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E se la Cina fosse il classico colosso dai piedi d’argilla?

E se la Cina fosse il classico colosso dai piedi d’argilla?

La crescita impetuosa del Dragone frena bruscamente negli ultimi mesi. I segnali negativi arrivano da molti settori: il debito interno in aumento esplosivo, la produzione tagliata a causa dei costi energetici, i crac immobiliari, le difficoltà nei mega progetti all’estero e il deficit demografico che peserà sempre più sulla Fabbrica del mondo. Xi Jinping rischia di dover ridimensionare le sue ambizioni globali. Come le Olimpiadi invernali che si stanno svolgendo…


E se poi il giusto simbolo della Cina non fosse il dragone fiammeggiante di sempre, ma un più banale colosso dai piedi d’argilla, così simile ai guerrieri di terracotta seppelliti da oltre 2.000 anni nelle campagne attorno a Xi’an? I dati economici che arrivano da Pechino non sono positivi, e contraddicono due anni di gloria. Nel 2020, mentre nel resto del mondo l’economia si fermava per colpa del Covid, la Cina aveva visto crescere del 2,3% il suo Prodotto interno lordo. Nel 2021, poi, il Pil cinese ha fatto un balzo impetuoso: l’8,%.

Ora però il treno di Pechino è in frenata: dal luglio scorso la crescita prosegue, ma a un ritmo sempre più rallentato; tra ottobre e dicembre è aumentata solo del 4%. Oggi anche le nuove restrittive politiche anti-Covid contribuiscono alla decelerazione: sono bastati pochissimi contagi e il governo per qualche settimana ha chiuso un terminal del porto di Ningbo, il terzo del Paese.

Certo, il rallentamento si giustifica soprattutto con i rincari dell’energia: nel 2021 la scarsità di combustibile ha colpito quasi metà delle attività industriali. Dalla fine d’agosto, molte province hanno conosciuto razionamenti nell’elettricità, poi il fenomeno si è allargato a tutta la Cina. Ovunque viene tagliata l’illuminazione stradale e si verificano blackout, con uno stop a intermittenza delle attività industriali che proseguirà almeno per metà del 2022. Manca soprattutto carbone, il combustibile che in Cina pesa per sette decimi sulla generazione di energia.

I problemi logistici e produttivi si fondono con l’impennata dei costi dei trasporti intercontinentali: se portare un container da Shanghai a Rotterdam, prima della pandemia, costava 600 euro, oggi si arriva a 13.000 euro. Tutto questo sta convincendo molte grandi società straniere a lasciare la «Fabbrica del mondo» e spostarsi altrove. Molte vanno in Vietnam e Bangladesh, dove il costo del lavoro è più vantaggioso. Altre, soprattutto le aziende americane, tornano in patria anche per sfuggire alla guerra dei dazi. È difficile dare dimensioni e numeri a questo fenomeno, il cosiddetto «reshoring». Ma gli effetti sulla produzione cinese sono durissimi.

Non va mai dimenticato, poi, che in Cina le statistiche ufficiali sono spesso falsificate – in positivo – a uso politico: Bo Zuhang, un economista che lavora all’Università di Boston, sostiene per esempio che la vera crescita del Pil nel 2021 sia stata molto più bassa dell’8,1%, e stima sia arrivata al massimo al 5,5. Quali siano la sue reali dimensioni, la brusca frenata dell’economia è un guaio per il regime di Pechino, che ha bisogno di tassi di crescita assai superiori per garantirsi la pace sociale senza dover accrescere il già penetrantissimo controllo su 1,4 miliardi di sudditi. Anche perché la disoccupazione, a fine anno, è aumentata oltre il 5%.

Per tenere buone le masse, il presidente Xi Jinping e il Partito comunista hanno promesso tagli alle tasse che però saranno difficili da realizzare. Non solo per la preoccupante crescita del debito aggregato cinese, cioè l’insieme dei debiti dello Stato, delle famiglie e delle aziende, che nel marzo 2021 superava i 46.000 miliardi di dollari, una quota vicina al 290% del Pil, e oggi è vicina al 300%. Ma anche perché da mesi il governo è disperatamente a corto di liquidità.

Infatti nel 2021 il prelievo fiscale generale è aumentato quasi dell’11% (a 3.000 miliardi di dollari) e le province sono sempre più costrette a imporre tagli di spesa. Il South China Morning Post, l’ultimo giornale libero che ancora esce a Hong Kong, ha appena segnalato l’ondata d’indignazione montata sui social network dopo le proteste postate online da Timothy Tian, un funzionario pubblico di Hangzhou, capitale della provincia dello Zheijang, costretto ad accettare la riduzione di un quarto dello stipendio.

Il debito è davvero un problema incombente sulla Repubblica popolare. A metà del 2021, Standard & Poor’s segnalava che 4,5 milioni di piccole imprese cinesi erano fallite in un anno proprio per eccesso d’indebitamento, con il rischio di «un contagio sistemico, che accresce la fragilità finanziaria dell’intera Cina». L’agenzia americana notava che tutti quei crac aziendali prima o poi sarebbero emersi nei bilanci delle banche cinesi, con il concreto rischio di una sequenza senza precedenti di fallimenti anche nel credito.

Fin qui le cattive notizie. Poi ci sono quelle pessime. Una delle peggiori riguarda l’immane bolla immobiliare, che la scorsa estate ha cominciato a mostrare le sue dimensioni con la crisi di Evergrande, forse la più grande società privata del settore, che non riesce a fare fronte a 300 miliardi di dollari d’indebitamento. Il regime ha finora coperto l’emergenza con interventi autoritativi e decidendo di fare uno «spezzatino» dell’azienda, per poi nazionalizzarla.

Ma il default Evergrande è solo l’inizio dell’emergenza e rischia di essere la palla di neve che prepara la valanga. Perché la Cina è affollata di selve di grattacieli costruiti e in costruzione, in massima parte desolatamente disabitati. «Esistono addirittura 15 megalopoli, realizzate ex novo» dice l’economista torinese Mario Deaglio «dove da anni nessuno va a vivere». Nel giugno scorso l’Economist calcolava che un quinto delle abitazioni edificate nel Paese negli ultimi 10 anni fosse vuoto. Ma 100 milioni di appartamenti inutilizzati, più che un problema, sono un incubo.

Un incubo che, paradossalmente, nasce da un sogno: quello della ricchezza. Per oltre vent’anni, sospinti dalla crescita del costo delle case, i risparmiatori cinesi hanno investito in appartamenti e soprattutto in azioni delle società immobiliari. E dato che l’edilizia per la Cina era il più potente volano della crescita economica, le autorità politiche e monetarie hanno fatto di tutto per sostenere la domanda, che a sua volta ha fatto lievitare i prezzi.

Così gli acquisti sono cresciuti a un ritmo forsennato: i cinesi, nel mattone, avevano investito 471 miliardi di dollari nel 2008, ma nel 2020 sono arrivati a 2.166 miliardi. Il risultato è che oggi, mentre nei Paesi sviluppati l’edilizia pesa tra il 10 e il 20% del Pil, nella Repubblica popolare vale circa un terzo. «Ma tanti risparmiatori» ammonisce Deaglio «rischiano presto di trovarsi con in mano carta straccia al posto del mattone».

Oggi, in effetti, le quotazioni degli immobili sono gonfiate allo spasimo. L’economista Marcello Minenna della Bocconi calcola che a Hong Kong il rapporto tra il reddito medio annuo e il prezzo di un piccolo appartamento sia pari a 45, mentre a Pechino arriverebbe a 50. «Cifre così alte» ricorda Minenna «non si erano viste neppure in Giappone durante la bolla dei primi anni Novanta».

Questa è esattamente l’impressione che si sta diffondendo. E cioè che la Cina possa avere imboccato lo stesso concitato paradigma di espansione e crisi vissuto dal Giappone all’inizio degli anni Ottanta. Allora l’economia di Tokyo pareva destinata a conquistare il mondo grazie a un mix di tecnologia, produttività e aggressività dell’export, ma in pochi anni fu bloccata proprio dalla bolla immobiliare e dalla crisi della Borsa, e venne spinta in un decennio di recessione.

Il regime di Xi Jinping riuscirà a risolvere questa lunga serie di problemi? Saprà conservare il favore delle masse, oppure cercherà di distrarre il suo popolo alzando l’asticella dell’aggressività (anche militare) magari aumentando le pretese su Taiwan e sul Tibet indiano, o sulle isole contese al Giappone e alle Filippine?

Xi ha già incassato un fallimento con lo sgretolamento dell’ambizioso piano per la Nuova Via della seta, lanciato nel 2013 dopo la sua elezione a presidente. La Banca mondiale stima che, per costruire ferrovie, autostrade e porti in oltre 50 Paesi, in questi otto anni la Cina abbia investito 500 miliardi di dollari, 300 dei quali attraverso banche statali. Xi non è stato fortunato.

Molte opere sono state più lente del previsto e alla fine la crisi del Covid ha azzoppato l’impresa. Tanti Stati coinvolti, soprattutto in Africa, hanno contratto prestiti troppo onerosi e da mesi non fanno più fronte alle clausole-capestro dei prestiti cinesi. In molti casi, questo ha permesso a Pechino d’impadronirsi di risorse locali, miniere e imprese di Stato. In Uganda la Cina si è appena impossessata dell’aeroporto di Entebbe. Ora, però, l’insolvenza di molti governi inizia a impedire alle banche cinesi di rientrare dei prestiti.

Un altro «piccolo» inconveniente arriva dalle Olimpiadi invernali di Pechino. Sono costate circa 40 miliardi di dollari, ma il loro bilancio economico rischia di risolversi in un disastro per il blocco del turismo internazionale imposto dal Covid. Per arginare i contagi, il comitato olimpico ha deciso una cerimonia iniziale in formato ridotto, e ha stabilito che agli eventi sportivi assisteranno solo «gruppi selezionati di persone» e non saranno venduti biglietti al pubblico.

Ma il problema forse più complesso, per Xi, viene dal calo demografico: nel 2021 in Cina sono state registrate 10,6 milioni di nascite contro 12 milioni del 2020, che già era passato alla storia come l’anno meno prolifico dalla rivoluzione, nel 1949. Nel 2013 il governo ha abolito l’obbligo del «figlio unico» introdotto da Deng Xiaoping nel 1979, ma fin qui ogni sforzo è stato inutile, come se la vecchia regola fosse ormai stampata nel Dna di ogni coppia.

Così, ogni anno, circa 20 milioni di cinesi vanno in pensione e non ci sono giovani a sostituirli. Nel 2025, secondo studi dell’Università di Pechino, oltre 300 milioni di cinesi avranno più di 60 anni e si ritireranno dal lavoro. Il deficit del sistema previdenziale oggi vale il 2% del Pil, ma potrebbe arrivare al 10 in meno di dieci anni. E Lancet, la storica rivista medico-scientifica britannica, prevede che la Cina possa passare da 1,4 miliardi di abitanti a 730 milioni entro la fine del secolo. I sogni di potenza di Xi, insomma, potrebbero infrangersi anche sulle culle vuote.


Ora l’ordine di Pechino regna a Hong Kong

E se la Cina fosse il classico colosso dai piedi d’argilla?
L’irruzione nel quotidiano online Stand News di Hong Kong il 29 dicembre 2021 (Ansa).

L’ordine regna a Hong Kong. Carrie Lam può dirsi soddisfatta: la governatrice-fantoccio dell’ex colonia britannica, che Pechino aveva nominato nel luglio 2017 per schiacciare gli ultimi sussulti della «Rivolta degli ombrelli» di tre anni prima, ha portato a termine la normalizzazione.

A Pechino è bastato meno di un lustro per cancellare i 155 anni di libertà vissuti dall’ex colonia britannica tra il 1842 e il 1997. Quando Londra era stata costretta a cederla alla Cina, un quarto di secolo fa, Hong Kong era divenuta «Regione amministrativa speciale» della Repubblica popolare. Fino al 2017, però, ha goduto di grande autonomia.

Nel trattato, firmato il 19 dicembre 1984 da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping ed entrato in vigore il 1° luglio 1997, Pechino s’impegnava a lasciare «invariato il sistema politico, economico e amministrativo della città fino al 2047». Xi Jinping, salito al potere tra il 2012 e il 2013, ha fatto dell’annullamento di quell’impegno una delle sue priorità.

Il risultato finale oggi dovrebbe suscitare indignazione planetaria. Invece, nell’indifferenza del mondo occidentale, quasi 8 milioni di cittadini un tempo liberi sono assoggettati al regime. Il controllo della Repubblica popolare può dirsi pieno, completo, assoluto. Dal suo palazzo del potere, il compagno presidente Xi è libero di volgere lo sguardo altrove…

Gli arresti erano iniziati già nella seconda metà 2020 dopo il varo della Safeguarding national security law, legge promulgata in risposta alla mobilitazione pro-democrazia del 2019, quando Hong Kong per mesi era stata teatro di proteste tese a denunciare l’attacco della Cina.

La legge ha introdotto i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere, puniti fino a 10 anni di reclusione e con una formulazione ambigua che ha dato mano libera alla polizia. Un tempo Hong Kong ospitava alcuni dei media più liberi e aggressivi dell’Asia.

Fino alla mezzanotte del 19 giugno 2020, nella città-Stato era possibile manifestare ogni opinione, protestare pubblicamente, fondare un partito o un movimento, leggere e scrivere giornali del tutto liberi. Dal giorno dopo, ogni libertà è stata abrogata. In due anni sono stati chiusi quotidiani, case editrici, librerie. Gli arresti sono stati innumerevoli. Nel 2021 sono cominciati i processi, spesso finiti con pesanti condanne detentive.

Il cruciale taglio dell’ultimo legame con le antiche regole democratiche è avvenuto tra il 19 e il 20 dicembre scorsi, quando Hong Kong ha votato per il nuovo Consiglio legislativo, una finzione scenica di Parlamento piegato al volere di Pechino. È stata applicata per la prima volta la legge elettorale imposta all’inizio dello scorso anno, che impedisce la gara a partiti o movimenti non controllati dal regime.

In due giorni ha votato poco più del 30% degli aventi diritto, l’altro 70 ha preferito l’astensione e il boicottaggio. Sono stati eletti gli 89 deputati previsti dell’establishment pro-Pechino, e un solo esponente dell’opposizione. Trionfante, Carrie Lam ha dichiarato: «Ora finalmente i patrioti governano Hong Kong». Subito dopo, la notte del 23 dicembre, con gesto teatrale le autorità hanno rimosso il «Pilastro della vergogna» che da 30 anni sorgeva nell’Università di Hong Kong.

La statua, alta otto metri, celebrava le proteste di piazza Tienanmen con una colonna di corpi contorti, accatastati uno sopra l’altro. Era l’unica che, in tutta la Cina, ricordava il massacro del 1989. Le elezioni erano state precedute da uno stillicidio di arresti intimidatori, eseguiti sempre in modo spettacolare: esponenti del dissenso, giornalisti, studenti.

Dopo il voto, l’accelerazione è stata impressionante. Il 29 dicembre, 200 agenti della nuova Sezione sicurezza nazionale della polizia di Hong Kong hanno fatto irruzione nel quotidiano online Stand News. Hanno sequestrato computer e archivi, hanno arrestano sei giornalisti e chiuso le pubblicazioni di uno dei pochi media d’opposizione rimasti in città. Il 3 gennaio la Safeguarding national security ha replicato la scena con il Citizen News, un combattivo sito internet indipendente. Il 6 gennaio è toccato a 53 esponenti del dissenso, accusati di sovversione solo per aver cercato di organizzare elezioni primarie per il voto di dicembre.

Tre settimane fa Carrie Lam ha annunciato che Hong Kong presto conoscerà un’altra stretta. Arriverà una riforma della Safeguarding national security law, con pene ancora più dure per i reati di tradimento, secessione, sedizione, sovversione e furto di segreti di Stato. Sarà vietato a qualsiasi organizzazione politica straniera (quindi anche a quelle per i diritti umani, come Amnesty International) di svolgere qualsiasi attività a Hong Kong, e agli abitanti dell’ex città-Stato sarà proibito avere contatti con organi politici all’estero.

Di fronte al «nuovo ordine» cinese, negli ultimi anni in molti sono fuggiti da Hong Kong e ogni giorno tanti cercano di scappare. Ma Pechino non può tollerare nemmeno che la diaspora possa creare reti estere del dissenso. Così, fin dai tempi della «Rivolta degli ombrelli» nel 2014, ha lanciato l’operazione Liè hú, «caccia alla volpe». Altri ne parlano come dell’operazione Sky net, «rete del cielo».

Quale sia il nome, l’obiettivo è uno: riportare con la forza nella Repubblica popolare ogni fuggitivo che il regime consideri una minaccia. Tutti i mezzi sono ammessi. Gli espatriati vengono obbligati al rientro con il ricatto esercitato attraverso minacce e pressioni violente sulle famiglie rimaste a Hong Kong. In certi casi si tratta di veri rapimenti sul suolo straniero.

Il primo a denunciare l’operazione Liè hú è stato il direttore del Federal bureau of investigation, Christopher Wray, il quale ha raccontato nel 2020 che sarebbe stata voluta dal presidente Xi Jinping in persona e centinaia di cittadini cinesi ospitati negli Stati Uniti ne sarebbero finiti vittime.

A confermare l’esistenza di tali «blitz» è anche Safeguard Defenders, un’organizzazione di tutela dei diritti umani fondata tra espatriati cinesi nel 2016. In un rapporto pubblicato lo scorso 18 gennaio, si legge che dal 2014 i rientri forzati di cui l’organizzazione ha trovato notizia ufficiale sarebbero stati 9.946, da 120 Paesi, ma che il numero reale sarebbe molto più alto.

Con l’aggettivo «forzati», Safeguard Defenders indica tre modalità di ritorni in Cina. Nella maggior parte dei casi i dissidenti all’estero sarebbero stati costretti a rientrare a causa delle disperate richieste ricevute dalle famiglie rimaste in patria, a loro volta vittime di violenze o minacce da parte delle autorità cinesi. In molti altri casi i fuggitivi sarebbero stati avvicinati e «convinti» al rimpatrio da agenti ufficiali in missione coperta nei loro nuovi Paesi di residenza.

In alcuni di questi Stati (pare soprattutto in Thailandia e Birmania), gli agenti cinesi in trasferta sarebbero arrivati addirittura a rapire i dissidenti. Safeguard Defenders ha mappato in particolare 62 casi, 20 dei quali avvenuti negli Stati Uniti e 9 in Australia. In Europa i rientri forzati sarebbero stati sei, tra Regno Unito, Francia e Olanda.

Ma anche l’Italia potrebbe essere coinvolta. Nei servizi di sicurezza italiani c’è chi ipotizza che le migliaia di telecamere con riconoscimento facciale piazzate da importanti imprese cinesi nel nostro Paese, anche nelle Procure della Repubblica e perfino a Palazzo Chigi (si veda in proposito Panorama n. 18 del 28 aprile 2021), possano far parte dell’operazione.

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