Home » Con la scusa della burocrazia l’Italia è paralizzata

Con la scusa della burocrazia l’Italia è paralizzata

  • GIUSEPPE CONTE – continua a proclamare la «cancellazione di leggi inutili». Ma le misure di rilancio dell’economia riescono solo a complicare la vita degli italiani. Tra bonus impossibili e soldi che non arrivano mai.
  • L’ITALIA CHE NON RIPARTIRA‘ – Sono 5.500 i piccoli Comuni privi di infrastruttura digitale o di collegamenti stradali adeguati. E che la crisi post Covid lascerà ancora più indietro.rano le sue «prediche inutili».

C’era un uomo che avrebbe potuto liberare questo angustiato Paese dal lacciolo che lo strozza da decadi: l’odiosissima burocrazia. Un avvocato dall’aspetto distinto: capelli corvini, volto rassicurante e pochette nel taschino. Ma, soprattutto, competente: espertissimo di commi e cavilli. Luigi Di Maio, prima della trionfale cavalcata alle Politiche del 2018, lo aveva scelto come futuro ministro della Pubblica amministrazione. E il predestinato, ancor prima d’esser nominato, prometteva solenne: «Sburocratizzazione e cancellazione di leggi inutili», «revisione del farraginoso e incoerente quadro normativo», «rigorosa e spietata semplificazione». Italiani in visibilio. Partite Iva, imprenditori e commercianti in trepida attesa. La rinascita, impaziente, bussava alla porta.

Quel messia era Giuseppe Conte, il giurista di Volturara Appula. L’uomo giusto al momento giusto. La sorte gli ha però riservato un destino ancor più sbalorditivo: la presidenza del Consiglio. Poco male. Da Palazzo Chigi, il premier ha continuato a dardeggiare contro il male dei mali. «La burocrazia mi toglie il sonno» confida lo scorso ottobre. «La riduzione della burocrazia è il volano per far decollare la crescita economica» assicura a fine 2019. «Una drastica semplificazione della burocrazia sarà la madre di tutte le riforme» giura due mesi fa.

Abbiate fede, dunque. Manca pochissimo. Ancora qualche settimana. Poi l’Italia delle 12 fatiche di Asterix diventerà come la Finlandia, dove per aprire un bar bastano 24 ore. Intanto centinaia di migliaia di persone aspettano la cassa integrazione, la ripresa è affidata a una gragnuola di inservibili bonus e i prestiti alle imprese restano chimerici. Esasperanti ritardi e delirio normativo sono sempre esecrabili. Figurarsi adesso, con la crisi economica più grave del dopoguerra. Servivano perizia e risolutezza. Ci siamo ritrovati l’accrocchio giallorosso. Che, mentre attende gli incerti effetti della «poderosa manovra» approntata, organizza un incontro tra illuminati a Villa Pamphilj, a Roma. I pomposissimi Stati Generali. Ovvero, il raduno nazionale dei capiufficio complicazione di fantozziana memoria. Politici, sindacalisti, «menti brillanti». Ci hanno suggerito come spendere i 170 miliardi concessi dall’Europa. Nell’impresa, a dire il vero, s’è già inutilmente cimentata la task force di Vittorio Colao. Ma il salvifico piano riposa in un cassetto di mogano a Palazzo Chigi.

Almeno su un punto, però, tutti concordano. Bisogna snellire, scattare, sveltire. È questa l’indifferibile promessa di colei che ha preso il posto inizialmente destinato a Giuseppi: Fabiana Dadone, altro astro del firmamento pentastellato. La ministra della Pubblica amministrazione ha così presentato il decreto Semplificazione: procedure telematiche, smart working, concorsi. Il 16 maggio 2020 Conte comincia a gongolare: l’approvazione della legge è «imminente». Il 21 maggio reitera: «Confido di avere un articolato nel giro di un paio di settimane». Adesso gli ottimisti confidano: slitterà a luglio. Ma pure a febbraio 2019 era stato approvato uno scoppiettante e omologo decreto: «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la Pubblica amministrazione».

Solita diagnosi, quindi: annuncite grave e irreversibile. Perfino il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, chiede invano una riforma «complessiva». Partire dalla semplificazione per arrivare «a una buona burocrazia». Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è meno ecumenico: «La politica dello struzzo rischia di fare più danni del Covid» assalta. E, da mesi, insiste: «Ci sono gravi ritardi su cassa integrazione e liquidità». Giuseppi, a cui non difettano le buone maniere, si scusa. Ma anche stavolta, fortunatamente, ha le idee chiare: «La Cig è farraginosa. Va riformata».

Intanto, lo scorso 20 giugno giunge puntuale il bollettino dell’Inps. Oltre 134 mila lavoratori senza cassa integrazione. Altri 357 mila aspettano mensilità arretrate. Senza considerare il gorgo in cui sarebbero finite mezzo milione di persone: domande non autorizzate, ma nemmeno respinte. Insomma, secondo alcune stime, mancherebbero all’appello un milione di lavoratori. E sui 5,3 milioni di pagamenti, ben 4,7 sono stati anticipati dalle aziende: quasi l’89 per cento.

Colpa dell’Inps? Macché. Il prode presidente dell’ente previdenziale, Pasquale Tridico, prima dà la colpa alla svogliatezza imprenditoriale. Poi, assicura: entro il 12 giugno «pagheremo tutte le 419 mila domande giacenti». Otto giorni più tardi arriva l’avvilente cernita. Ma Tridico continua a minimizzare: «Nessun ritardo».

Il professore dell’Università Roma Tre, del resto, è un’altra gemma della galassia grillina. Al pari di Giuseppi, pure lui era entrato nel fantagoverno del Movimento: ministro del Lavoro. Come il futuro premier, è però dirottato altrove. A marzo 2019 viene nominato presidente dell’Inps. E un anno dopo, quando scoppia la pandemia, Tridico diventa l’uomo della provvidenza. L’ente previdenziale ha il decisivo compito di distribuire il primo della pletora di bonus escogitati dai giallorossi: destinato agli autonomi, prevede un contributo di 600 euro. Ma il sito dell’ente va in tilt. E migliaia di informazioni sensibili e personali finiscono online. Tridico spiega: «Abbiamo ricevuto violenti attacchi hacker». Giustificazione che ricorda quelle del mitico Jake dei Blues brothers, alias John Belushi, all’ex fidanzata: «Ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette. Non è stata colpa mia!».

Così basta mezza giornata per scoprire che, anche quella volta, il presidente dell’Inps s’è avventurato in scuse poco plausibili. Invece, il sistema informatico era solo collassato. Lo stesso accade due mesi più tardi. Il 28 maggio scatta l’ora fatidica per chi, dopo congrua selezione, può chiedere un’altra asfittica mancetta: il bonus baby sitter. Ben 1.200 euro destinati a supplire alla chiusura a oltranza delle scuole di ogni ordine e grado decretata da un altra pentastellata coi controfiocchi: il ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina. Meglio che niente, certo. Ma quando gli esasperati genitori tentano di accaparrarsi il contributo, il turbosito dell’Inps va di nuovo nel pallone. E se non ci si mettono logiche diaboliche e complotti planetari, fiorisce allora l’oscura selva di norme.

Largo, dunque, al bonus vacanze. Prevede 500 euro per le famiglie di almeno tre persone, 300 per i nuclei da due e 150 per i single. In ossequio all’imperante statalismo al potere, l’esecutivo elabora per alberghi, agriturismi e bed&breakfast il più farraginoso e penalizzante dei sistemi. Sono loro ad anticipare l’80 per cento dello sconto. Il resto sarà detratto dalle tasse. Ovviamente, per non far torto a nessuno, ci sono incentivi dall’opposta ratio: a pagare prima sono i cittadini.

Vedi il bonus mobilità. Prevede uno sconto del 60 per cento, fino a 500 euro, per acquistare bici normali, elettriche e monopattini. Possono usarlo, in teoria, i maggiorenni che abitano in aree metropolitane, capoluoghi o comuni con oltre 50 mila persone. E chi ha la sventura di abitare in una città con 49 mila abitanti? No, lì le due ruote non servono. E chi ha scelto di vivere in un remoto borgo di duemila anime? Niente da fare. Meglio andare a piedi. O a bordo di un suv euro 4. Comunque, per ricevere l’agognato contributo, pure stavolta bisognerà attendere che la burocrazia faccia il suo corso. Insomma che il ministero dell’Ambiente, retto da un altro pentastellato di vaglia come il generale dei carabinieri Sergio Costa, inauguri l’apposito portale.

E poi, va bene destinare 120 milioni di euro al nobile scopo ambientalista. Nel frattempo, però, da oltre un mese si continua a meditare sugli aiuti al funestatissimo settore dell’auto. Che, con tutto il rispetto per i monopattini, impiega in Italia 1,2 milioni persone e vale il 10 per cento del Pil. Così anche quel manipolo di arditi che vorrebbero cambiare macchina, nel dubbio aspetta. Intanto, i consumi sprofondano. E oltre 60 mila aziende rischiano di chiudere, calcola Confindustria. Eppure, a inizio dello scorso aprile, Giuseppi annuncia il solito e «poderoso» intervento: «Quattrocento miliardi per le imprese». Si parte, quindi, dai prestiti garantiti dallo Stato. Segue usuale odissea. Da addossare, stavolta, agli istituti di credito.

Come in un gioco di specchi riflessi, sono loro i responsabili di complessità e ostacoli. Ma Antonio Patuelli, presidente dell’Abi, rintuzza: «Non sono le banche che inventano le leggi, noi dobbiamo applicare il decreto legge dell’8 aprile». Ossia, lo sterminato testo che, dopo il lockdown, regola «il sostegno alla liquidità». Al contrario, in Svizzera, per avere un prestito fino a 500 mila euro basta compilare una paginetta. E aspettare un giorno per l’accredito.

In Italia, invece, le banche comunicano di aver superato gli intoppi solo a fine maggio. A quasi tre mesi dalla serrata. Meglio che mai? Eh, no. Nel frattempo tanti hanno chiuso. Altri non si rialzeranno più. Senza dimenticare l’indimenticabile click day di Invitalia. L’11 maggio organizza una sorta di riffa telematica. In palio, 50 milioni di aiuti a fondo perduto per acquistare «dispositivi di protezione per l’emergenza Codiv-19». Il meccanismo è semplice. Ma pure molto italico: chi prima arriva, meglio alloggia. Nove di mattina: si comincia. Passano un secondo, zero decimi e quattro centesimi. Click day finito. Su 205.573 aspiranti imprese, solo 3.150 vincono la lotteria di Invitalia, società statale guidata dall’infallibile Domenico Arcuri, commissario bis all’emergenza coronavirus. L’uomo che assicurava agli italiani le introvabili mascherine a 50 centesimi.

Per rilanciare l’edilizia, invece, il governo pensa a un super mega bonus ristrutturazione: al 110 per cento. Isolamento termico, climatizzazione, infissi. Tutto gratis. L’attesa manna. Basta solo cedere il credito a chi realizzerà i lavori. Che, a sua volta, dovrebbe chiedere aiuto alle banche. Arrivati a questo improbabile punto, allora si parte? Macché. Gli interventi sono condominiali. E i singoli appartamenti? Si tengano pure gli spifferi. In compenso, il bonus dei bonus potrebbe valere per le seconde case.

Nel pantano, ovviamente, ci sono anche le opere pubbliche. Le cui sorti burocratiche restano in mano a: presidenza del Consiglio, ministero delle Infrastrutture, Cassa depositi e prestiti, Strategia Italia, Investitalia e la solita Invitalia. Gabriele Buia, presidente dei costruttori italiani, lo definisce: «Un mostro a più teste». Che Giuseppi tenterà di ammansire con il solito abracadabra.

C’E’ UN’ITALIA CHE NON RIPARTIRA’

Con la scusa della burocrazia l’Italia è paralizzata
Wikimedia commons

Sono 5.500 i piccoli Comuni privi di infrastruttura digitale o di collegamenti stradali adeguati. E che la crisi post Covid lascerà ancora più indietro.rano le sue «prediche inutili».

di Carlo Cambi

Purtroppo Luigi Einaudi aveva ragione. Come si può deliberare senza conoscere, si chiedeva. L’interrogativo del secondo presidente della Repubblica va posto a Vittorio Colao – l’ex mister Vodafone – che in un centinaio di pagine scritte in angloitaliano (perché?) distilla il verbo dell’uscita dal tunnel del Covid. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, anche sulla scorta di quelle pagine al termine degli Stati generali ci fa sapere che è «tempo di reinventare l’Italia». Forse sarebbe meglio conoscerla. In quelle schede come nella narrazione che si è fatta per la ripartenza post coronavirus c’è qualcosa che non torna.

Ci mancano 5.500 piccoli Comuni, il 69 per cento di quelli italiani dove abitano oltre 10 milioni di persone (il 17 per cento della popolazione nazionale). Da loro dipende la tenuta del territorio, dell’agricoltura, della cultura. Sono piccoli e decrescono, ma non tutti perché in 965 – soprattutto in Val d’Aosta, Lombardia e Trentino – c’è il controesodo: la popolazione cresce. E chi pensa che siano uno spreco di denaro pubblico deve ricredersi, il tasso di dipendenti è più basso di quello dei grandi Comuni.

Ne hanno 4,8 ogni mille abitanti contro la media di 5,4 degli altri. Per sapere com’è vivere nei piccoli Comuni bastava chiederlo a Giulio, dodicenne di Scansano – siamo in provincia di Grosseto, una capitale del vino e dell’arte – che tutte le mattine si è fatto sei chilometri a piedi portandosi dietro i libri e il banco per cercare la linea internet e seguire le lezioni. Oppure basta chiedere a uno dei 4 milioni di residenti dei 1.200 Comuni italiani dove non prende il telefonino e dove non arriva nessun segnale internet se è possibile fare, come stabilisce la legge dal 1° luglio, solo pagamenti elettronici.

L’urbanista e archistar Stefano Boeri agli Stati generali di Villa Doria Pamphilj ha avanzato alcune proposte: la scuola come hub di socialità, la riforestazione soprattutto in città e la costruzione della rete dei borghi perché, avverte Boeri, 5 mila rischiano di sparire. Tutto vero, o quasi. In Italia le foreste avanzano al ritmo di migliaia di ettari ogni anno (ormai si estendono per 11 milioni di ettari), e si stanno mangiando l’agricoltura che perde 5 mila ettari di coltivato ogni 12 mesi. E una ragione c’è: l’abbandono delle zone rurali.

Le scuole inagibili sono 8.450 stando agli ultimi dati del Miur, vecchi però di cinque anni; secondo Cittadinanzattiva nel 2019 si è avuto nelle scuole un crollo ogni tre giorni. Inutile dire che il grosso si concentra nelle zone rurali e montane. C’è dunque un’altra Italia che anche volendo non può fare smart working, non può seguire lezioni da remoto, non può fare pagamenti elettronici. Ma è un Italia che nei documenti ufficiali non appare. Lo sa bene Ermete Realacci – che da anni guida la Fondazione Symbola ed è autore della legge sui Piccoli Comuni varata nel 2017 – il quale proprio in questi giorni ha lanciato un progetto ambizioso: l’Italia dei Cammini.

Si tratta di costruire una rete, come ha spiegato il segretario di Symbola Fabio Renzi, che ricostruisca i fili della relazione tra le vallate, percorrendo quei tracciati che hanno costruito l’Italia. Come osserva Domenico Sturabotti, che dirige il progetto, il camino di Santiago di Compostela è lungo 880 chilometri, la Francigena più di mille. E questa rete serve a trattenere persone nei piccoli centri, serve a generare un’economia sostenibile. L’Italia percorsa da Symbola è fatta da 44 itinerari per 15.400 chilometri che attraversano 1.435 Comuni, di cui 944 piccoli, e incontrano oltre 2 mila beni culturali e 179 produzioni Dop-Igp. L’86,6 per cento di queste ultime nascono nei piccoli Comuni.

Un limite al progetto? Manca internet. Sono appunto 1.200 i Comuni totalmente isolati dove non prende neppure il cellulare, 4 mila quelli di montagna tra Alpi e Appenino che non hanno accesso alla rete. E tanto per fare una fotografia complessiva dell’Italia solo il 36,8 del Paese è collegato in fibra ottica con la banda ultralarga. C’è un piano d’intervento per questo internet divide ma è praticamente fermo per quel che riguarda le aree marginali. A occuparsene dovrebbe essere Open Fiber, società partecipata da Enel e Cassa depositi e prestiti – dunque di fatto dello Stato – guidata da Elisabetta Ripa che si è aggiudicata ben tre bandi di Infratel per la copertura delle «aree bianche» dove il traffico generato non fa business, ma è una utilità.

Un paio di settimane fa Infratel ha comminato penali per poco meno di un milione di euro a Open Fiber per i ritardi. È una partita a molte incognite quella sulla banda ultralarga perché anche Tim insieme a Infratel sta provvedendo alla infrastrutturazione. E la società guidata da Salvatore Rossi ha portato a termine a tempo di record il collegamento di 310 Comuni e il progetto prevede di allacciare otto regioni in un paio d’anni.

Sta di fatto che sulla banda ultra larga (con sullo sfondo il braccio di ferro sul 5G) si gioca una partita durissima. Beppe Grillo ha chiesto di liquidare Open Fiber e di aumentare la quota di Cdp in Tim per affidare a questa società il cablaggio di tutta Italia. Ma mentre la politica si scontra c’è un’Italia minore abbandonata. È il caso di Comuni come Morterone in provincia di Lecco, il più piccolo d’Italia con 30 abitanti, o di Stavoli in provincia di Udine, dove non c’è nemmeno la strada e per arrivarci bisogna camminare mezz’ora.

Stando a un dossier di Confcommercio il 35,3 per cento dei Comuni italiani non ha una scuola media, in 2.178 non ci sono depositi bancari, nel 44,7 per cento non c’è un presidio sanitario. Dal 1996 al 2016 sono quasi raddoppiati quelli che si trovano nell’area del disagio: da 2.830 a 4.395 con 14 milioni 148 mila residenti, cioè il 23,58 per cento della popolazione italiana.

Ma per reinventare l’Italia questo sembra non avere peso. Eppure il 2 giugno Marco Bussone, presidente di Uncem, l’associazione dei Comuni montani, lo ha ripetuto tanto a Francesco Boccia (Pd), ministro per gli Affari regionali, quanto a Giuseppe Conte: «La legge sui piccoli Comuni va attuta fino in fondo, si sblocchino almeno i 160 milioni di euro d’investimenti previsti dalla legge del 2017». Per fare cosa? Almeno queste quattro cose: banda ultralarga, meno tasse su investimenti di natura ambientale e idrogeologica, zone economiche speciali montane, rilancio del turismo dei borghi. La festa dei piccoli Comuni si chiama Voler bene all’Italia. Peccato che questa Italia è nascosta.

© Riproduzione Riservata