- I Cinque stelle che perdono parlamentari sull’onda dell’adesione al nuovo governo. Il Pd trascinato in basso dall’allenza con il Movimento. Che non ha capi o forse ne ha troppi. E mentre la vecchia maggioranza giallorossa implode, il centrodestra ritrova slancio e compattezza. Diventando l’ago della bilancia dell’esecutivo Draghi.
- Partito Democratico: «Grande è la confusione sotto al cielo»
Massimo D’Alema, che del recente intossicato è inesauribile consigliere, lo ammise in tempi non sospetti: «La politica è una malattia da cui non si guarisce mai». Dopo la rocambolesca uscita da Palazzo Chigi, pure l’ex premier, Giuseppe Conte, ha scoperto quanto sia difficile fare a meno del potere. La sua lectio magistralis alI’Università di Firenze, dov’è ordinario di Diritto privato, è destinata a rimanere, salvo intoppi, una fugace apparizione. Non ha nessunissima intenzione di tornare tra boriosi colleghi e vocianti ragazzotti, sia chiaro. Speravano di rivederlo almeno per qualche seminario, collegato in Dad, magari in tutona e pochette. Invece, no. L’indimenticabile Giuseppi è pronto a richiedere l’aspettativa, per dedicarsi anima e cuore all’impresa più disperata della storia repubblicana: resuscitare i Cinque stelle, risaldare l’alleanza con il Pd, condurre il centro sinistra al trionfo tra due anni.
Sperava in un futuro alla Winston Churchill, primo ministro inglese dall’impareggiabile prestigio, invece potrebbe ritrovarsi nei malconci panni di Brancalone da Norcia, al comando dei più scalcagnati. Dopo appena un mese di vita, il governo di Mario Draghi ha fatto piombare la coalizione in una crisi leggendaria. Persino aggravata dal vigore che vive il centrodestra, ringalluzzito anche dalla rimozione dei totem nella lotta alla pandemia, a partire dal supercommissario all’emergenza, Domenico Arcuri. Anche l’arrivo di consulenti economici, vedi il liberista Francesco Giavazzi e l’efficientista Carlo Cottarelli, sembra un oltraggio allo statalismo giallorosso, tutto bonus e assistenzialismo. Così come il cambio delle coordinate geografiche: prima decisamente spostate a Sud, già bacino elettorale dei grillini, e adesso puntate sul Nord più leghista, con lo strapotere lombardo nell’assegnazione dei ministeri. Matteo Salvini è raggiante. Silvio Berlusconi è rinato. Giorgia Meloni, dalla beata solitudine dell’opposizione, vive di rendita: i suoi Fratelli d’Italia tallonano nei sondaggi il Pd.
Invece dem, grillini, renziani e sinistra sono a pezzi. Anzi, a pezzettini. Dovevano essere il perno dell’unità nazionale. Continuano a darsele di santa ragione. Certo, i Cinque stelle non se la passavano granché nemmeno ai tempi del Conte bis. Adesso però il tormentato appoggio a Draghi accelera l’implosione. A tre anni dallo storico 33 per cento, nel totalizzatore dei cambi di casacca sono scattate le tre cifre: 100 parlamentari, tra addii ed espulsioni, usciti dal Movimento.
Per carità: la politica è (pure) incoerenza. Perfino il Winston adorato da Giuseppi maramaldeggiava: «Rimangiarmi le parole non mi ha mai dato l’indigestione». Perché dovremmo dunque sorprenderci per le giravolte di un comico diventato capo partito? Solo che il peccato originale di Grillo non consente assoluzione. Ha costruito le fortune elettorali insolentendo tutti gli avversari: manigoldi, trasformisti, poltronari. A settembre del 2011, di fronte ai palazzi romani traboccanti di marciume, Beppone, maglietta bianca tricolore e abbronzatura da Costa Smeralda, celebra per esempio il «Cozza day» contro i parlamentari. Gentaglia che non vuole rinunciare a intollerabili privilegi. Dieci anni dopo, chi sono i mitili più attaccati alla lisce scogliere di Montecitorio e Palazzo Madama?
Quella pentastellata, invece, doveva invece essere la culla della meritocrazia. Il sacro Blog invitava i fiduciosi «cittadini» a inviare curriculum pure per i consigli di circoscrizione. È finita con Luigi Di Maio, frizzante ma poco scolarizzato, che diventa leader, vicepremier e due volte ministro degli Esteri. «Si sono mangiati tutto!» ruggiva poi Grillo contro l’insaziabille appetito di potere dei politici.
Ma dopo il Movimento ha lottizzato il lottizzabile: dalla Rai ai colossi di Stato. E ora vogliono persino abolire la regola del «doppio mandato», a dispetto di un dogma che sembrava indissolubile: «Questa regola non si cambia, né esisteranno mai deroghe a essa» giurava Beppe. Per non parlare della promessa di morigeratezza, miseramente infranta a suon di inchieste e magheggi. «Ogni eletto percepirà un massimo di 3 mila euro di stipendio» cantava il Grillo. «Il resto dovrà versarlo al Tesoro, e rinunciare a ogni benefit parlamentare». Preistoria. I rendiconti delle spese sono improbabili. I rimborsi ormai risibili. Con il povero Davide Casaleggio, figlio del compianto cofondatore Gianroberto, costretto a batter cassa per avere l’obolo promesso alla Piattaforma Rousseau, già culla della democrazia telematica del Movimento.
Per non parlare delle alleanze, considerate inizialmente alla stregua di affiliazioni mafiose. Grillo era lapidario: «Non pensino di fare inciucetti e inciucini. Gli altri faranno un governissimo Pdmenoelle-Pdelle. Noi stiamo fuori. Nel non-statuto, e negli impegni sottoscritti dai nostri neoparlamentari, sono esclusi in modo categorico accordi con i partiti». Ora democratici e Cinque stelle fanno addirittura comunella in un’improbabile gruppo interparlamentare. È la premessa dell’eterna coalizione. L’epilogo, dopo valanghe di improperi al Pd: da «partito preferito dalla camorra» al «partito di Bibbiano». Ma nell’estate del 2019, Beppe, con «la coerenza dello scarafaggio», annuncia di doversi innalzare «per salvare l’Italia dai nuovi barbari». Nasce l’«Elevato». Che adesso giustifica teatralmente il terzo governo in tre anni: nell’ennesima gita romana per tentar inutilmente di ricomporre i dissidi, indossa un casco spaziale. Come Kunt, il marziano di Ennio Flaiano, che atterra con la sua astronave a Villa Borghese nell’entusiasmo generale. Ma poi diventa uno qualunque, ignorato da tutti. E i fotografi, che prima si accalcavano per immortalarlo, gli dicono: «A marzia’, te scansi?».
Provate dunque a mettervi nei panni dei tanti che, ingenuamente, hanno creduto nel mondo nuovo preconizzato dai pentastellati. Ora si ritrovano con Di Maio, quello del «Vaffa day» alla casta e l’impeachment contro il presidente delle Repubblica, che annuncia la «svolta moderata». E pensare che, appena due anni fa, volava a Parigi per incontrare Christof Chalencon, il leader dei Gilet gialli che evocava un colpo di stato militare in Francia. «Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi. Ripeto. Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi» annotava Giggino su Facebook. E al suo fianco c’era l’amico di sempre: Ale Di Battista.
Nemmeno lui, il quasi gemello, ha retto alla svolta dorotea. I Cinque stelle adesso vantano la stessa linea di Forza Italia, architrave azzurra del governo di Super Mario. Anche in questo caso, vale la pena di ripescare le insolenze. Berlusconi, per Grillo, era «mafioso», «senza prostata», «sotto azoto liquido», «testa asfaltata», «Big Jim». Che colpo al cuore. «Ci sono vari modi per suicidarsi» premette Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, inconsolabile vedovo di Giuseppi. «Il meno onorevole è consegnarsi volontariamente» allo «psiconano». Meglio allora non fargli notare che l’aspirante federatore, dismessa la pochette, già sfoggia un ruspante look total blue, camicia e completo ton sur ton, chiaramente ispirato a quello del Cavaliere in modalità tenebrosa.
Ma è il Che Guevara di Roma Nord il più inconsolabile. Difficile dargli torto. S’è perfino ritrovato, come ministri, tre vecchie conoscenze forziste. Mariastella Gelmini, che Grillo aveva ribattezzato «Enterogelmini», agli Affari regionali. Renato Brunetta, alias «Brunettolo», alla Pubblica amministrazione. E perfino Mara Carfagna, alla guida del dicastero per il Sud. «Immorale che simili politici possano avere ancora ruoli così apicali» conclude Ale.
E nemmeno l’elegante incedere di Giuseppi verso il vertice ontribuisce a consolarlo. Ma lui, almeno, è fuori dal parlamento. Non subisce l’ulteriore onta dell’espulsione, a differenza di pezzi da novanta divenuti reietti. Ex ministri, sottosegretari, presidenti di commissione. Come Barbara Lezzi, Alessio Villarosa o Nicola Morra. Certo, il primo atto del fu avvocato del popolo potrebbe essere l’amnistia generale ai dissidenti, ostili al nuoco esecutivo. II suo portavoce ai tempi di Palazzo Chigi, l’ormai ubiquo Rocco Casalino, affettuosamente «Roccobello», è già all’opera per ricomporre divisioni che sembrano insanabili. Se riuscisse nell’impresa, sarebbe un ritorno trionfale: da Rasputin del Movimento. A lui toccherebbe distruggere e comporre, blandire e punire, promettere e sconfessare. Evitare, insomma, che gli inevitabili schizzi di fango possano raggiungere l’immacolato Giuseppi. Rocco, nel frattempo, continua a coltivare un sogno inconfessabile: diventare, prima o poi, ministro.
Comunque vada, l’aria resta mefitica. E se i Cinque stelle sono nel caos, il Pd è nel marasma: rivendicazioni correntizie, accuse di sessismo e crisi identitarie. Il segretario, Nicola Zingaretti, più che all’invincibile commissario Salvo Montalbano, interpretato dal fratello Nicola, sembra ormai assomigliare ad Agatino Catarella, l’impacciato centralinista. Insieme all’immarcescibile Goffredo Bettini resta il teorico di un’indissolubile alleanza con i Cinque stelle. Tanto da aver chiamato, in qualità di governatore laziale, i grillini in giunta. Il buon esempio dovrebbe servire a facilitare la strada dell’alleanza sulla via delle amministrative, rinviate al prossimo autunno. Appuntamento cruciale, per testare il futuro della coalizione ai tempi del governissimo. Peccato che, Napoli a parte, Pd e Cinque stelle marcino divisi ovunque, con il rischio di favorire ulteriormente il centrodestra. A Milano, Torino, Bologna. E in particolare a Roma: la pentastellata Virginia Raggi s’è già ricandidata, ma il Pd punta sull’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri.
A far auspicata sintesi arriverà quindi Giuseppi? Il precedente non fa ben sperare. Da premier, lanciò l’accorato appello: «Possibile non avere un momento di sintesi agli appuntamenti regionali? Sarebbe una sconfitta per tutti, anche per me, se non si trovasse un modo per fare un passo avanti». Nessuno s’intenerì. Adesso, potrebbe riprovarci. Certo, l’ipotesi di un Movimento a sua guida, allarma il Nazareno. I cacicchi continuano a passarsi di mano i sondaggi che, con Giuseppi in campo, darebbero il colpo di grazia al Pd. «Ecco il capolavoro di Bettini e Zingaretti: il Pd al 14 per cento» attaccano gli ex renziani, riuniti nella corrente Base Riformista, pronti a spodestare il segretario.
Se Conte tenta di prendersi i voti del Pd, Matteo Renzi aspira a quelli di Forza Italia. Progetto però condiviso con Salvini che, a differenza del discusso conferenziere, è leader del primo partito nei sondaggi. Già, perché resta sempre quel piccolo particolare che, nonostante l’attivismo dell’ex Rottamatore, sta diventando il vero tratto distintivo di Italia viva: l’ormai conclamata idiosincrasia degli italiani verso il «senatore semplice» di Scandicci. Che Matteo venga erroneamente considerato artefice dell’avvento di Draghi, poco importa. Lui, sempre e comunque, resta inchiodato al 2 per cento. E di certo non aiutano le polemiche sui lautamente retribuiti viaggi in Arabia Saudita e le lodi dispensate al regime. Se qualcosa non cambia, tra due anni tutti a casa. Così c’è già chi chiede un congresso di Italia viva, «per chiarire il posizionamento». È la scissione dell’atomo. Quella già sperimentata da Leu, l’assemblement più radicale. Sinistra italiana contraria. E Articolo Uno favorevolissimo a Draghi. D’altronde il leader della sigla più accomodante, Roberto Speranza, è stato riconfermato ministro della Salute, a dispetto dell’inerzia nella seconda ondata del virus e la rassicurazione che i capi partito non sarebbero entrati nel governo.
Insomma, non resta che affidarsi a Giuseppi. Certo, voleva essere il re della giungla giallorossa, invece dovrà accontentarsi di fare il domatore dello zoo pentastellato. E un lupo pronto ad azzannarlo: Di Maio. Anzi, un «coniglio mannaro», docile e feroce, come veniva chiamato l’ex leader Dc, Arnaldo Forlani. Perché è vero che la politica, assicurava Baffino, è «una malattia da cui non si guarisce mai». Ma è pure, citando Rino Formica, «sangue e merda». E la guerra tra pentastellati potrebbe incenerire i residui sogni di gloria del giurista di Volturara Appula. A quel punto non gli resterebbe che il piano c: un partitino personale. Il nome, da tempo, c’è già: Con Te. Come il titolo dei libretti per il catechismo distribuiti ai bambini.
Partito Demcratico: «Grande è la confusione sotto al cielo»

Per dirla con la celebre frase di Mao Tse-tung, dopo la mossa spiazzante di Nicola Zingaretti la formazione più significativa della sinistra vive l’ennesima convulsione interna. Ancora più balcanizzata tra riformisti e ortodossi, post-renziani e filo-grillini, highlander democristiani e quote femminili. La resa dei conti è alle porte. Ma il segretario è pronto a rientrare.
di Giorgio Gandola
«Serve un percorso di rigenerazione». A metà strada fra un telefonino usato e la cartuccia di una stampante, il Pd affronta la primavera più crudele. Quello che 76 anni fa per Palmiro Togliatti era «il partito nuovo», oggi per Lorenzo Guerini e Luca Lotti dovrebbe almeno essere «un partito rigenerato» come un vecchio Samsung; proprio per questo si sono messi l’elmetto, pronti alla scalata al palazzo d’inverno che Nicola Zingaretti ha deciso di abbandonare nell’ora più amara.
«È uno stillicidio, il bersaglio sono io, qui da un mese non si parlava altro che di poltrone», ha detto il segretario mentre gettava la spugna dopo due anni alla guida della balena rossa. Poiché continua ad avere la maggioranza dei consensi (66 per cento) potrebbe rientrare già nell’assemblea nazionale, legittimato per altri due anni, con la conferma delle alleanze e le liste elettorali in mano. Una sliding door per blindarsi meglio dopo avere stanato i nemici interni.
È indispensabile l’anatomia di una disfatta perché è in atto la consueta balcanizzazione cara alla sinistra, questa volta per colpa degli errori strategici del segretario. I riformisti chiedevano il congresso anticipato, non vogliono grillini nelle vicinanze e guardano al centro. Loro a tavola preferiscono il rosé. Al comitato centrale la ribellione soft non è mai piaciuta; il vicesegretario Andrea Orlando definiva gli oppositori «scorie e rigurgiti del passato centrista renziano». Quelli replicavano: «Se volete la guerra avrete la guerra, noi al profilo riformista non rinunceremo mai».
In una sulfurea riunione di corrente Lotti ha paventato «il ritorno dei Ds» e uno dei suoi lo ha corretto: «Di’ pure dei comunisti». Nonostante il poco bolscevico endorsement di Zinga per Barbara D’Urso volavano stracci quotidiani. Al Nazareno la contrapposizione fra veterodem e riformisti è sempre più frontale. E adesso la guerra vera sarà fra i tre ministri: Orlando, Franceschini e Guerini, leader delle tre anime più consistenti. Il problema principale è l’accordone con il Movimento 5 stelle e la conseguente perdita d’identità: per un anno intero il Pd si è ritrovato grillino e contiano. Il sondaggio Swg lo hanno visto tutti; con Giuseppe Conte alla guida, i pentastellati prenderebbero il 21 per cento portando via il 5 per cento proprio ai dem. Più che una fusione, una trasfusione. Al Senato c’era chi scherzava: «Facciamo prima a trasferirci in massa e con una marcia da Pellizza da Volpedo dentro il Movimento».
Zingaretti ha un sogno che per molti è una pia illusione: creare un nuovo Ulivo che vada da Carlo Calenda a Leu, con Grillo a rappresentare i grünen all’italiana. Diceva Max Weber: «In politica chi vuole delle visioni vada al cinema». Però Zinga si era affezionato e minacciava: «Conservo nella memoria del cellulare appelli di candidati sindaci e governatori che mi scongiuravano di aprire alleanze con i Cinque stelle». Poi piangeva sulla spalla di Goffredo Bettini: «Come si fa a guidare un partito che dice sui giornali che si sta dissolvendo?».
Il Pd del vecchio segretario sta a Roma, nel Lazio e poco altrove. Zinga ha scarsi margini di manovra e un certo deficit di carisma: Stefano Bonaccini gli chiese di togliere il simbolo e stare alla larga per non perdere in Emilia. In più è stanco di dover gestire il ribollire di correnti interne e territoriali. Quando ha chiesto al Pd toscano di candidare Conte alle suppletive ha incassato solo pernacchie dalla combattiva Simona Bonafè.
Sembrava un maestro in una turbolenta classe di Harlem. Oltre la sua e Base riformista di Lotti e Guerini – con oltre 50 parlamentari e l’acronimo più assurdo della storia (Br) -, doveva tenere a bada altre cinque sinistre. C’è quella di Orlando (ex Fgci, rosso scuro), che vede bene il matrimonio a cinque stelle. Un giorno lui disse: «Un governo con la Lega nemmeno se lo guida Superman». Appunto. In nome della coerenza e dello statuto, essendo ministro dovrebbe dimettersi da vice ma non ci pensa proprio.
Ci sono i Giovani Turchi di Matteo Orfini che contestano l’appiattimento passivo su Conte nell’anno della pandemia. Poi c’è Areadem di Dario Franceschini, che arriva dalla sacrestia e ha un solido rapporto con il capo dello Stato. Il ministro della Cultura spesso è l’ago della bilancia negli scontri interni. Con perfidia Dagospia lo chiama Giu-Dario perché gli annales narrano (tradunt, dicunt) che l’ultima pugnalata sia sempre la sua.
C’è la corrente francescana di Graziano Delrio, cattolici ultraprodiani, pochi ma compatti e molto vicini nella filosofia terzomondista a Sinistra e Cambiamento di Maurizio Martina. Sono tutte? Chi può dirlo. Come sosteneva Giancarlo Pajetta, «a sinistra bastano due scontenti per fare una scissione».
Congresso sì, congresso no. Zingaretti era fermo sulla linea del Piave del 2023, gli altri lo vogliono subito perché «il 2023 sarà un’altra epoca». In realtà è già pronto l’uomo nuovo, Bonaccini, che mostra un certo attivismo su scala nazionale: ha criticato il chiusurismo a prescindere ed è arrivato a schierarsi con Salvini (vade retro) su ristori e ristoranti. Il governatore piace ai colleghi che guidano roccaforti rosse (il toscano Eugenio Giani) e a sindaci influenti come Giuseppe Sala, Giorgio Gori, Antonio Decaro (numero uno dell’Anci), Dario Nardella, gente avvezza ad affrontare i problemi del cosiddetto Paese reale.
Per loro Bonaccini è affidabile, incarna l’eterno motto della sinistra al lambrusco: «Il socialismo è il capitalismo gestito da noi, andiamo». E poi c’è la questione femminile, che nel Pd somiglia sempre a una seduta dallo psicanalista. Come in una canzone di Fiorella Mannoia, «è difficile spiegare certe giornate amare». Uscito con le ossa rotte dalle nomine governative (tre ministri uomini capicorrente e tante sottosegretarie donne per metterci una pezza), il segretario ha subìto anche qui la crisi d’identità. Non esiste nulla di peggio, per un progressista, della discriminazione di genere. Il fastidio è riassunto in due dichiarazioni al vetriolo. Lia Quartapelle: «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti. Da noi prevale la logica delle correnti e questo è molto deludente». Monica Cirinnà: «Nel Pd esistono aree feudali, territori nei quali alcune persone esercitano un’egemonia pesante. Basta nepotismo». Anche per questo Zinga chiedeva inutilmente a Orlando «fatti più in là»; avrebbe voluto dare la vicesegreteria a Debora Serracchiani, Valeria Fedeli o Cecilia D’Elia.
Fra correnti, partito dei governatori, dei sindaci e delle donne, il segretario era sotto assedio. Da qui la voglia di mollare tutto per candidarsi a sindaco di Roma, sempre che i 5Stelle abiurino Virginia Raggi. Per sentirsi più popolare s’è pure inventato l’operazione simpatia per Carmelita D’Urso e la candidatura a Torino l’ex centrocampista della Juventus Claudio Marchisio, esempio preclaro di populismo acchiappavoti.
Nell’era tecnocratica di Mario Draghi il malessere del partito rosso è profondo e il sindaco fiorentino Nardella lo mette in piazza. Non è un caso che il De Profundis per l’era Zingaretti (anche se dovesse esserci il bis) lo scandisca un ex renziano. «O si cambia davvero o si rischia l’estinzione. Il Pd sta diventando il partito dell’establishment: autoreferenziale, lontano dal Paese reale, legato all’apparato romano, dove comandano le correnti che non si dividono sulle idee ma sui posti». Parole forti mentre tre big e mezzo hanno deciso di darsi alla fuga. Pier Carlo Padoan è scappato in Unicredit, Marco Minniti in Leonardo, Maurizio Martina alla Fao.
Piuttosto che affrontare il Fight Club se n’è andato anche Mattia Santori, gggiovane della sinistra gruberiana da talk show. Il leader delle Sardine ha deciso di fare il testimonial della mortadella per la Cnn con Stanley Tucci. Dallo spunto allo spuntino. La fuga di cervelli dal partito dei presunti cervelli, il segnale che l’era Zingaretti è comunque al tramonto. Nel sottobosco social gira una battuta da ufficio di collocamento: «A meno che uno non voglia fare politica, per qualunque altra carriera la scelta migliore è il Pd».