Il 14 e 15 novembre la nuova casta dei grillini organizza il suo primo grande congressone (telematico). Eppure non c’è granché da celebrare: defezioni continue dal Movimento, performance desolanti di chi resta al potere, e un calo inarrestabile del consenso.
Le piazze stracolme, i volti sognanti, gli inni al francescanesimo e Gianroberto Casaleggio che da dietro cinge i fianchi di Beppe Grillo con le braccia al vento, come nella famosa scena di Titanic. Il video che presenta gli Stati generali dei Cinque stelle è il consapevole omaggio al passato e l’involontario presagio del futuro. Già alla deriva, la chiassosa nave che aveva invaso il Transatlantico di Montecitorio e l’aula di Palazzo Madama è destinata a schiantarsi. Certo, l’avaria potrebbe proseguire fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, mentre la legislatura volgerà al termine. A quel punto, tutti in mare: le scialuppe di salvataggio diventeranno delle malferme zattere e il naufragio sarà inevitabile.
Per evitare un finale già scritto, il Movimento celebra il 14 e il 15 novembre 2020 il suo primo congressone: gli Stati generali, appunto. Una delle più vetuste liturgie di quei partiti che i grillini speravano di soppiantare. Persino il nome scelto è un riciclo che riecheggia l’inutile sette giorni di Villa Pamphilj, organizzata dal governo lo scorso giugno allo scopo di fornire idee illuminanti sul futuro del Paese. L’unica novità stavolta è la celebrazione telematica del rito, come impone la pandemia: innovazione però azzerata dalla consolidata e infruttuosa pratica pentastellata delle consultazioni online. Per il resto, il confronto a distanza replica le sempiterne dinamiche delle rese dei conti democristiane e post-comuniste.
Già la prima fase della kermesse grillina è stata desolante. Gli iscritti alla divisiva piattaforma Rousseau potevano partecipare agli incontri provinciali su Zoom. Poi c’è stata la seconda fase, su base regionale. Infine, si terrà il congressone. Trecentocinque prescelti: divisi, in ossequio alla storia degli Stati generali della Rivoluzione francese, in tre gruppi. Il popolo, fatto dagli attivisti. Il clero, composto sindaci e consiglieri comunali. La nobiltà, ossia parlamentari, europarlamentari e consiglieri regionali: insomma, la detestata ultracasta. A sua volta divisa, al suo interno, in correnti, correntoni e correntine: in perfetto stile scudocrociato. Governativi, ortodossi, nostalgici, pragmatici, autonomi… Ognuno, in ossequio ai bei tempi andati, presenterà la sua mozione: per dare la linea e occupare l’attuale vuoto di potere. «Stiamo diventando come l’Udeur, buono forse più per la gestione di poltrone e di carriere» sbeffeggia Alessandro Di Battista. Il Che Guevara di Roma Nord si prepara così a replicare le gesta di Gianfranco Fini durante la direzione nazionale del Pdl nel 2010. Sintetizzate dall’indimenticabile: «Che fai, mi cacci?».
La definitiva rottura si consumerà su un vecchio totem: non superare, mai e poi mai, i due mandati. «È una regola fondativa del Movimento» ricorda Dibba. «Se decade me ne vado dai Cinque stelle». Ovvio: lui ha fatto solo un giro di giostra, seppur scoppiettante. Poi è andato in giro per il mondo a scrivere irrinunciabili reportage per il Fatto Quotidiano, aspettando il suo turno. Intanto i suoi antagonisti, dopo aver aperto il Parlamento «come una scatoletta di tonno», hanno sbranato i saporiti filetti. E faranno di tutto per cancellare dalla lattina la data di scadenza.
«La regola sui due mandati non si tocca e non si deroga» assicura Grillo il 10 marzo 2017. E Di Maio, a fine 2018, suggella: «Non è mai stata messa in discussione e non si tocca. Né quest’anno, né il prossimo, né mai. È sicuro come l’alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti, come oggi, continueranno a mentire scrivendo il contrario». Il capolinea, però, si avvicina. E l’ex leader, nel frattempo, è diventato una di quelle volpi che, per usare una vecchia battuta di Bettino Craxi, non vuole certamente «finire in pellicceria». Come la vicepresidente del Senato, Paola Taverna. O il presidente della Camera, Roberto Fico. E l’incolore capo politico, Vito Crimi: l’ormai mitologico «reggente», ma già in carica da dieci mesi. In definitiva, tutti gli attuali notabili.
Proprio quelli che sogna di spazzar via Davide Casaleggio, presidente dell’associazione Rousseau in combutta con il ribaldo «Ale». Il figlio del cofondatore Gianroberto ha già cercato di boicottare l’evento tagliando i servizi della sua piattaforma. Una ritorsione verso quella pletora di parlamentari morosi che hanno smesso di pagare l’obolo promesso. Incombenza di cui tanti illustri antagonisti vorrebbero sbarazzarsi: per spegnere Rousseau, evitare il continuo ricorso al voto degli iscritti e ottenere il via libera al terzo mandato. Insomma: sconfessare i vecchi dogmi e sancire la metamorfosi in partito tradizionale. Come il defunto Udeur mastelliano, appunto.
Gli imminenti Stati generali, in realtà, dovevano servire proprio a fare il contrario. Annunciati a novembre 2019, mentre era ancora al vertice Di Maio, annunciavano «parole guerriere, nuovi obiettivi, progetti da realizzare». Bisognava raccogliere le proposte degli attivisti, da discutere ed elaborare «a marzo in un grande evento nazionale». Ma le dimissioni di Giggino e l’interregno di Vitone hanno trasformato l’attesa in melina. Intanto, è andato tutto a catafascio. E, dopo il tragico risultato delle ultime Regionali, la battaglia infuria.
Da un lato ci sono, con il beneplacito di Grillo, i favorevoli all’alleanza con il Pd. Dall’altro, sotto l’ala di Casaleggio junior, gli avversi. Insomma, chi ha avuto e chi vorrebbe avere. I primi restano incollati alla vellutata poltrona. I secondi hanno imboccato altre strade o stanno per farlo: sperando in lidi più accoglienti. I pentastellati erano entrati a palazzo insultando gli spregevoli voltagabbana. Adesso guidano indiscussi la classifica della transumanza. Alle Politiche del 2018 avevano ottenuto 338 seggi: 227 a Montecitorio e 111 a Palazzo Madama. Ora si contano 196 deputati e 93 senatori: 289 eletti. In totale, 49 in meno. Media matematica: 1,5 abbandoni al mese.
L’ennesimo record. Una pattuglia addirittura superiore a quella dei fuoriusciti dal Pd direzione Italia viva. L’armata degli ex grillini è stata invece accolta ovunque, anche se la truppa più numerosa è finita nel gruppo Misto. Ma la diaspora prosegue. Solo in odor di sanzioni o espulsioni per i mancati rendiconti sono già un’altra decina. E, comunque vada, l’esito del congresso telematico finirà per scontentare altre squadriglie, pronte a tentar la sorte altrove.
Non pensano invece a rompere le righe nemmeno sotto tortura ministri, sottosegretari e presidenti. Eppure gli stessi alleati del Pd considerano «inadeguati» tanti grillini al governo. Capiamoci: non è che i ministri dem, a partire da Roberto Gualtieri all’Economia, mostrino prestazioni brillanti. Però il plotone pentastellato dimostra leggendaria inadeguatezza.
Lucia Azzolina, complice la pandemia, ha trasformato la già malridotta scuola italiana in un orpello. Penalizzati come nessuno in Europa, gli alunni sono stati gli ultimi a rientrare in classe: tra banchi a rotelle, bolge dantesche e decreti alla giornata. Paola Pisano, titolare dell’Innovazione, ha dimostrato quanto la tecnologia, tanto decantata dai grillini, possa diventare inservibile: vedi il caso dell’app Immuni. Nunzia Catalfo, ministro del Lavoro, si occupa di cassa integrazione: anticipata dalle aziende, pagata con strepitosi ritardi e ancora attesa da 270 mila persone. Fabiana Dadone vigila invece sull’intoccabile Pubblica amministrazione. E il guardasigilli Alfonso Bonafede appronta fantomatiche e imminenti riforme.
Infine, Di Maio. Assiso agli Esteri, dietro minaccia di sabotare sul nascere l’alleanza con il Pd, ha dimostrato che non sapere una parola d’inglese era il minor dei mali, seppur profetico. Sul fronte internazionale, Giggino è di poche parole. Quasi sempre ignorate. I sondaggi sono catastrofici. Nel 2018 il Movimento era il partito più votato: quasi 33 per cento di consensi. Adesso è al quarto posto, dopo aver abbondantemente dimezzato i consensi: 15 per cento.
E la decrescita continua. I modestissimi risultati nelle ultime elezioni regionali lo confermano. «È la più grande sconfitta nella storia del Movimento» informa il solito Dibba. Persino nella Liguria di Grillo, dove correva un candidato presidente in comune con il Pd, hanno raccolto un miserissimo 7,6 per cento. Anche le prossime Amministrative non promettono faville. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, considerata una potenziale leader nazionale, ha deciso di non ripresentarsi dopo la condanna a sei mesi per falso in atto pubblico. Ma è solo l’ultima defezione. Negli ultimi otto anni, i Cinque stelle hanno conquistato una cinquantina di comuni. E in appena due casi, tra mancate ricandidature e sonore sconfitte, gli uscenti sono riusciti di nuovo a imporsi. Una minuscola percentuale di cui rischia di non far parte nemmeno Virginia Raggi, che vuole ritentare l’elezione a Roma nella prossima primavera.
Autocandidatura fieramente avversata da Giggino: «Meglio l’alleanza con il Pd». E trionfalmente salutata da Dibba: «È una sindaca fantastica». Avanti così, dunque. Finché morte politica non li separi.