appiattita sulle posizioni dell’esecutivo?

«Chi lo dice lo fa in maniera strumentale e non conosce la storia della Cisl che ha sempre dialogato con tutti i governi, valutato in autonomia le scelte, protestando quando era il caso di farlo, senza mai fare sconti».

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