Di fronte al ricatto sul gas l’Unione marcia divisa più che mai, tra crisi economiche conclamate in molti Paesi e utili stratosferici di coloro che nel continente dispongono di risorse energetiche. La situazione è aggravata da una transizione ecologica dove emergono forti gli interessi, ma è voluta a qualunque costo da Bruxelles. L’Italia, in tutto questo? Con un’inflazione record rischia un’ulteriore, drammatica chiusura di imprese e occupazione in picchiata.
L’’Europa è ancora vittima del Toro che corre all’impazzata e lei, terrorizzata, alla fine si concede. Nel mito greco viene ghermita da Zeus taurino, oggi è ostaggio della speculazione finanziaria sotto il segno del Toro. Ce n’è uno proprio davanti alla Borsa di Amsterdam, l’epicentro del terremoto «gassoso» che sta precipitando le economie continentali in un girone infernale. Il differenziale energetico tra Europa e Usa è di nove volte. Esiste un «benchmark», un parametro di riferimento del gas liquido, quello che Joe Biden ci vuole vendere a ogni costo per prosciugare i tubi di Vladimir Putin, che si chiama Henry Hub, si trova in Florida e da lì passa la quotazione americana: il prezzo dell’Henry è un quarto del TTF (il future) scambiato ad Amsterdam. Solo che durante la navigazione si fa l’asta, e all’approdo, il GNL costa il doppio del metano russo. I capolavori che rappresentano il «ratto d’Europa» – da Tiziano a Rembrandt – sono tutti custoditi in America.
Sarà un caso? Solo uno, stupendo, il cratere di Assteas, terzo secolo a.C., è tornato dopo decenni dal Getty Museum di Los Angeles; è custodito a Montesarchio, in Irpinia. È il più bel vaso del mondo. Ma oggi non si ammira il ratto d’Europa che ne impreziosisce la circonferenza; assomiglia piuttosto al vaso di Pandora. Così svapora in una nuvola di gas il mito contemporaneo dell’Unione e si affollano interrogativi da brivido: le sanzioni alla Russia sono sopportabili? Il conflitto ucraino quanto durerà? Perché l’Europa lascia a un dittatore come Reçep Tayyp Erdogan tutta l’agibilità negoziale? I focolai di crisi limitrofi – dalla Libia alla Siria passando per la Bosnia – trovano spazio nell’agenda Ue? La «deglobalizzazione» come si potrà affrontare? La strozzatura della logistica, delle materie prime, delle fonti energetiche ha una risposta comune?
Intanto, i ministri dell’ambiente si sono dati appuntamento il 9 settembre per tentare di mettere un «tetto» al costo del gas. Non dicono però che l’impazzimento delle quotazioni del metano è diretta conseguenza di come l’Europa ha deciso di strutturare il prezzo per scoraggiare le fonti fossili e spingere sulla transizione verde.
Il costo del Green deal
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, non spiega perché il Green deal, e cioè la pretesa di arrivare a emissioni quasi zero nel 2035, incida e abbia inciso sulla possibilità di separare il prezzo dell’energia da quello del gas. La numero uno dell’Unione si limita ad annunciare per il prossimo anno un piano di ridefinizione del mercato. Si compiace che lo stock di metano in Europa è arrivato all’80 per cento, che è prossimo – almeno tra due inverni – l’addio a Gazprom; non dice però che questa riserva è accumulata ai prezzi massimi e perciò la crisi tariffaria si trascinerà almeno per tutto il prossimo inverno, generando uno shock industriale senza precedenti e uno squilibrio insostenibile tra le economie europee.
Al proposito soccorre una tabella degli uffici di Bruxelles: la Svezia paga l’energia elettrica 80 euro al megawattora con un aumento del 195 per cento, la Spagna 139 euro (l’Europa ha consentito il blocco del prezzo integrato dallo Stato per un anno a iberici e portoghesi), la Polonia 239 euro (più 582 per cento), la Germania 402 euro, la Francia 489 euro (ha molti impianti nucleari in manutenzione), l’Austria – che si sta convertendo all’urgenza di un tetto al prezzo – 546 euro. Ma chi paga di più è l’Italia, con un prezzo schizzato a 656 euro al megawattora e un aumento del 1.600 per cento.
Perché queste differenze? Dipende dal mix energetico, dalle tasse, dalla composizione del mercato, dalla possibilità dei privati di autoprodurre energia. Responsabile è l’Europa dei rimandi, dei compromessi, l’Europa che ha dato maggiore ascolto a Greta Thunberg che alla necessità di offrire una base economica solida alla transizione ecologica finendo per rendere insostenibile la sostenibilità. Solo per affrontare il caro-metano sinora la Germania ha speso 62 miliardi di euro, l’Italia 49,9, la Francia 44. Nel frattempo gli squilibri economici si sono accentuati: la Grecia, non più sorvegliata speciale per i debiti, è al collasso sociale. Di 330 miliardi di euro prestati dalla celebre Troika europea agli ellenici ne sono arrivati 30. La cura ha dato questi risultati: nel 2008 il Pil greco era di 356 miliardi, oggi è di 216 (meno 39 per cento); il debito corrispondeva al 110 del Pil, oggi è al 200 per cento.
Il leader olandese Mark Rutte, spalleggiato dal vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, olandese pure lui, non ha nessuna intenzione di mollare l’osso del prezzo del gas che frutta ai Paesi Bassi molti, troppi miliardi. Rutte è il premier ultraecologista che sta facendo chiudere 12 mila stalle su16 mila in Olanda perché il bestiame inquina e intanto spinge sull’acceleratore del metano. Così vuole l’Europa – si veda la relazione che Maria Tuccillo, capogabinetto dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ha tenuto in Senato: ha imposto i contratti spot al posto di quelli vecchi (peraltro secretati) che legavano in prestazioni poliennali le forniture. Adottare i TTF (sarebbero i futures) secondo Bruxelles apre il mercato e facendo rialzare i prezzi spinge più rapidamente la transizione verde. L’aspetto perverso è che con i «contratti di carta» si fa apparire un fittizio surplus di domanda e ciò spinge in alto le quotazioni. La Danimarca, visto come vanno gli affari, ha aperto una nuova piattaforma e Mette Frederiksen, primo ministro iper-ecologista dice: «Meglio produrre gas nel mare del Nord che acquistarlo da Putin». La Norvegia a luglio ha avuto un avanzo commerciale di 15,6 miliardi, «in gran parte grazie all’impennata dei prezzi del gas innescata dall’invasione dell’Ucraina».
Christian Zinglersen, direttore dell’Agenzia europea di controllo sull’energia, ha riferito al parlamento di Strasburgo: «Immaginare un tetto al prezzo dell’energia elettrica in Europa è sbagliato. Il mercato va bene così com’è e tutte le misure atte ad abbassare i prezzi dell’energia potrebbero disincentivare gli investimenti del settore privato in soluzioni innovative e tecnologie per la decarbonizzazione e la generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili». La riprova di questo meccanismo sta negli Ets, ovvero i certificati europei che le aziende comprano per poter emettere anidride carbonica. Il prezzo è arrivato a oltre 90 euro a tonnellata di CO2 e questa «tassa ambientale» entra nel costo finale dell’energia. Sugli Ets ovviamente si specula. Paolo Scaroni – già numero uno di Eni ed Enel – ha notato in un’intervista a la Stampa: «Credo che il Green Deal sia stato costruito in maniera un po’ teorica non tenendo sufficientemente in considerazione i tempi lunghi della transizione energetica. Stiamo costruendo un’Europa strutturalmente debole sull’energia. La nostra industria è in una posizione drammatica». Elon Musk – l’uomo più ricco del pianeta grazie a Tesla, le supercar elettriche – ha osservato realisticamente: «Credo che avremo bisogno di utilizzare ancora petrolio e gas nel breve periodo, altrimenti la nostra civiltà si sgretolerebbe. Una delle sfide più grandi è quella della transizione, ma saranno necessari ancora alcuni decenni». Forse la baronessa Von der Leyen ha un po’ troppa fretta. Come rimedio ha suggerito: fate meno docce, diminuite i riscaldamenti, lasciate più al buio le città. Taglio obbligatorio del 15 per cento dei consumi. Senza passare, però, dal parlamento europeo.
Se l’industria si ferma
Ci sono interi comparti industriali che hanno fermato la produzione per eccesso di costi. L’Italia che produce è vicina al blocco. Il problema è gravissimo in Germania dove stanno saltando le società energetiche e il cancelliere Olaf Scholz è bersaglio di continue critiche. Standard & Poor’s ha stimato che se il prezzo del gas non scende, Gazprom chiude il rubinetto e la Banca centrale europea continua con il rialzo dei tassi, Berlino finisce in recessione con un crollo del Pil del 2,5 per cento. In Francia non va meglio. Il colosso dell’energia russo ha tagliato le forniture proprio nel momento in cui Parigi ha le centrali nucleari ferme. La crescita in Europa rischia di essere quasi azzerata (la previsione del più 2,6 per cento appare superata dagli eventi) con l’inflazione che si mantiene sopra l’8,9 per cento. La Bce guidata da Christine Lagarde, con colpevole ritardo, agirà di qui a due settimane di nuovo sui tassi d’interesse per tentare di frenare l’inflazione – in parte onda lunga del «whatever it takes» draghiano che per battere la crisi dei subprime del 2012 inondò i mercati di una liquidità che ora torna indietro come uno tsunami sui prezzi – aggravando ulteriormente l’economia. Il rialzo non sarà inferiore a 75 punti; l’Eurotower deve inseguire la Federal Reserve con il suo presidente Jerome Powell deciso ad arrivare almeno al 4 per cento per frenare l’inflazione Usa.
Un banco di prova cruciale è se, in queste turbolenze, l’euro «tiene». È stato a lungo vicino o sotto la parità col dollaro, ciò ha aggravato il deficit energetico. Ma soprattutto ha fatto percepire la debolezza dell’economia Ue che si era affidata all’idea di far produrre a Est e di lucrare sugli scambi mondiali. Il tema è dunque più vasto: quale posto occupa il Vecchio continente nell’economia «deglobalizzata»? Un interrogativo sollevato autorevolmente da Andreas Nölke della Goethe-Universität di Francoforte. «Sono persuaso che la Germania abbia beneficiato maggiormente della globalizzazione» ha osservato. «Ma ora che la globalizzazione sta lentamente, ma costantemente, retrocedendo penso sia nei guai e perciò serve un cambiamento di modello».
Se la Germania frana sono dolori per tutti, l’Italia esporta lì per oltre 70 miliardi di euro. L’Europa è in mezzo al guado e certo non dispiace né a Mosca né a Xi Jinping perché – a causa della fragilità energetica – può essere l’anello debole dell’Occidente. Il leader cinese che il 16 ottobre prossimo inaugura il congresso del Partito comunista ha di fronte a sé due problemi: frenare la bolla immobiliare e il debito privato, rilanciare l’offensiva globale economica. Lo fa stringendo accordi con i Brics, l’insieme degli Stati emergenti, lo fa insidiando in tutti i modi e in tutti i luoghi i primati occidentali. Il terreno di scontro è Taiwan, prima stazione della sfida finale con gli Usa. L’Europa va a rimorchio; subisce pesanti conseguenze – dal blocco dei microchip a quello delle materie prime e della logistica – e avendo perduto forza produttiva è incapace di reagire. La dimostrazione? Il deficit alimentare. Aver scelto di ridurre la produzione agricola attraverso il programma Farm to Fork per non inquinare espone l’Ue a una maggiore dipendenza estera. Anche questo è un prezzo che l’Unione sta pagando alla scelta del «green» come ideologia senza riuscire ad accontentare neppure Greta Thunberg sconfessata dal Parlamento europeo che ammette – incredibile, ma vero – il metano come «fonte verde». Putin in cambio continua a mostrare tracotanza con il suo esercito nei confini di Kiev. Comincia a farsi strada l’idea che le sanzioni le stia pagando solo il Vecchio continente. L’autorevole settimanale Economist si è chiesto: «Le sanzioni stanno facendo davvero male a Putin? Il Pil russo si ridurrà del 6 per cento nel 2022, come calcola il Fondo monetario internazionale, assai meno del 15 che molti si aspettavano. La vendita di energia darà quest’anno un surplus di 265 miliardi di dollari, il secondo più grande al mondo dopo la Cina».
Un rebus chiamato Italia
Mario Draghi deve sperare solo nell’Europa, perché non ha una soluzione possibile per opporsi alla recessione in arrivo. Fallita la tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche, la bolletta di gas e luce non dà tregua. Come l’inflazione che ha toccato ad agosto l’8,4 per cento (non accadeva da 37 anni) con un più 0,5 per cento con quella alimentare al 10,5 per cento. Il costo aggiuntivo a famiglia sale a 3.500 euro annui. Il caro bollette farà sparire nel terziario 120 mila imprese, in agricoltura un’azienda su 8 (dunque 250 mila), nel manifatturiero una su quattro, con almeno 2,4 milioni di lavoro che andranno in fumo. A fronte di questo il governo in scadenza ha stanziato sin qui 49,9 miliardi, ne cerca altri 12 per tamponare le accise dei carburanti (di nuovo in impennata), il caro bollette e poco d’altro. Il presidente di Confindustria ceramica Giovanni Savorani è stato chiaro: «Nel mondo c’è chi vende piastrelle a 6 euro al metro quadro, noi con 6 euro non paghiamo neppure il costo dell’energia per fabbricarle».
Si sta cercando la panacea nei rigassificatori. A Piombino, dal sindaco Francesco Ferrari (Fratelli d’Italia in parte corretto da Giorgia Meloni) al Pd locale sono tutti contro con manifestazioni che proseguono da mesi. Si sostiene che il rigassificatore del porto toscano sarà decisivo. Ma se ne parla – se va bene – per la primavera prossima. Questi impianti servono per avere gas, non a pagarlo meno. Una nave per trasportarlo oggi costa 120 mila dollari al giorno, il doppio di un anno fa. L’Europa ha adottato severissimi standard ecologici sul trasporto marittimo (che il gas Usa venga ottenuto tramite «fracking», distruggendo le montagne e usando tonnellate di acqua non conta) le navi gasiere disponibili sono poche. E si pagano pure gli Ets, a cui si accennava.
Ora c’è l’incubo Arera, l’agenzia del settore, che si appresta a ritoccare a fine mese il prezzo di gas ed elettricità. Buone notizie? Difficile. La tariffa oggi è determinata dal costo dell’ultimo kilowattora e, inutilmente, si chiede di remunerare a prezzo differenziato l’energia ottenuta da fonti diverse con costi di produzione diseguali. Non si deve fare, sostiene l’Agcom, perché il System marginal price, il prezzo uniforme, «ha rappresentato un incentivo implicito alla realizzazione di nuova capacità rinnovabile». Ce lo chiede l’Europa e allora è possibile che dalla stessa arrivi una soluzione, consentendo al governo di fare un po’ di deficit aggiuntivo e ridare fiato all’economia in recessione? È escluso. Draghi non vuole accendere la miccia dello spread; come ha affermato il ministro dell’Economia Daniele Franco: «Non possiamo uscire dai prezzi elevati dell’energia spendendo; ci concentriamo sull’importanza di un sostegno specifico e su soluzioni durature in termini di rinnovabili ed efficienza energetica». Dice il presidente dell’Eurogruppo, l’irlandese Paschal Donohoe: «Nelle condizioni attuali, vi è consenso sul fatto che, in generale, non sia giustificato sostenere la domanda». E Paolo Gentiloni, commissario all’Economia, chiosa: «I Paesi differenzino le loro politiche fiscali in base al livello di indebitamento. Non possiamo avere misure universali e perenni per affrontare la crisi energetica, danneggerebbe anche la nostra transizione climatica». Questa, ora, è l’Europa e tira diritto. Anche se chi poi ci vive ha gravi problemi quotidiani dovuti proprio a questa rigidità.