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Cinque Stelle: in ginocchio dal Pd

Cinque Stelle: in ginocchio dal Pd

Su tutte le questioni che contano, dalle nomine alla Giustizia all’affaire Alitalia, dal via libera agli inceneritori in Sicilia alla sanatoria sugli immigrati, il pallino è sempre nelle mani dei democratici, mentre il Movimento Cinque stelle arranca e non riesce a imporsi. O non vuole, nel timore di far cadere il governo e rinunciare alle poltrone.


La caparbia ostilità al Fondo salva Stati può dare l’idea che il Movimento Cinque stelle sia fermo sui princìpi. Nicola Zingaretti, che quasi implora un patto per le Regionali, fa pensare che i questuanti siano i dem. Ma grattando la superficie, si scopre che nel M5s suona un’altra musica: In ginocchio da te. Anzi, dal Pd. L’intento di Zinga è costruire un Ulivo 2.0, vincolare il M5s a un’alleanza strutturale e licenziare una legge elettorale proporzionale, che neutralizzerebbe il consenso dei sovranisti. In attesa che le urne ribaltino le proporzioni nella coalizione giallorossa.

D’altra parte, pur avendo meno parlamentari, il Pd ha segnato più punti. Il M5s incassa. Un’umiliazione tale da aver ridestato l’altro big grillino, Alessandro Di Battista, che invoca un congresso. Che salto, rispetto ai plebisciti sulla piattaforma Rousseau, orientati dai post di Beppe Grillo (che infatti s’è infuriato). Dibba prepara il riscatto, o vuole soltanto risalire sulla giostra?

Quando ha elencato le conquiste grilline, Luigi Di Maio ha citato solo traguardi, dal reddito di cittadinanza al decreto Dignità, raggiunti quando il partner di governo era la Lega. Matteo Salvini era cresciuto anche grazie all’inconsistenza pentastellata, però sui provvedimenti di bandiera era stato leale. L’alleanza con il Partito democratico invece è a perdere. Sui dossier scottanti, per lo più, non si decide per evitare incidenti (l’emblema dello stallo è la pratica Autostrade); ma quando si decide, il pallino ce l’hanno quasi sempre i dem.

Prendete il ministero della Giustizia. Mario Michele Giarrusso, senatore, già grillino dissidente, poi espulso dal Movimento, non ha digerito le nomine fatte da Alfonso Bonafede: «Dino Petralia», il successore al Dap di Francesco Basentini, sotto il quale erano stati scarcerati i mafiosi con la scusa del coronavirus, «è targato Pd. E lo è anche il nuovo capo di gabinetto del Guardasigilli». In effetti, per sostituire Fulvio Baldi, finito nelle chat di Luca Palamara, Bonafede a fine maggio ha chiamato Raffaele Piccirillo, già in via Arenula con Andrea Orlando, che nel 2017 gli aveva conferito l’incarico di capo del Dipartimento per gli affari di giustizia. In quel dicastero, chiosa Giarrusso, «il Movimento è commissariato dal Pd».

Poi c’è la nuova Alitalia pubblica. La nazionalizzazione della compagnia era stata suggerita dall’ex titolare del Mit, il pentastellato Danilo Toninelli, poi escluso dal Conte bis in favore della piddina Paola De Micheli. Il M5s ha indicato il presidente Francesco Caio, tuttavia l’amministratore delegato, quindi il dirigente più operativo, Fabio Lazzerini, è entrato in quota dem. Nella dirigenza della newco, sarà il Pd a fare la parte del leone.

Un po’ come in Rai. Quella sovranista non è mai esistita. Però il partito di Zingaretti ha preteso di spostare verso il rosso l’asse della tv di Stato. L’informazione di Rai 3, con Mario Orfeo alla direzione del tg, è tornata saldamente in mano al Pd. Giuseppe Conte di recente ha discusso, con l’a.d. Fabrizio Salini, gradito ai Cinque stelle, l’ipotesi di un’estensione del suo mandato. Ma i dem non ci stanno: Michele Brodo, vicecapogruppo alla Camera, ha anzi imputato al vertice Rai una «gestione altamente fallimentare». Il Pd punta in alto…

Sarà per mancanza di visione, o per amor di poltrona. Sarà perché, come dice il senatore Gianluigi Paragone, altro ex grillino, «il Pd è più strutturato e quindi, alla fine, il Movimento gli va dietro». Ma sulle questioni cruciali, o si rinvia, o prevale l’agenda dem. Un esempio è l’uscita di Beppe Grillo su Open fiber. Intervenendo a gamba tesa, dopo cinque anni di silenzio, sul tema della banda larga, il comico ha denunciato il «completo fallimento» della società che doveva accelerare lo sviluppo della fibra, chiedendo la fusione con Tim e l’ingresso di Cdp nell’azienda di telecomunicazioni, per poi far acquisire alla controllata del Mef le azioni dei francesi in Tim e creare «un’unica società integrata rete mobile, 5G, banda ultralarga».

Peccato che, come ha scritto Claudio Antonelli sulla Verità, il progetto coincida con quello di Massimo D’Alema. L’uomo del dietro le quinte, che rappresenta l’ala più governista del Pd. Qualche maligno suggerisce che il riassorbimento nella galassia del centrosinistra fosse sin dal principio lo scopo di Grillo. Tant’è che, nel 2009, l’istrione provò a candidarsi alle primarie democratiche e a prendere la tessera nella sezione sarda di Arzachena. Il partito gliela negò, lui replicò piccato: «Ho anche pagato 16 euro…».

Un desiderio recondito? Senza tirare in ballo la psicanalisi, Paragone attribuisce i cedimenti dei pentastellati alla sindrome che contagia chi entra nei palazzi del potere: «Una volta che ci sei, vuoi rimanerci». È la trasformazione del M5s da partito antisistema in partito di sistema: «Basta Cinque stelle di protesta», ha detto alla Stampa Chiara Appendino, sindaca della città della Mole. «Esponente della borghesia torinese ai cui figli viene consentito giocare a fare i comunistelli» la liquida Paragone.

«Un po’ incollati alla poltrona, un po’ incompetenti» commenta Giarrusso. Che prende di mira anche Miur e ministero dell’Ambiente. «In viale Trastevere non comanda Lucia Azzolina, bensì la vice Anna Ascani con la Cgil scuola». E dopo anni di battaglie «contro gli inceneritori in Sicilia, Sergio Costa manda una prescrizione al piano dei rifiuti regionali, che prevede la realizzazione di due inceneritori. Ora che l’ho beccato, Costa si sveglia: “Il Movimento è contrario agli inceneritori”. Intanto il suo atto amministrativo rimane in piedi». E il Pd che c’entra? «Gli “inceneritoristi” sono loro…».

E l’immigrazione? Quando governavano con Salvini, i Cinque stelle della Giunta per le autorizzazioni del Senato, sul caso Diciotti, votarono contro il processo al capo leghista. Dopo che Grillo benedisse l’inciucio con il «partito di Bibbiano» (Di Maio dixit), sul caso Gregoretti, identico, i pentastellati a Palazzo Madama chiesero di mandare alla sbarra l’ex ministro dell’Interno. Il blitz non è riuscito con la vicenda Open Arms: decisiva l’opposizione, in Giunta, di Giarrusso e di Alessandra Riccardi, che ha appena lasciato il Movimento per passare al Carroccio.

I Cinque stelle hanno ceduto sulla sanatoria per gli irregolari caldeggiata dalla renziana Teresa Bellanova – e sponsorizzata dal Pd. La prossima vittima saranno i decreti Sicurezza: Luciana Lamorgese sta preparando il nuovo testo. «Accetteremo solo le modifiche chieste dal Colle» ha garantito Carlo Sibilia, sottosegretario del Viminale. Vedremo. Il pentastellato, nel frattempo, ammorbidisce la posizione del partito sui soldi del Mes: «Senza clausole è un’altra cosa. A quel punto, li prenderemmo». Con lui è d’accordo il senatore Primo Di Nicola. Il Pd si frega le mani.

Giarrusso ipotizza: «In Aula il M5s non lo voterà, lascerà che passi grazie a Forza Italia e dirà: “L’ha voluto il Parlamento”». E il Conte bis la sfangherà. Un grillino in incognito, invece, ci prospetta uno scenario più disonorevole: «Qualcuno salirà sulle barricate. Non abbastanza per la scissione. La maggior parte, pur di non rinunciare allo scranno facendo saltare il governo, ingoierà l’ennesimo rospo». Da grillini a topolini nelle fauci del Pd.

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