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A perdere la trattativa Ue è stata la Commissione

A perdere la trattativa Ue è stata la Commissione

Rubrica: Portugal Street

Quello varato è un piano Marshall storico. L’asse franco-tedesco risulta sempre determinante per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. La Commissione Europea ne esce più debole. Ora l’Italia deve ritrovare credibilità. Ma dipende dalle riforme che metterà in atto.


L’accordo europeo sul Recovery Fund è un passaggio molto importante nella risposta economica alla pandemia. Per l’Unione Europea si può definire un accordo storico perché sancisce, in maniera esplicita, la possibilità di ricorrere al mercato finanziario e di avviare prime forme di mutualizzazione del debito. Inoltre, prevede la concessione di prestiti a fondo perduto, anche se i necessari compromessi europei ne hanno ridotto l’entità da 500 miliardi a 390 miliardi. Individuare vincenti e perdenti è un esercizio molto complesso, forse anche poco utile, tuttavia sottolineare punti di forza e di debolezza dell’accordo serve per comprendere dopo questi quattro giorni di negoziato dove è l’Europa. Sicuramente è stato adottato il piano Marshall (o l’impostazione hamiltoniana) che molti richiedevano per affrontare la pandemia. Con le risorse messe a disposizione degli Stati membri, di cui oltre la metà in prestiti, sarà più facile contenere i danni della crisi economica e sociale di questi mesi e rilanciare la crescita. La sostanziale emissione di titoli di debito europeo e la revisione delle rigide politiche di controllo del debito rappresentano un salto di paradigma nelle politiche dell’Unione Europea (e porteranno ad una revisione anche del Patto di stabilità e di crescita). Certamente si conferma una Europa a trazione intergovernativa, nella quale lo storico asse franco-tedesco, seppure indebolito risulta sempre determinante per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. E nello stesso tempo, le alleanze tra Paesi (vedi il cosiddetto blocco dei “frugali”) si sono dimostrate determinanti per l’equilibrio finale dell’accordo. Di conseguenza, risulta indebolita la posizione della Commissione Europea, non tanto perché il bilanciamento finale è mutato rispetto alla proposta iniziale quanto perché il bilancio comunitario è stato ridimensionato e sono stati ridotti quasi tutti i programmi comunitari (soprattutto quello per la transizione energetica, quello per gli aiuti alle imprese e quello della ricerca) indebolendo così la dimensione comunitaria dell’Europa. Ugualmente, il ricorso al meccanismo dei rebates sempre indicato come un’eredità avvelenata della signora Thatcher è tornato significativamente in auge, con cifre molto più robuste per i Paesi contributori netti diventando ormai una caratteristica strutturale dell’Unione Europea. Ne esce un’Unione Europea certamente più sicura nella sua strategia contro la crisi (ma che si affiderà ancora e molto alla BCE) ma anche con qualche evidente crepa nei meccanismi decisionali e nella sua dimensione comunitaria/federalista. E su questo tema si dovrà riflettere e lavorare in futuro. Ora la sfida è quella delle politiche che ogni Stato Membro dovrà mettere in azione, anche con un certo coordinamento comunitario, per sostenere la ripresa economica e produttiva. Dovrà essere scritto un piano Marshall nazionale tenendo con molta attenzione a ciò che sta avvenendo e ai primi interrogativi che affiorano riguardo la probabilità che dopo la crisi, dopo il rimbalzo che alcuni indicatori hanno mostrato, vi sia ora un ritorno a variabili negative di crescita ed occupazione. Gli oltre 200miliardi che arriveranno all’Italia (da ricordare in fasi successive) dovrebbero spingere per operare quelle riforme mai fatte per innalzare produttività e competitività per ridurre il differenziale tra Nord e Sud, per diminuire quelle diseguaglianze sociali che un sistema di welfare come quello italiano non cura ma produce e assiste. In pratica, riforma della Pubblica Amministrazione (ma non attraverso l’estensione dello smart working e una finta digitalizzazione), un robusto piano di investimenti infrastrutturali (basato sulla partnership pubblico-privato), un nuovo sistema educativo e di formazione (la strategia sulle competenze), politiche per il lavoro e non per il “divano”. Accanto a queste riforme una revisione delle politiche fiscali appare non più rinviabile, il cui obiettivo sia quello della riduzione generalizzata del carico fiscale. Nel frattempo, nei prossimi giorni il governo si appresta a chiedere un nuovo scostamento di bilancio (prevedibile dall’inizio quando sarebbe stato più utile fare un unico provvedimento piuttosto che tanti provvedimenti). Sarebbe importante meglio bilanciare le risorse per il lavoro e non solo aumentare le disponibilità per la cassa integrazione (a proposito, quando si potranno avare affidabili dati sull’utilizzo?). Il che significa abbandonare il blocco dei licenziamenti, rafforzare le politiche attive (quando si metterà ordine in Anpal?), promuovere azioni che riducano il costo del lavoro, intervenendo sia sulle assunzioni (incentivi rafforzati) sia sui salari (detassazione degli aumenti contrattuali). Il Paese deve rafforzare imprese e promuovere lavoro e non puntare solo sull’assistenza perché ciò produrrebbe un aumento senza fine (e non sostenibile) del debito. L’occasione è propizia cerchiamo di non sprecarla anche questa volta.

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