Mega grattacieli e deserti trasformati in centri commerciali. La grandeur urbanistica del presidente egiziano va di pari passo ai suoi interessi personali. Ma ora i progetti stanno mostrando tutti i loro limiti, in un Paese segnato dalla crisi economica.
La Iconic Tower, il grattacielo più alto di tutta l’Africa, affilato, in vetro e acciaio, svetterà presto nella neo capitale dell’Egitto, a 45 chilometri dal centro del Cairo. Con i suoi 385,8 metri, è solo l’ultimo atto dei progetti grandiosi, a volte spropositati, del presidente Abdel Fattah Al-Sisi. L’edificio, 80 piani, sarà utilizzato per uffici e costerà 3 miliardi di dollari.
«Sarà il simbolo della nuova era» ha enfatizzato il primo ministro Mostafa Madbouly. Nella visione di Al-Sisi è un’altra perla da inanellare nella sua collana di giganti edilizi e infrastrutturali. Un tocco ulteriore nella vanità del rais, che alterna abiti in stile occidentale alla divisa militare su cui spiccano le medaglie collezionate nella sua corsa al potere.
La nuova capitale è il fiore all’occhiello della sua idea di Egitto: trasformare un’area di 700 chilometri quadrati di deserto in una rete di centri commerciali, residenze, hotel, edifici governativi e sedi di aziende. Peccato che ora il piano sia a corto di finanziamenti. Il budget previsto per il suo completamento è 50 miliardi di dollari o più. Tra gli investitori, gli Emirati Arabi Uniti sono stati i primi a ritirarsi, seguiti dai cinesi.
Circa il 20% dei fondi proviene dall’estero, compresi 4,5 miliardi di dollari da Pechino. E appare sempre più evidente la velleità di queste ambizioni, inclusa quella di reinventare Il Cairo come una nuova Dubai nella valle del Nilo. Da quando Al-Sisi ha preso il potere con un colpo di Stato nel 2013, si è lanciato nella realizzazione di canali, ponti, città. Una visione nazionalista «vecchia scuola» per il 21° secolo che vuole imitare le recenti follie edilizie in Cina e Stati del Golfo. Il presidente è convinto che sia l’unica maniera per rilanciare l’economia e mantenere il consenso nel regime.
Ma la smania urbanistica serve anche a tener buono l’esercito, il vero garante del suo potere. Come dice a Panorama Karim Mezran, analista dell’Atlantic Council di Washington, «Al-Sisi prima di diventare presidente era un militare di secondo livello, sotto almeno 50 generali, e venne scelto proprio per questo dall’allora leader Mohamed Morsi come capo delle forze armate, perché gli fosse fedele». Invece ha deposto lo stesso Morsi inaugurando un piano di modernizzazione forsennato. Ha fatto realizzare un ampliamento non necessario del Canale di Suez, con lavori straordinari e costi altissimi.
Il nuovo faraone ha ripreso lì dove i piani di Hosni Mubarak si erano interrotti. Non è infatti il primo presidente egiziano a fare della costruzione immobiliare la sua priorità. Già Gamal Abdel Nasser negli anni Cinquanta aveva sostenuto mega-progetti, per sottolineare l’indipendenza post-coloniale dell’Egitto, così come Anwar Sadat, e più tardi Mubarak, per rimarcare l’apparente progresso e prosperità che derivavano dall’essere nell’orbita degli Stati Uniti.
In questo iperattivismo, le forze armate hanno gestito circa un quarto di tutte le opere pubbliche finanziate dal governo dal 2014 e sono intervenute in settori come la produzione di acciaio e cemento e la prospezione dell’oro. E mentre il ruolo crescente dei militari ha scoraggiato le attenzioni di investitori stranieri e imprese private nell’economia egiziana, il dinamismo nel mercato immobiliare ha portato alla costruzione di tre città «intelligenti», che hanno ricevuto oltre 200 miliardi di dollari di finanziamenti governativi nel 2014-2019.
Al-Sisi, nella sua gestione «piramidale» del potere, ha sempre contato su parenti e collaboratori stretti. Nel 2015 ha affidato a un compagno di classe dell’accademia militare un ruolo nell’agenzia che ha il compito di perseguire la corruzione. Poi lo ha sostituito nel 2018. Ciò ha dato maggiore autorità a suo figlio Mustafa, che è stato trasferito dall’intelligence militare a questo ente.
Agli altri suoi figli, Mahmoud e Hassan, sono state assegnate posizioni chiave nei servizi segreti. Hassan è il direttore delle comunicazioni all’interno del Mukhabarat, trasferito qui da una compagnia petrolifera statale. Mahmoud, invece, nel novembre 2019 è stato rimosso dal suo incarico e inviato all’ambasciata egiziana di Mosca. La colpa? Essersi allargato nei poteri a spese del padre. La fedeltà al dittatore dev’essere assoluta. Al-Sisi ha anche affidato al fratello la responsabilità dell’unità della Banca centrale che indaga sul riciclaggio di denaro.
In questo controllo familista e tentacolare dello Stato si è affiancato un duro programma di riforme sostenute dal Fondo monetario internazionale. La crescita è ripartita ma uno sguardo più approfondito ai dati rivela che i tassi di povertà sono in aumento, i sussidi ai beni di base sono stati tagliati e la classe media è schiacciata da un alto costo della vita. Nel 2019 migliaia di persone sono scese in piazza in diverse parti dell’Egitto, tra Il Cairo e Alessandria.
La gente gridava «vattene Al-Sisi» nella famosa piazza Tahrir della capitale, il centro della rivolta del 2011 che ha rovesciato Mubarak. Fattore scatenante delle proteste anti-governative è stato un video di un uomo d’affari egiziano in auto-esilio in Spagna, Mohamed Ali, che ha accusato Al-Sisi e l’esercito di sperperare fondi pubblici su progetti per compiacere la vanità del rais in un momento di difficoltà economica.
Ali, che ha lavorato come imprenditore edile per l’esercito per 15 anni, ha rivelato: «Al-Sisi ha portato la corruzione da un livello basso a uno più alto. Ho costruito cinque ville per i suoi collaboratori e un palazzo per lui in un campo militare al Cairo. Il suo governo continua a finanziare progetti infrastrutturali vani e stravaganti e la maggior parte degli egiziani può a malapena permettersi l’olio per cucinare».
Nonostante le forti convulsioni interne, l’Egitto resta cruciale negli equilibri geopolitici ed economici della regione. Questo intreccio rende assai difficile anche per l’Italia dare un taglio netto ai suoi rapporti con il Paese, nonostante il drammatico caso di Giulio Regeni, torturato e ucciso dalla polizia nel 2016, e ora la carcerazione di Patrick Zaki, lo studente dell’università di Bologna, in prigione da quasi un anno con accuse di «propaganda sovversiva».
Fincantieri ha venduto al Cairo due fregate Fremm per un valore di circa 1,2 miliardi di euro e ne sono già previste altre due entro il 2024. L’Eni ha scoperto nel 2016 Noor dopo aver già individuato il mega giacimento sottomarino di gas Zohr. L’Egitto resta infine un Paese-chiave nella questione libica.
Alla fine a dominare è la realpolitik. L’ultima concessione è arrivata dalla Francia di Emmanuel Macron, che ha conferito la Legione d’onore al rais. Anche in questo caso sono gli interessi a dettare la scelta. Il Cairo e Parigi condividono l’opposizione alla Turchia di Erdogan e alla sua crescente aggressività dal Mediterraneo Orientale alla Libia. Inoltre, i due Paesi hanno accordi per la vendita di armi: un patto da 5,2 miliardi di euro è stato firmato nel 2015, e nel 2016 l’Egitto ha acquistato attrezzature militari per un valore di oltre 1 miliardo di euro. Nell’anno 2016-2017, la Francia è stata classificata come l’undicesimo partner commerciale del Paese. Sono poi fondamentali gli interessi della compagnia petrolifera francese Total.
Nel frattempo i sogni del rais non si fermano. La nuova capitale egiziana è ancora senza nome, ma si sta già pensando di trasferire lì i ministeri per tenerli il più isolati possibile dal Cairo e dalla minaccia di sommosse. Sarà una «Zona Verde», come quella di Baghdad, dove Al-Sisi governerà al riparo dalle pressanti richieste dei 97 milioni di egiziani. Piazza Tahrir sarà solo un ricordo, probabilmente.
Eppure il potere non è mai al riparo da rischi. «Al-Sisi dovrà misurarsi con la questione della diga contesa con l’Etiopia» puntualizza Mezran «e si allineerà con l’Arabia Saudita dove è in corso uno scontro tra re Salman e il principe ereditario Mohammad bin Salman». Ma il suo dominio è davvero monolitico? «La magistratura non è completamente controllabile e in Egitto ci sono diverse fazioni, ci sono i politici, c’è l’esercito» aggiunge Mezran. «Anche ciò che è successo a Regeni è emblematico. Solo il fatto che si dica che la sua uccisione sia stata perpetrata da servizi al di fuori del controllo del presidente per metterlo in imbarazzo con l’Italia lascia capire che, anche nel suo regime, si sono aperte delle crepe».