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Ucraina, anatomia di un conflitto

Ucraina, anatomia di un conflitto

L’attacco militare russo è il tassello finale di una strategia iniziata molto prima a colpi di cyber-incursioni, propaganda, disinformazione… Una guerra ibrida, diversa, che ora rivela la sua devastante efficacia. E che però contiene esiti imprevedibili.


Nel buio di una notte senza luna si accendono i lampeggianti dei grandi camion scoperti che trasportano i carri armati ucraini. Blindati, tank e armi antiaeree sono arrivati con due treni, che sembrano interminabili, incrociati a un passaggio a livello nella zona di guerra del Donbass. La colonna militare è diretta al fronte di Luhansk, una delle roccaforti dei separatisti riconosciuti il 21 febbraio dal presidente russo Vladimir Putin. Rinforzi per alimentare il confitto che dura da 8 anni, con 14 mila morti. Forze d’attacco, denunciano i leader separatisti, che hanno trovato il pretesto per chiedere l’intervento di Mosca. Ormai però è tardi. Le truppe russe hanno invaso il Paese, con Kiev e altre città in un attacco globale che provoca vittime e danni alle strutture, mentre chi ha potuto è fuggito verso Occidente.

L’invasione è l’ultimo atto di una guerra non più fantasma, con cui Mosca è venuta a riprendersi il «suo territorio»; una guerra però iniziata due mesi prima con operazioni ibride come l’info war americana, mista a propaganda, la disinformazione, gli attacchi cyber, le provocazioni sotto falsa bandiera e un dispiegamento impressionante di forze russe per mostrare i muscoli, incutere timore e testare l’avversario. Da anni l’ideatore di questa strategia è il generale Valery Vasilyevich Gerasimov, capo di Stato maggiore russo sanzionato dall’Unione europea «per aver minato l’integrità territoriale, l’integrità, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina». Andrey Buzarov, originario di Donetsk e consigliere del parlamento a Kiev per il Donbass, non ha dubbi e dice a Panorama: «Il punto principale della dottrina Gerasimov è spostare l’asse su operazioni politiche, economiche, ibride, oltreché militari, per ottenere il controllo del Paese».

Tutto inizia il 6 dicembre quando Leonid Pasechnik e Denis Pushilin, leader delle due repubblichette secessioniste del Donbass, Ucraina orientale, si presentano a Mosca. L’occasione è la grande festa di Russia unita e il tesseramento dei capi secessionisti di Donetsk e Luhanks nel partito di Putin. Le antenne americane a Mosca registrano subito il pericolo e quando i russi cominciano a manovrare 130 mila uomini attorno all’Ucraina, per far sfoggio di potenza, lanciano un’inedita info war. In pratica, le informazioni di intelligence, che per definizione dovrebbero restare segrete, vengono passate ai giornali americani o spiattellate in pubblico dallo stesso presidente Usa, Joe Biden. L’obiettivo è stanare i russi, ma la Casa Bianca inciampa più volte esagerando, fino a indicare il 16 febbraio come data dell’invasione. All’ora X non accade nulla a parte la presa in giro di Mosca sull’«isteria occidentale». Cinque giorni dopo arriva la zampata dell’orso russo con il riconoscimento delle repubbliche secessioniste.

«Il conflitto in Ucraina è diverso da ogni altro mai visto prima. La guerra ibrida innescata dalla Russia negli ultimi due decenni si basa, come oggi, su propaganda, guerra psicologica e attacchi informatici tanto quanto sulla potenza di fuoco» scriveva Anshel Pfeffer sul quotidiano israeliano Haretz prima dell’attacco di Putin. Il conflitto «fantasma» di Gerasimov, che nel 2013 preparava la sua dottrina prevedendo che «le regole della guerra sono cambiate. Il ruolo di mezzi non militari per raggiungere obiettivi politici e strategici è cresciuto e supera il potere della forza delle armi e della loro efficacia». Il generale aggiungeva che «le azioni asimmetriche si sono diffuse consentendo l’uso di speciali forze operative e di opposizione interna per creare caos permanentemente operando frontalmente su tutto il territorio dello stato nemico, nonché azioni informative, dispositivi, e mezzi costantemente perfezionati».

Ora gli scontri dalla teoria sono passati al campo aperto. Nel Donbass, però, si è sempre combattuto un conflitto dai contorni medievali. «Un commilitone è caduto in battaglia» racconta un giovane ufficiale ucraino. «I separatisti hanno trovato il suo telefonino e scattato una foto del cadavere smembrato per poi inviarla a tutti i contatti del cellulare compresi i familiari». Per non parlare del mercato dei corpi: «Chiedono il riscatto che solitamente si aggira sui 10 mila dollari, ma per i caduti di famiglie in vista può arrivare a 50 mila».

A Donetsk, roccaforte dei separatisti, un italiano vive da anni nel Donbass con la famiglia. «Una tragedia: mi sembra di essere tornato ai tempi peggiori della guerra» racconta, chiedendo l’anonimato. «Quello a cui assistiamo oggi non era successo neanche all’inizio, nel 2014, ma adesso oltre a un figlio ho un nipotino. Vivo e lavoro qui, dove posso andare?». I leader separatisti, prima dello scoppio delle ostilità, hanno inviato via sms la richiesta a tutti i civili di lasciare il Donbass. L’esodo, con 90 mila persone evacuate nella vicina regione russa di Rostov, suona come «artificiale». Il comandante delle forze armate ucraine, generale Valerii Zaluzhnyi, denuncia, prima dell’attacco, che gli sfollati «vengono usati per arrivare a un’escalation e provocare un altro bagno di sangue».

Mosca, seguendo la dottrina Gerasimov, dipinge la situazione come una crisi umanitaria per paragonare le truppe a «soldati di pace», come i caschi blu. Poi però cade la maschera. La situazione precipita dopo migliaia di violazioni del cessate il fuoco lungo la linea del fronte in pochi giorni. «Curioso come americani, inglesi, canadesi, gli occidentali duri e puri, abbiano ritirato subito i loro osservatori dalla missione Ocse (Organizzazione per la cooperazione e sicurezza in Europa, ndr) nel momento di maggior bisogno» sottolinea a Panorama una fonte diplomatica. Gli italiani, una quindicina, sono rimasti con il difficile compito di capire chi spara per primo e dove.

Usa e Nato hanno fatto una pessima figura evacuando l’ambasciata e il personale da Kiev a Leopoli, nell’Ucraina ovest, roccaforte nazionalista. «La notte del riconoscimento delle repubbliche separatiste gli americani sono fuggiti in Polonia» conferma una fonte militare ucraina. A Kiev, poche ore prima che i parà russi prendano il controllo dell’aeroporto, i giovani ballano in piazza Maidan, dove tutto è iniziato, al ritmo di musica pop. Ubriachi hanno inneggiano al Donbass. Il caos, dunque. E un giovane ufficiale commenta: «Non si rendono conto che siamo sull’orlo del baratro».

Per provocare il conflitto alla ricerca di un casus belli i filo russi del Donbass le hanno provate tutte dimostrandosi, però, dilettanti allo sbaraglio. La sera dell’appello all’evacuazione generale è saltata in aria una macchina vicino al palazzo del governo autoproclamato a Donetsk, sulla piazza dove resiste la statua di Lenin. Le prime notizie parlavano di un attentato a un importante boss di una milizia filo russa. Si è scoperto che la targa era la sua, ma l’auto una vecchia carcassa sotto falsa bandiera. I presunti video di sabotatori ucraini che piazzano esplosivi nel Donbass sono stati smascherati dagli specialisti americani. Attraverso i metadati è stato scoperto che la data di montaggio era tre giorni prima dell’ipotetico attacco e le immagini originali risalivano al 2021.

Più incisiva l’offensiva informatica per mettere in crisi servizi pubblici e gangli vitali del potere. Poche ore prima dell’offensiva russa gli hacker hanno bloccato il sito del ministero degli Esteri ucraino, del Parlamento e dei servizi segreti. E hanno colpito le banche, seguendo i dettami di Gerasimov sull’arma economica. Non solo: i continui allarmi dell’imminente invasione, alimentati ad arte dai movimenti di truppe russe, «hanno causato danni all’Ucraina per 2-3 miliardi di dollari al mese» dice Rostislav Shurma, vicecapo dell’ufficio di presidenza di Kiev. A fine gennaio, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva denunciato una fuga di capitali dal Paese per 12,5 miliardi di dollari a causa della stessa info war americana sui piani di Mosca. La battaglia economica del conflitto era già stata vinta da Mosca.

Gli ucraini, a loro volta, hanno alimentato lo stato di allarme mobilitando i riservisti e invitando i civili ad addestrarsi alla resistenza. Arzille signore di 70 anni hanno frequentato i poligoni per sparare e imparare a salire su un blindato. I reparti paramilitari hanno reclutano volontari stranieri: americani, inglesi, albanesi. E anche un indiano nella Legione georgiana. «Arrivano centinaia di richieste da tutto il mondo. Cinque italiani, ex militari, vogliono unirsi a noi per addestrare i volontari e aiutare gli ucraini a difendere la libertà» rivela Mamuka Mamulashvili, barba curata, capelli a spazzola e giubbone nero dell’US Army. Appare tutto inutile, ora, davanti al devastante attacco russo, che avanza martellando la capitale e porta le truppe a Kharkiv e Odessa. Anche qui a Severodonetsk, sulla prima linea di Luhanks, la tempesta è arrivata.

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