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Benvenuti nel Delucastan

Benvenuti nel Delucastan

Un po’ sultanato del Golfo, un po’ ex-repubblica sovietica… In ogni caso, nell’istituzione regionale dell’ormai leggendario presidente della Campania, le tradizioni dinastiche si accompagnano all’edilizia celebrativa e si cementano con incarichi elargiti ai più
fedeli. Non basta: l’obiettivo adesso è quello di cambiare i regolamenti in vista di un possibile terzo mandato.


Da un sussidiario del futuro: «La dinastia De Luca regnò sulla Campania dal 2015, anno dell’elezione del capostipite Vincenzo I salernitanus, al 2100 grazie a una modifica alla legge elettorale regionale che abolì il vincolo dei due mandati presidenziali. Gli successero i figli, i nipoti…».

Forse non andrà esattamente così, ma l’intenzione pare quella. Il governatore Vincenzo De Luca ambisce al ruolo di dictator perpetuus della Campania contando sulla straordinaria popolarità conquistata con l’emergenza Covid e su un’articolata rete di potere che nessuno, per ora, sembra poter fronteggiare.

‘O sceriffo. ‘O presidente. Il capo. Lui. Quello del terzo piano (riferito all’ufficio di Palazzo Santa Lucia). I soprannomi si sprecano per l’uomo che, a quattro anni dalla conclusione della sua seconda e ultima consiliatura, ha già deciso di volersi ricandidare per quella successiva. «A meno che non ci sia qualcosa di meglio» ha però democraticamente precisato. Ovvio che non c’è, con i dem e i pentastellati ridotti, grazie a un incantesimo degno di Circe, ad animaletti da compagnia. Ma questo fa parte della strategia.

Questo mese, il consiglio regionale inizierà a studiare la riforma della legge elettorale e dello statuto campani. L’operazione non è semplice ma neppure impossibile: la norma nazionale 164 del 2004, in attuazione dell’articolo 122 della Costituzione, impedisce sì ai politici di andare oltre i 10 anni consecutivi di amministrazione in un Ente regionale, ma demanda poi ai singoli parlamenti locali come e quando recepire la direttiva.

Il trucchetto studiato dai De Luca boys è più o meno lo stesso che ha portato Luca Zaia a presentarsi alle urne per la terza volta in Veneto. Facendo approvare ora la riforma elettorale, l’espresso divieto dei due mandati scatterebbe a partire dal quinquennio 2025-2030 con un’ulteriore finestra aperta fino al 2035. E così don Vincenzo si vedrebbe cancellata l’eventuale incandidabilità pregressa. In pratica, un grande reset istituzionale.

«Ma resta la condizione che De Luca dovrà comunque vincere le elezioni in futuro» concedono i sostenitori. Sì, ma quale De Luca? Il grande vecchio o uno dei rampolli? Roberto, dopo essere uscito da una inchiesta giudiziaria, ricavandone un non troppo fortunato libro di memorie intitolato L’uragano, punta a rientrare nel giro come assessore o vicesindaco a Salerno, il feudo della casata.

Piero, invece, è vice capogruppo alla Camera dei deputati per il Pd e, a parte qualche fastidio processuale (è imputato per bancarotta), ha arricchito, un po’ a sorpresa, il suo cv con la nomina a docente universitario di diritto dell’Unione europea nell’ateneo di Cassino. La promozione è arrivata nel dicembre scorso, durante gli ultimi mesi al ministero dell’Università di Gaetano Manfredi, oggi candidato sindaco a Napoli in quota dem-grillini. Se e quando il governatore dovesse decidere di passare la mano, un figlio – giurano quelli che li conoscono bene – ne erediterà il posto.

Intanto, il pater familias sta lì e picchia duro sui suoi stessi compagni di partito definiti, all’ultima Festa dell’Unità a Bologna, «angoscianti» e «anime morte». «Io il ddl Zan così com’è non lo avrei votato perché si deve correggere almeno la parte che riguarda le scuole: ma davvero pensate che alle elementari facciamo la giornata di riflessione sull’omotransfobia? Ma andate al diavolo» ha ringhiato con l’usuale e ormai proverbiale savoir faire.

Un’intemerata che i più hanno letto come l’inizio della scalata del partito a Roma. Dove, al di là del Tevere, ‘o Sceriffo coltiva insospettabili rapporti con le gerarchie vaticane. Il 21 settembre scorso, per celebrare la messa in onore di San Matteo, patrono di Salerno, si è mosso addirittura il segretario di Stato, monsignor Pietro Parolin. E lo ha fatto nel luogo simbolo del «DeLucastan»: la nuovissima piazza della Libertà. Un’agorà di 28.000 metri quadrati costata al governatore un bel po’ di procedimenti penali da cui è sempre uscito indenne.

In uno di questi, relativo alla deviazione del fiume Fusandola, è tutt’ora impigliata però la compagna, Maria Maddalena Cantisani, dirigente del settore Urbanistico del Comune di Salerno. «È la nuova San Pietro» ha detto asciugandosi una lacrima sul viso. «Solo che la nostra è sul mare. Ed è più capiente». Lo sceriffo diventato Papa buono, ma senza carezza. «Siamo l’Italia… i ricorsi, i controricorsi… raccontate ai figli dei figli tutto questo. Dite loro che c’è uno che non si è mai fatto fermare… Un’opera così si realizza ogni 500 anni». Edilizia, mon amour. I costruttori sono un solido asse monarchico. De Luca ha promesso una ondata di cemento sulla Campania per oltre un miliardo e mezzo di euro.

In successione, ha in mente di costruire: una nuova sede della Regione Campania nella periferia orientale di Napoli; un nuovo polo pediatrico sempre a Napoli; un nuovo policlinico a Salerno, un nuovo palazzetto dello sport ancora a Salerno; e una nuova tratta della metropolitana. Indovinate dove? Bravi, a Salerno.

Da queste parti, le betoniere corrono più veloci dei treni. D’altronde, in Campania c’è la ferrovia peggiore d’Italia (vedasi dossier Legambiente) guidata da Umberto De Gregorio, direttore generale e presidente di Eav, la famigerata Circumvesuviana. De Gregorio, che aveva coltivato per un periodo ambizioni da candidato sindaco a Napoli, è stato subito rimesso in riga dal capo.

Promozioni e bocciature sono disegni imperscrutabili nei piani dello sceriffo che più di una volta ha tranciato, con disinvoltura, amicizie decennali solo perché il malaugurato aveva avuto funeste tentazioni di autonomia di pensiero. «È sufficiente che io sia seguace di me stesso» diceva il Mahatma Gandhi. E De Luca senza dubbio concorda. I suoi assessori regionali sono praticamente fantasmi. Zero interviste, zero visione politica, zero capacità di intervento nel dibattito locale. Per di più la giunta è commissariata dagli uffici di diretta collaborazione del presidente che contano decine e decine di fedelissimi. Tutti educati al verbo deluchiano. Qualcuno fin troppo, però.

Come Enrico Coscioni, ex consigliere per la Sanità del governatore, condannato in appello a due anni (pena sospesa) per tentata violenza privata e continuata, aggravata dall’abuso di potere. Nel 2015, subito dopo la prima vittoria alle urne di don Vincenzo, Coscioni ebbe la brillante idea di convocare tre manager sanitari per invitarli, con metodi assai spicci, a lasciare il posto a gente gradita al nuovo governatore. In quello stesso anno, sempre Coscioni fu intercettato, in un altro filone, mentre parlava con De Luca delle nomine Asl. «Facciamo solo Salerno, voglio fare solo Salerno domani, per ragioni simboliche oltre che funzionali… perché se no ci sputano in faccia» fu il commento del governatore alla richiesta di istruzioni del suo braccio destro.

Coscioni, che oggi è il presidente dell’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), è pure indagato in un filone d’inchiesta della Procura di Napoli per affidamenti e appalti nella fase di emergenza della pandemia. «Non cambia nulla» ha risposto De Luca a chi gli chiedeva un commento sulla sentenza.

E c’è da credergli visto come ha riaccolto (con uno stipendio da 9.000 euro al mese) nella sua segreteria Nello Mastursi, gran ciambellano di Palazzo Santa Lucia, condannato a 18 mesi per induzione indebita per aver tentato nel 2015 di salvare il capo dagli effetti della legge Severino mercanteggiando «l’acquisto» di una ordinanza di un giudice. Ma il governatore sa dimenticare e perdonare.

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